Nemesis Isaac Asimov Sedeva solo, racchiuso. Fuori c'erano le stelle, e una stella particolare col suo piccolo sistema di mondi. Poteva vederla con l'occhio della mente; nemmeno se avesse deopacizzato la finestra l'avrebbe vista con tanta chiarezza. Una piccola stella, rosso-rosa, il colore del sangue e della distruzione, e con un nome appropriato! Nemesis! Nemesis, la Dea della Punizione Divina. Isaac Asimov NEMESIS (Nemesis, 1989) Nota Questo libro non fa parte della serie della Fondazione, della serie dei Robot, o della serie dell’Impero. È a sé stante. Ho pensato di avvisarvi per evitare equivoci. Certo, può darsi che un giorno scriva un altro romanzo che colleghi questo agli altri… ma non è detto. Dopo tutto, per quanto tempo potrò continuare a spremermi il cervello per tessere queste trame complesse di storia futura? Altro punto. Ho deciso da un pezzo di seguire una regola fondamentale nel mio lavoro di scrittore: essere chiaro. Ho rinunciato a scrivere poeticamente, o simbolicamente, o sperimentalmente, o in qualsiasi altro stile narrativo che (se fossi abbastanza in gamba) potrebbe farmi vincere un premio Pulitzer. Ho sempre voluto scrivere semplicemente in modo chiaro, instaurando così un rapporto cordiale coi miei lettori, e con i critici di professione… Be’, loro possono fare quello che vogliono. Tuttavia, le mie storie si scrivono da sole, temo, e in questo caso mi sono accorto, sgomento, che stavo seguendo un doppio filo conduttore. Una serie di eventi si svolgeva nel presente della storia, e un’altra serie nel passato, ma avvicinandosi progressivamente al presente. Sono certo che questo intreccio non vi creerà alcun problema, ma dato che siamo amici ho pensato di avvertirvi. Prologo Sedeva solo, racchiuso. Fuori c’erano le stelle, e una stella particolare col suo piccolo sistema di mondi. Poteva vederla con l’occhio della mente; nemmeno se avesse deopacizzato la finestra l’avrebbe vista con tanta chiarezza. Una piccola stella, rossorosa, il colore del sangue e della distruzione, e con un nome appropriato. Nemesis! Nemesis, la Dea della Punizione Divina. Pensò di nuovo alla storia che aveva sentito una volta quand’era giovane… una leggenda, un mito, la storia di un Diluvio Universale che aveva spazzato via un’umanità degenere e peccaminosa, risparmiando un’unica famiglia con cui ricominciare. Nessun diluvio, questa volta. Solo Nemesis. La degenerazione dell’umanità era ritornata e la Nemesis che l’avrebbe colpita era un castigo adeguato. Non si sarebbe trattato di un Diluvio Universale. Nulla di così semplice. E se anche ci fossero stati dei superstiti… Dove sarebbero andati? Come mai lui non provava dispiacere? L’umanità non poteva continuare così. Stava morendo lentamente per i propri misfatti. Invece di una morte lenta e atroce, una morte molto più rapida… Perché rammaricarsi? Lì, in orbita attorno a Nemesis, un pianeta. Un satellite che ruotava attorno al pianeta. E Rotor attorno al satellite. Quell’antico Diluvio aveva condotto in salvo alcuni uomini in un’Arca. Lui aveva solo un’idea molto vaga di cosa fosse l’Arca, ma Rotor era l’equivalente dell’Arca. Trasportava un campione di umanità, che sarebbe rimasto al sicuro e avrebbe costituito la base per la costruzione di un mondo nuovo e molto migliore. Ma per il vecchio mondo… soltanto Nemesis! Pensò ancora alla stella. Una nana rossa, che seguiva inesorabile la sua rotta. La stella e i suoi mondi erano al sicuro. La Terra no. Nemesis stava avanzando, Terra! Per infliggere la Punizione Divina! 1 Marlene I L’ultima volta che aveva visto il Sistema Solare, Marlene aveva poco più di un anno. Non lo ricordava, naturalmente. Aveva letto parecchio sull’argomento, ma malgrado le letture aveva sempre avvertito il Sistema Solare come qualcosa di estraneo a lei, che non le apparteneva. Nei suoi quindici anni di vita, ricordava solo Rotor. Lo aveva sempre considerato un mondo grande. Aveva un diametro di otto chilometri, in fin dei conti. Di tanto in tanto da quando aveva dieci anni (una volta al mese, quando poteva) lo percorreva per fare del moto, prendendo, a volte, le corsie a bassa gravità per poter galleggiare un po’. Era sempre divertente. Sia che lei galleggiasse, sia che camminasse, Rotor continuava interminabile, coi suoi edifici, i suoi parchi, le sue fattorie, e soprattutto i suoi abitanti. Marlene impiegava un giorno intero a percorrerlo, ma sua madre non aveva nulla in contrario. Diceva che Rotor era perfettamente sicuro. «Non come la Terra» diceva. Però non spiegava come mai la Terra non fosse sicura. «Non importa» tagliava corto. La cosa che a Marlene piaceva di meno erano le persone. Sessantamila abitanti su Rotor, stando al nuovo censimento. Molti. Troppi. Ognuno di loro mostrava una faccia falsa. Marlene detestava vedere quelle facce false, sapendo che sotto si nascondeva qualcosa di diverso. Né poteva fare commenti. A volte aveva provato, quand’era più giovane, ma sua madre si era arrabbiata e le aveva detto che non doveva mai dire certe cose. Crescendo, la falsità degli altri le era apparsa in modo ancor più chiaro, ma le aveva dato meno fastidio. Marlene aveva imparato ad accettarla e a stare il più possibile da sola, coi propri pensieri. Ultimamente, i suoi pensieri erano rivolti spesso a Eritro, il pianeta attorno a cui orbitavano da tanti anni, quasi da una vita per lei. Marlene non sapeva come mai quei pensieri le passassero per la testa, ma a tempo perso raggiungeva la piattaforma panoramica e fissava bramosa il pianeta. Le sarebbe piaciuto trovarsi là… proprio là, su Eritro. Sua madre, spazientita, le chiedeva come mai desiderasse andare su un pianeta arido e deserto, ma Marlene non aveva mai una risposta. Non lo sapeva. «Lo desidero, e basta» diceva. Lo stava osservando, ora, sola sulla piattaforma panoramica. I rotoriani non andavano quasi mai sulla piattaforma. Avevano già visto tutto quanto, probabilmente, e chissà perché non avevano lo stesso interesse di Marlene per Eritro. Eccolo; in parte illuminato, in parte buio. Marlene ricordava in modo vago due braccia che la reggevano e le mostravano Eritro emergere dallo spazio; ricordava di averlo visto di tanto in tanto, sempre più grande, via via che Rotor si avvicinava lentamente tanti anni fa. Era un ricordo vero? In fin dei conti, lei aveva quasi quattro anni allora, quindi forse lo era. Ma adesso a quel ricordo, vero o falso che fosse, si sovrapponevano altri pensieri, la percezione sconcertante delle dimensioni di un pianeta. Eritro aveva un diametro di oltre dodicimila chilometri, non di otto chilometri. Erano dimensioni che Marlene non era in grado di afferrare. Eritro non sembrava così grande sullo schermo, e lei non riusciva a immaginare di trovarsi sulla sua superficie e di spingere lo sguardo per centinaia di chilometri, o addirittura migliaia. Però sapeva che voleva farlo. Lo desiderava moltissimo. Ad Aurinel non interessava Eritro, purtroppo. Aurinel diceva di avere altro a cui pensare; prepararsi per l’università, per esempio. Aveva diciassette anni e mezzo. Marlene ne aveva appena compiuti quindici. Una differenza minima dal momento che le ragazze si sviluppavano e maturavano più in fretta, pensò con un moto di ribellione. Almeno, avrebbero dovuto avere uno sviluppo più rapido. Marlene si guardò e, delusa e costernata come al solito, rifletté che il suo aspetto era ancora quello di una bambina, bassa e tozza. Guardò di nuovo Eritro, grande, bello, e leggermente rosso nella zona illuminata. Era abbastanza grande da essere un pianeta, ma in realtà si trattava di un satellite. Ruotava attorno a Megas, ed era Megas (ancora più grande) il vero pianeta, anche se tutti si riferivano a Eritro usando quel termine. Megas ed Eritro, e Rotor, ruotavano attorno alla stella Nemesis. «Marlene!» Marlene udì la voce alle sue spalle e capì che si trattava di Aurinel. Negli ultimi tempi le era capitato sempre più spesso di ritrovarsi senza parole con lui, e per un motivo imbarazzante. Le piaceva il modo in cui lui pronunciava il suo nome. Lo pronunciava correttamente. Tre sillabe: MarLEne, facendo vibrare lievemente la «r». Le bastava sentirlo per provare un senso di eccitazione. Si girò. «Ciao, Aurinel» farfugliò, cercando di non arrossire. Lui le sorrise. «Stai fissando Eritro, vero?» Marlene non rispose alla domanda. Logico che stesse osservando Eritro. Tutti sapevano che era attratta da Eritro. «Come mai sei qui?» ("Dimmi che mi stavi cercando" pensò.) «Mi ha mandato tua madre.» ("Oh, be’…") «Perché?» «Ha detto che eri di cattivo umore e che, quando sei depressa, vieni quassù. Mi ha incaricato di venire a prenderti perché restando qui diventi solo più scontrosa. Perché sei di cattivo umore?» «Non sono di cattivo umore. E se lo sono, c’è un motivo.» «Quale? Su, non sei più una bambina. Sarai capace di esprimerti.» Marlene aggrottò le ciglia. «Mi esprimo benissimo, grazie. Il motivo è semplice, mi piacerebbe viaggiare.» Aurinel rise. «Hai viaggiato, Marlene. Hai viaggiato per più di due anni luce. Nella storia del Sistema Solare nessuno ha mai percorso nemmeno una piccola parte di anno luce… Tranne noi. Quindi non puoi lamentarti. Tu sei Marlene Insigna Fisher, Viaggiatrice Galattica.» Marlene soffocò una risatina. Insigna era il nome da nubile di sua madre; ogni volta che la chiamava così, pronunciando il suo nome per intero, Aurinel salutava militarmente con una smorfia, ed era da un pezzo che non lo faceva. Probabilmente perché ormai era un adulto e doveva abituarsi ad assumere un atteggiamento dignitoso, rifletté Marlene. Disse: «Non ricordo affatto quel viaggio. Non posso ricordarmelo. E se non lo ricordo, non conta. Siamo qui, a oltre due anni luce dal Sistema Solare, e non torneremo più». «Come lo sai?» «Via, Aurinel. Hai mai sentito parlare di un nostro ritorno? Non ne parla nessuno.» «Be’, anche se non torneremo, che importa? La Terra è un mondo affollato, e tutto il Sistema Solare ormai non aveva più nulla da offrire. Stiamo meglio qui… padroni di tutto quello che osserviamo.» «Non è vero. Osserviamo Eritro, però non scendiamo laggiù a dominarlo.» «Sì, invece. Abbiamo una Cupola che funziona perfettamente su Eritro. Lo sai.» «Non è per noi. Solo per qualche scienziato. Sto parlando di noi. Non ci permettono di andare in quel posto.» «Questione di tempo» disse allegro Aurinel. «Già, quando sarò vecchia. O morta.» «Dai, la situazione non è poi così brutta. Comunque, vieni via da questo posto, tuffati nel mondo e fai felice tua madre. Non posso stare qui. Ho delle cose da fare. Dolorette…» A Marlene ronzarono le orecchie. Non sentì le parole successive di Aurinel. Le era bastato sentire… Dolorette! Marlene odiava Dolorette, che era alta e… e vacua. Ma tanto era inutile. Aurinel le stava attorno, e guardandolo Marlene capì subito quali fossero i suoi sentimenti per Dolorette. E adesso lo avevano mandato lì, a cercare lei… uno spreco di tempo. Marlene glielo leggeva in faccia: era ansioso di tornare da… da quella Dolorette. (Perché riusciva sempre a intuire tutto? A volte era così sgradevole!) All’improvviso, Marlene provò il desiderio di ferirlo, di trovare le parole giuste per farlo soffrire. Parole vere, però. Non voleva mentirgli. «Non torneremo più nel Sistema Solare» disse. «Io so perché.» «Oh, perché?» Vedendo che Marlene esitava, Aurinel aggiunse: «Qualche mistero?» Marlene rimase indecisa. Non avrebbe dovuto parlarne. «Non voglio dire nulla» rispose. «È una cosa che io non dovrei sapere.» Ma voleva dirla. In quel momento, voleva che tutti soffrissero. «Però a me la dirai. Siamo amici, no?» «Davvero?» chiese Marlene. «D’accordo, parlerò. Non torneremo più perché la Terra sarà distrutta.» Aurinel ebbe una reazione che la sorprese. Scoppiò in una risata fragorosa. Si calmò solo dopo alcuni istanti, e lei lo fissò torva, indignata. «Marlene, dove hai sentito questa storia? Hai guardato qualche thriller, eh?» «No!» «Ma allora come puoi dire una cosa del genere?» «Perché lo so. Lo capisco. Da quello che la gente dice e non dice, da quello che fa senza rendersene conto. E dalle informazioni che mi fornisce il computer quando lo interrogo nel modo giusto.» «Quali informazioni? Sentiamo un esempio.» «Non ho intenzione di dirtelo.» «E se fosse tutto frutto della tua immaginazione?» osservò Aurinel, alzando due dita. «Forse la spiegazione è questa. È possibile, non credi?» «No, impossibile. La Terra non sarà distrutta subito… magari accadrà solo tra migliaia di anni… però sarà distrutta.» Marlene annuì, l’espressione serissima. «E nulla potrà impedirlo.» Quindi si girò e si allontanò, infuriata con Aurinel perché dubitava di lei. E non dubitava soltanto. No. Pensava che fosse pazza. Ecco! Lei aveva parlato troppo ed era stato inutile; non aveva ottenuto nulla. Era tutto sbagliato. Aurinel la stava seguendo con lo sguardo. Sul suo bel volto non c’era più traccia di riso, e una certa inquietudine stava increspando la pelle tra le sopracciglia. II Eugenia Insigna aveva raggiunto la mezz’età durante il viaggio verso Nemesis e la lunga permanenza dopo l’arrivo. Nel corso degli anni si era detta periodicamente, come monito: "Siamo qui per restarci tutta la vita… la nostra vita, e quella dei nostri figli che hanno di fronte a sé un futuro ignoto". Quel pensiero la opprimeva continuamente. Perché? Sapeva che era la conseguenza inevitabile di quel che avevano fatto dal momento in cui Rotor aveva lasciato il Sistema Solare. Tutti su Rotor (tutti volontari) lo sapevano. Chi non aveva avuto il coraggio di affrontare la separazione definitiva aveva abbandonato Rotor prima della partenza, e tra le persone rimaste indietro c’era… Eugenia non terminò il pensiero. L’assillava spesso, e lei cercava sempre di lasciarlo in sospeso. Adesso erano lì su Rotor, ma Rotor era la loro «casa»? Per Marlene sì; non aveva mai conosciuto nient’altro. Ma per lei, Eugenia? La sua casa erano la Terra, la Luna, il Sole e Marte, e tutti gli altri mondi che avevano accompagnato l’umanità attraverso la storia e la preistoria, che avevano accompagnato la vita fin dagli albori. Lì su Rotor Eugenia non si sentiva nel proprio ambiente naturale, nemmeno ora. Del resto, aveva trascorso i primi ventotto anni della sua vita nel Sistema Solare, e dal ventunesimo al ventitreesimo anno era stata addirittura sulla Terra per gli studi di specializzazione. Strano che di tanto in tanto si soffermasse a pensare alla Terra. La Terra non le era mai piaciuta. Non le piacevano quelle folle, la sua organizzazione scadente, l’anarchia nelle cose importanti e il rigore governativo nelle cose di poco conto. Non le piacevano gli scoppi di maltempo della Terra, le cicatrici che deturpavano il territorio, l’oceano desolato. Era tornata su Rotor colma di gratitudine, e con un nuovo marito al quale aveva cercato di far accettare il suo caro piccolo mondo orbitante… perché anche lui, pur essendo nato in un ambiente diverso, imparasse ad apprezzarne l’ordine e il benessere. Ma lui aveva notato solo le ridotte dimensioni di Rotor. «In sei mesi l’hai visto tutto» aveva commentato. E anche Eugenia aveva smesso di interessargli, ben presto. Oh, be’… Tutto si sarebbe risolto. Non per lei, Eugenia Insigna, per sempre alla deriva tra mondi differenti. Ma per i figli, sì. Eugenia era una creatura di Rotor e poteva vivere senza la Terra. Marlene era una creatura esclusivamente di Rotor, in pratica, e poteva vivere senza il Sistema Solare, a parte la sensazione vaga di avere avuto origine in quel luogo. I suoi figli non avrebbero avvertito neppure quella lieve sensazione, e non avrebbero avuto alcun problema. Per loro, la Terra e il Sistema Solare sarebbero stati soltanto una specie di mito, mentre Eritro sarebbe diventato un mondo in rapido sviluppo. Eugenia lo sperava. Marlene aveva già una strana fissazione per Eritro, anche se si era manifestata solo negli ultimi mesi e avrebbe potuto scomparire altrettanto in fretta. Tutto sommato, lamentarsi sarebbe stato il colmo dell’ingratitudine. Nessuno avrebbe potuto immaginare l’esistenza di un mondo abitabile in orbita attorno a Nemesis. Le condizioni che creavano l’abitabilità erano eccezionali. Valutando le probabilità e aggiungendo la vicinanza di Nemesis al Sistema Solare, quello che era successo sembrava a dir poco incredibile. Eugenia rivolse la propria attenzione ai rapporti giornalieri, che il computer si accingeva a trasmetterle con la pazienza infinita di una macchina. Ma prima che Eugenia potesse richiederli giunse il segnale della segretaria, e una voce bassa scaturì dal minuscolo altoparlante fissato alla spalla sinistra del suo vestito. «Aurinel Pampas desidera vederla. Non ha appuntamento.» Eugenia fece una smorfia, poi ricordò di averlo mandato in cerca di Marlene. «Fallo entrare» rispose. Lanciò una rapida occhiata allo specchio, e vide che aveva un aspetto discreto. Secondo lei, non dimostrava i suoi quarantadue anni. Si augurava che anche gli altri avessero quell’impressione. Forse poteva sembrare sciocco preoccuparsi del proprio aspetto perché un diciassettenne stava per entrare, ma Eugenia Insigna aveva notato con che espressione la povera Marlene guardava quel ragazzo, un’espressione rivelatrice. Per Aurinel, che era tanto orgoglioso del proprio corpo, Marlene, che non era riuscita ancora a liberarsi del suo aspetto adolescenziale paffuto, avrebbe rappresentato sempre e soltanto una bambina divertente. Eugenia ne era convinta. Tuttavia, se era destinata a provare una delusione, a fallire, Marlene non doveva pensare che sua madre avesse contribuito a quel fallimento in qualche modo, magari non sfoggiando tutto il suo fascino di fronte al ragazzo. "Darà la colpa a me, in ogni caso" rifletté Eugenia sospirando, mentre il ragazzo entrava con un sorriso che rivelava ancora una certa timidezza adolescenziale. «Be’, Aurinel, hai trovato Marlene?» «Sì, signora. Proprio dove aveva detto lei. E le ho detto che lei voleva che venisse via.» «E come sta?» «Ecco, dottoressa Insigna… non so se sia depressione o qualcos’altro, ma Marlene ha un’idea abbastanza strana in testa. Forse non dovrei parlargliene… Marlene non sarebbe d’accordo, credo.» «Be’, nemmeno a me piace farla spiare, ma spesso ha delle strane idee e mi preoccupa. Raccontami cos’ha detto, per favore.» Aurinel scosse la testa. «Va bene, però non le dica che ho parlato, eh? È proprio una cosa assurda. Ha detto che la Terra sarà distrutta.» Il ragazzo si aspettava che la dottoressa scoppiasse a ridere. Eugenia non rise. Invece, sbottò: «Cosa? Perché ha detto una cosa del genere?» «Non lo so, dottoressa Insigna. È una ragazzina molto intelligente, ma a volte le vengono delle idee così strampalate. O può darsi che mi abbia preso in giro.» «Già, molto probabile. Ha uno strano senso dell’umorismo. Ascolta, questa cosa deve rimanere tra noi. Non voglio che comincino a circolare delle stupidaggini. Capito?» «Certo, signora.» «Parlo seriamente. Nemmeno una parola, mi raccomando.» Aurinel annuì deciso. «Ma grazie per avermi informata. Era importante mettermi al corrente. Parlerò a Marlene e scoprirò qual è il problema… e non le dirò che sei stato tu a riferirmi tutto.» «Grazie… Solo una domanda, però, signora…» «Sì?» «La Terra sarà distrutta?» Eugenia Insigna lo fissò e si sforzò di ridere. «Certo che no! Adesso puoi andare.» Lo seguì con lo sguardo. Non era stata una smentita troppo convincente, rifletté con rammarico. III Janus Pitt aveva un aspetto imponente, che lo aveva aiutato nella sua ascesa al potere come Commissario di Rotor. Nella fase iniziale della formazione delle Colonie si era insistito molto sulle persone di statura non superiore alla media, preoccupandosi di ridurre le esigenze di spazio e risorse pro capite. Alla fine, quella precauzione era stata giudicata supeflua e accantonata, ma il condizionamento era ancora presente nei geni delle prime Colonie, e il rotoriano medio era tuttora più basso di un paio di centimetri rispetto al cittadino medio delle Colonie sorte in un secondo tempo. Pitt era alto, però, con capelli grigio ferro, una faccia lunga, occhi azzurro cupo, e un corpo ancora in buona forma malgrado i cinquantasei anni d’età. Pitt alzò lo sguardo e sorrise all’ingresso di Eugenia, ma avvertì la solita lieve sensazione di inquietudine. C’era sempre qualcosa di inquietante in lei, di logorante perfino. Le sue Ragioni (con la «R» maiuscola) non erano facili da affrontare. «Grazie per avermi ricevuta senza preavviso, Janus» esordì lei. Pitt bloccò il computer e si appoggiò allo schienale della sedia, assumendo un’aria rilassata. «Via, niente formalità tra noi» disse. «Ci conosciamo da un pezzo.» «E abbiamo vissuto parecchie esperienze insieme» osservò Eugenia. «È vero. Come sta tua figlia?» «È proprio di lei che voglio parlarti. Siamo schermati?» Pitt inarcò le sopracciglia. «Perché schermati? Cosa dobbiamo nascondere? E a chi?» Mentre glielo chiedeva, Pitt si rese conto della strana posizione in cui si trovava Rotor. In pratica, era solo nell’universo. Il Sistema Solare era a oltre due anni luce, e forse non esistevano altri mondi con forme di vita intelligenti nel raggio di centinaia di anni luce… o miliardi di anni luce, magari. I rotoriani potevano anche avere qualche crisi di solitudine e di insicurezza, però non dovevano temere alcuna interferenza esterna. Be’, quasi, pensò Pitt. «Lo sai cosa dobbiamo nascondere» rispose Eugenia. «Sei stato tu a insistere sempre sulla segretezza.» Pitt attivò lo schermo. «Dobbiamo ancora tirare in ballo quell’argomento? Per favore, Eugenia, è tutto sistemato, da quando siamo partiti quattordici anni fa. Lo so che ogni tanto tu ci pensi e rimugini…» «Rimugino? Perché no? È la mia stella.» Eugenia agitò le braccia, quasi a indicare Nemesis. «La responsabilità è mia.» Pitt contrasse la mascella. "Di nuovo questo discorso trito e ritrito?" rifletté. «Be’, siamo schermati. Allora, qual è il problema?» «Marlene. Mia figlia. Non so come, ma lo sa.» «Sa, cosa?» «Sa di Nemesis e del Sistema Solare.» «Impossibile. A meno che non gliel’abbia raccontato tu.» Eugenia Insigna allargò le braccia in un gesto di impotenza. «Io non le ho detto nulla, figurati… ma con lei non c’è bisogno di parlare. Non so come, ma a quanto pare Marlene sente e vede tutto. E dalle piccole cose che sente e che vede ricava il quadro completo. Ha sempre avuto questa capacità, ma nell’ultimo anno l’ha sviluppata moltissimo.» «Be’, fa delle supposizioni e a volte indovina, mi sembra. Dille che si sbaglia, e fai in modo che non ne parli.» «Ma lo ha già detto a un ragazzo, che è venuto e riferirmelo. Ecco come l’ho saputo. Da Aurinel Pampas. È un amico di famiglia.» «Ah, sì. So chi è… più o meno. Basta che tu gli dica di non dare retta alle fantasie di una bambina.» «Non è una bambina. Ha quindici anni.» «Per lui è una bambina, te lo assicuro. Ho detto che un po’ lo conosco, il giovanotto. Ho l’impressione che abbia molta fretta di diventare adulto, e ricordo che quando avevo la sua età le ragazzine di quindici anni non erano degne della minima attenzione, soprattutto quelle…» «Capisco» fece Eugenia sarcastica. «Soprattutto quelle basse, grassocce e bruttine. Il fatto che sia intelligentissima non ha nessuna importanza?» «Per te e per me, certo. Per Aurinel, sicuramente no. Se sarà necessario, parlerò io al ragazzo. Tu parla a Marlene. Dille che è un’idea assurda, che non è vero, e che non deve diffondere delle favole inquietanti.» «Ma se fosse vero?» «Questo non c’entra. Senti, Eugenia, tu ed io abbiamo tenuto nascosta questa eventualità per anni, ed è meglio che continuiamo a tenerla nascosta. Se dovesse diffondersi una voce del genere, verrebbe gonfiata, provocherebbe delle reazioni emotive… del sentimentalismo inutile. Ci distrarrebbe soltanto dal compito a cui ci siamo dedicati da quando abbiamo lasciato il Sistema Solare, e a cui continueremo a dedicarci per generazioni, forse.» Lei lo guardò. Scioccata. Incredula. «Non provi proprio nulla per il Sistema Solare, per la Terra, il mondo su cui ha avuto origine il genere umano?» «Sì, Eugenia, provo sentimenti di tutti i tipi. Ma sono viscerali, e non posso lasciarmi condizionare. Abbiamo abbandonato il Sistema Solare perché pensavamo che per l’umanità fosse giunto il momento di espandersi verso l’esterno. Il nostro esempio sarà seguito da altri, sicuramente; forse sono già in viaggio. Grazie a noi, l’umanità è diventata un fenomeno galattico, e dobbiamo smetterla di pensare in termini ristretti, limitando i nostri orizzonti a un unico sistema planetario. Il nostro compito è qui.» Si fissarono, poi Eugenia disse: «Mi convincerai di nuovo. Mi hai convinta per tanti anni, ormai…». «Già, ma il prossimo anno dovrò farlo ancora, e l’anno dopo, idem. Non vuoi convincerti, Eugenia, e mi stanchi. La prima volta doveva bastare.» E Janus Pitt distolse lo sguardo, tornando a concentrarsi sul computer. 2 Nemesis IV La prima volta che l’aveva convinta era stata sedici anni prima, nel 2220, l’anno eccitante in cui le possibilità della Galassia si erano aperte per loro. Allora Janus Pitt aveva i capelli castano scuro, e non era ancora Commissario di Rotor, anche se tutti lo consideravano un personaggio in ascesa. Però era a capo del Dipartimento dell’Esplorazione e del Commercio, ed era responsabile della Sonda Remota, che in gran parte era frutto delle sue azioni. Era il primo tentativo di spingere la materia nello spazio con un sistema propulsivo iperassistito. A quanto si sapeva, solo Rotor aveva messo a punto l’iperassistenza, e Pitt era stato il più accanito fautore della segretezza. A una riunione del Consiglio aveva detto: «Il Sistema Solare è affollato. Dato il numero delle Colonie spaziali, lo spazio disponibile si riduce sempre più. Perfino la fascia degli asteroidi è solo un palliativo. Ben presto sarà affollatissima anche quella. Inoltre, ogni Colonia ha un proprio equilibrio ecologico, che contribuisce alla separazione e all’isolamento. Il commercio viene soffocato per paura di essere infettati dai parassiti o dagli agenti patogeni di qualcun altro. L’unica soluzione, amici consiglieri, è lasciare il Sistema Solare… senza tanto chiasso, all’improvviso. Partiamo e troviamo una nuova patria, dove potere costruire un nuovo mondo, col nostro tipo di umanità, la nostra società, il nostro modo di vivere. Senza iperassistenza è impossibile… ma noi abbiamo l’iperassistenza. Prima o poi anche qualche altra Colonia scoprirà questa tecnica e partirà. Il Sistema Solare sarà un dente di leone ormai secco che spargerà i suoi semi nello spazio. "Ma se partiremo per primi, forse troveremo un mondo prima che gli altri ci seguano. Potremo insediarci stabilmente, e quando gli altri ci seguiranno e forse si imbatteranno nel nostro nuovo mondo, noi saremo abbastanza forti da mandarli altrove. La Galassia è grande. Dev’esserci per forza qualche altro posto.» C’erano state delle obiezioni, naturalmente, e violente. Alcuni si opponevano per paura… paura di abbandonare il noto per l’ignoto. Altri si opponevano per sentimentalismo… in quanto legati affettivamente al pianeta d’origine. Altri ancora si opponevano per idealismo… il desiderio di diffondere la conoscenza, perché anche gli altri potessero partire. Pitt non si aspettava di spuntarla. Ci era riuscito perché Eugenia Insigna gli aveva fornito l’argomento vincente. Si era rivolta subito a lui… un colpo di fortuna incredibile! Era giovane, allora. Aveva appena ventisei anni; era sposata, ma non era ancora incinta. Era eccitata, rossa in viso, carica di tabulati. Pitt ricordava di averla guardata in cagnesco per quell’intrusione. Era Segretario del Dipartimento, e lei… be’, lei non era nessuno, anche se avrebbe cessato di essere una persona qualsiasi in quel preciso istante. Naturalmente, Pitt non poteva saperlo, ed era seccato perché lei era voluta entrare ad ogni costo… Di fronte all’eccitazione evidentissima della ragazza, Pitt ebbe un sussulto interiore. Intendeva fargli esaminare il materiale astruso che aveva in mano, e con un entusiasmo che lo avrebbe prostrato in breve tempo. Avrebbe dovuto consegnare un riassunto conciso a uno dei suoi assistenti, invece. Pitt decise di dirglielo. «Vedo che ha dei dati da sottoporre alla mia attenzione, dottoressa Insigna. Li guarderò volentieri, a tempo debito. Perché non li lascia a un mio collaboratore?» E indicò la porta, sperando ardentemente che lei si girasse e uscisse. (Negli anni successivi, nei momenti d’ozio, si sarebbe chiesto a volte cosa sarebbe successo se lei fosse uscita, e avrebbe provato un brivido di terrore a quel pensiero.) Ma lei disse: «No, no, signor Segretario, devo assolutamente parlare con lei». Le tremava la voce, come se l’eccitazione interiore fosse insopportabile. «È la più grande scoperta che sia stata fatta da… da…» Rinunciò a specificare da quando. «È la più grande.» Pitt guardò dubbioso i fogli che stringeva. Vibravano, ma lui rimase freddo. Ah, gli specialisti! Pensavano sempre che qualche minuscolo progresso nel loro microsettore avesse una portata sensazionale. Rassegnato, disse: «Be’, dottoressa, può spiegare di che si tratta in parole povere?» «Siamo schermati, signore?» «Perché dovremmo essere schermati?» «Non voglio che qualcun altro senta, finché non sarò sicura… sicurissima… Devo controllare di nuovo, e ricontrollare, per eliminare qualsiasi dubbio. Anche se in realtà non ho alcun dubbio. Non sto parlando in modo sensato, vero?» «Vero» ammise freddo Pitt, posando la mano su un contatto. «Siamo schermati. Sentiamo, dunque.» «È tutto qui. Ora le mostro…» «No. A parole, prima. E concisa.» Lei respirò a fondo. «Signor Segretario, ho scoperto la stella più vicina.» Aveva gli occhi spalancati, e il respiro affannoso. «La stella più vicina è Alfa Centauri, e lo sappiamo da quattro secoli.» «La più vicina a noi nota, non la più vicina in assoluto. Ne ho scoperta una più vicina. Il Sole ha una compagna remota. Pare incredibile, eh?» Pitt la studiò. Tipico. Quelli abbastanza giovani, e abbastanza entusiasti e inesperti, s’infiammavano prematuramente ogni volta. «Ne è sicura?» chiese. «Sì. Davvero. Lasci che le mostri i dati. È la cosa più eccitante che sia successa nel campo dell’astronomia da…» «Ammesso che sia successa. E niente dati. Li guarderò dopo. Mi dica. Se c’è una stella molto più vicina di Alfa Centauri, perché non è stata scoperta prima? Perché l’ha scoperta proprio lei, dottoressa Insigna, e soltanto adesso?» Pitt aveva un tono sarcastico, e se ne rendeva conto, ma apparentemente la ragazza era troppo eccitata per farci caso. «Un motivo c’è. La stella è dietro una nube, una nube scura di pulviscolo che guarda caso si trova tra la stella compagna e noi. Senza l’assorbimento del pulviscolo, sarebbe una stella di ottava magnitudine, e l’avrebbero sicuramente notata. Il pulviscolo riduce la luminosità e la trasforma in una stella di magnitudine diciannove, che si confonde tra milioni e milioni di altre stelle deboli. Non c’era motivo di accorgersene. Nessuno l’ha guardata. Si trova nel cielo australe della Terra, quindi la maggior parte dei telescopi nell’era preColonie non poteva nemmeno puntare in quella direzione.» «E com’è che lei l’ha notata, allora?» «Grazie alla Sonda Remota. Vede, questa Stella Vicina e il Sole cambiano posizione reciproca, naturalmente. Presumo che entrambe stiano ruotando attorno a un centro di gravità comune molto lentamente in un periodo di milioni di anni. Alcuni secoli fa, forse la loro posizione era tale da permetterci di vedere la Stella Vicina in tutta la sua luminosità su un lato della nube, ma avremmo sempre avuto bisogno di un telescopio per vederla, e i telescopi hanno solo sei secoli… anzi, sono ancor più recenti nei punti della Terra da cui la Stella Vicina sarebbe visibile. Tra qualche secolo, si vedrà di nuovo in modo chiaro, brillerà sull’altro lato della nube di pulviscolo. Ma non è necessario che aspettiamo tanto. La Sonda Remota ha provveduto a tutto.» Pitt cominciò ad animarsi, avvertì dentro di sé una sensazione di calore che si irradiava pian piano. «Cioè, la Sonda ha fotografato la parte di cielo contenente la Stella Vicina, ed era abbastanza lontana nello spazio da vedere oltre la nube e individuare la Stella Vicina in tutta la sua luminosità?» «Esatto. Abbiamo una stella di magnitudine otto dove non dovrebbe esserci nessuna stella di magnitudine otto, e lo spettro è quello di una nana rossa. Le nane rosse non sono visibili a grande distanza, quindi ho capito che questa doveva essere molto vicina.» «Sì, ma perché più vicina di Alfa Centauri?» «Naturalmente, ho studiato la stessa area di cielo vista da Rotor, e la stella di magnitudine otto non c’era. Però, abbastanza vicino, c’era una stella di magnitudine diciannove che non era presente nella fotografia scattata dalla Sonda Remota. La stella di magnitudine diciannove doveva essere la stella di magnitudine otto, oscurata, ho immaginato… e il fatto che non fossero esattamente nello stesso posto doveva dipendere dallo spostamento parallattico.» «Sì, so di che si tratta. Un oggetto vicino sembra cambiare posizione rispetto a uno sfondo lontano a seconda che lo si osservi da punti diversi.» «Esatto, ma le stelle sono così lontane che anche se la Sonda si allontanasse di una parte consistente di anno luce il cambiamento di posizione non produrrebbe uno spostamento notevole nelle stelle lontane, ma nelle stelle vicine sì. E nel caso di questa Stella Vicina ha prodotto uno spostamento enorme; relativamente, beninteso. Ho controllato il cielo da posizioni diverse della Sonda durante il suo viaggio verso l’esterno. C’erano tre fotografie scattate nelle fasi in cui si trovava nello spazio normale, e la Stella Vicina era sempre più luminosa via via che la Sonda la osservava avvicinandosi al bordo della nube. Dallo spostamento parallattico, si può calcolare che la Stella Vicina è a una distanza appena superiore a due anni luce. La metà della distanza di Alfa Centauri.» Pitt la fissò pensieroso e, nel lungo silenzio che seguì, Eugenia Insigna fu invasa da un senso di inquietudine e di incertezza. «Segretario Pitt, vuole vedere i dati, adesso?» chiese. «No, mi accontento di quello che mi ha detto. Ora devo porle qualche domanda. Se ho ben capito, le probabilità che qualcuno si concentri su una stella di magnitudine diciannove e cerchi di calcolarne la parallasse e la distanza sono esigue, mi pare.» «Praticamente zero.» «Si può notare in qualche altro modo che una stella oscura dev’essere molto vicina a noi?» «La stella può avere un moto proprio di grande entità… per una stella. Cioè, se la si osserva costantemente, la stella si sposta in cielo lungo una linea più o meno retta, appunto per il suo moto proprio.» «Un fenomeno presente in questo caso?» «Può darsi, ma non tutte le stelle hanno un moto proprio di grande entità, anche se sono vicine a noi. Si muovono in tre dimensioni, e noi vediamo il moto proprio solo in una proiezione bidimensionale. Posso spiegarle…» «No, continuo a fidarmi della sua parola. Questa stella ha un moto proprio di grande entità?» «Ci vorrebbe un po’ di tempo per stabilirlo. Ho alcune fotografie precedenti di quella parte di cielo, e potrei individuare un moto proprio apprezzabile. Dovrei fare altri calcoli.» «Ma, secondo lei, questa stella ha il tipo di moto proprio che colpirebbe gli astronomi se per caso dovessero notarla?» «No, non credo.» «Dunque, è possibile che noi su Rotor siamo gli unici a essere al corrente di questa Stella Vicina, dal momento che siamo gli unici ad avere lanciato una Sonda Remota, eh? È il suo campo, dottoressa Insigna… Noi siamo gli unici ad avere lanciato una Sonda Remota, è d’accordo?» «La Sonda Remota non è un progetto segreto al cento per cento, signor Segretario. Abbiamo accettato degli esperimenti dalle altre Colonie e ne abbiamo discusso con tutti, perfino con la Terra, che non è molto interessata all’astronomia oggigiorno.» «Già, la lasciano alla Colonie, giustamente. Ma qualche altra Colonia ha lanciato una Sonda Remota in segreto?» «Ne dubito, signore. Avrebbero avuto bisogno dell’iperassistenza per farlo, e noi abbiamo tenuto nascosta questa tecnica al cento per cento. Se avessero l’iperassistenza, lo sapremmo. Dovrebbero fare degli esperimenti nello spazio, che li tradirebbero.» «Stando all’Accordo sulla Scienza Aperta, tutti i dati raccolti dalla Sonda Remota devono essere divulgati. Per caso, lei ha già informato…» Eugenia lo interruppe indignata. «Certo che no. Prima di divulgare devo scoprire parecchie altre cose. Per ora ho solo un risultato preliminare, che le sto comunicando in confidenza.» «Però lei non è l’unico astronomo che lavori alla Sonda. Immagino che abbia mostrato i risultati agli altri.» Eugenia Insigna arrossì e distolse lo sguardo. Poi, in atteggiamento difensivo, disse: «No, non l’ho fatto. Ho rilevato questo dato. L’ho approfondito. L’ho interpretato. Io. E voglio essere sicura che il merito spetti a me. C’è una sola stella vicinissima al Sole, e voglio passare agli annali della scienza come la sua scopritrice». «Potrebbe esserci una stella ancor più vicina» osservò Pitt. E, per la prima volta dall’inizio del colloquio, sorrise. «Si saprebbe da un pezzo. Anche la mia stella sarebbe già stata scoperta se non fosse per la presenza estremamente insolita di quella piccola nube oscurante. L’esistenza di un’altra stella, più vicina, è fuori discussione.» «Dunque, il succo del discorso è questo, dottoressa… Lei ed io siamo gli unici a sapere della Stella Vicina. Giusto? Nessun altro?» «Sì, signore. Solo noi due. Per ora.» «Non solo per ora. Deve rimanere un segreto, finché non sarò pronto a dirlo a certe altre persone.» «Ma l’accordo… l’Accordo sulla Scienza Aperta…» «Va ignorato. Ci sono sempre eccezioni a tutto. La sua scoperta riguarda la sicurezza interna della Colonia. E trattandosi della sicurezza interna, non siamo tenuti a divulgare la scoperta. Del resto, non abbiamo divulgato l’iperassistenza, no?» «Ma l’esistenza della Stella Vicina non ha niente a che fare con la sicurezza interna.» «Al contrario, dottoressa Insigna. Forse lei non se ne rende conto, ma ha scoperto qualcosa che potrà cambiare il destino del genere umano.» V Lei rimase a fissarlo, pietrificata. «Siediti. Siamo cospiratori, noi due, e dobbiamo essere amici. D’ora in poi, quando saremo soli, ci daremo del tu. Quindi chiamami Janus, Eugenia.» Lei esitò. «Non mi pare corretto.» «Dovrai adattarti, Eugenia. Non possiamo cospirare mantenendo un atteggiamento freddo e formale.» «Ma io non voglio cospirare con nessuno e per nessun motivo, ecco. E non capisco perché sia necessario non rivelare nulla della Stella Vicina.» «Hai paura di perdere il merito, immagino.» Eugenia ebbe una lievissima esitazione. «Certo, puoi scommettere fino all’ultimo chip del tuo computer che ho paura, Janus. Voglio il giusto riconoscimento.» «Per ora, dimentica la Stella Vicina. Sai che sostengo da parecchio tempo che Rotor dovrebbe lasciare il Sistema Solare. Tu che ne pensi? Ti piacerebbe lasciare il Sistema Solare?» Eugenia si strinse nelle spalle. «Non ne sono sicura. Sarebbe bello vedere da vicino qualche corpo celeste per la prima volta… ma è anche un po’ spaventoso, no?» «Il fatto di andarsene da casa?» «Sì.» «Ma non te ne andresti da casa. È questa la tua casa. Rotor.» Pitt allargò le braccia. «Verrebbe con te.» «D’accordo, signor Se… Janus. Però «casa» comprende anche qualcos’altro, oltre a Rotor. Abbiamo un ambiente circostante, le altre Colonie, il pianeta Terra, l’intero Sistema Solare.» «Un ambiente affollato. Alla fine, alcuni di noi dovranno partire, che lo vogliano o no. Sulla Terra, un tempo, certa gente ha dovuto attraversare catene montuose e oceani. Due secoli fa, dei terrestri hanno dovuto lasciare il loro pianeta per le Colonie. Questo è un altro passo avanti, in una storia vecchissima.» «Capisco, però alcuni non si sono mai mossi. Alcuni sono ancora sulla Terra. C’è gente che vive in una piccola regione della Terra da innumerevoli generazioni.» «E tu vuoi essere «stanziale» come loro.» «Mio marito Crile, sì, credo. È molto schietto riguardo le tue idee, Janus.» «Be’, c’è libertà di parola e di opinione su Rotor, quindi può benissimo non essere d’accordo con me. C’è qualcos’altro che vorrei chiederti. Quando la gente in generale, su Rotor o altrove, pensa di allontanarsi dal Sistema Solare, che destinazione ha in mente?» «Alfa Centauri, logico. Tutti credono che sia la stella più vicina. Anche con l’iperassistenza, in media non potremmo superare la velocità della luce, quindi impiegheremmo quattro anni. Qualsiasi altra destinazione richiederebbe molto più tempo, e un viaggio di quattro anni è già abbastanza lungo.» «E se fosse possibile viaggiare ancora più velocemente e spingersi molto più in là di Alfa Centauri? In tal caso, dove andresti?» Eugenia rifletté alcuni istanti prima di rispondere. «Punterei sempre su Alfa Centauri, credo. Sarebbe ancora nel vecchio settore celeste. Le stelle di notte sembrerebbero ancora le stesse. Ci sentiremmo a nostro agio. Saremmo più vicini a casa, se volessimo tornare. E poi, Alfa Centauri A, la stella più grande di quel sistema triplo, è in pratica una gemella del Sole. Alfa Centauri B è più piccola, ma non di molto. Anche ignorando Alfa Centauri C, una nana rossa, si avrebbero sempre due stelle al prezzo di una, per così dire… due serie di pianeti.» «Supponiamo che una Colonia sia partita per Alfa Centauri, abbia trovato condizioni di abitabilità soddisfacenti e si sia stabilita lì iniziando la costruzione di un nuovo mondo, e supponiamo che nel Sistema Solare sappiano tutto questo. Dove andrebbero le Colonie successive, una volta deciso di lasciare il Sistema Solare?» «Raggiungerebbero Alfa Centauri, naturalmente» rispose Eugenia senza esitare. «Dunque, il genere umano tenderebbe ad andare nel posto ovvio, e in caso di riuscita da parte di una Colonia le altre la seguirebbero in fretta, e, a un certo punto, il nuovo mondo sarebbe congestionato come il vecchio, ci sarebbero molte popolazioni con molte culture, molte Colonie con numerose ecologie.» «E arriverebbe il momento di spingersi verso altre stelle.» «Però il successo in un posto attirerà sempre altre Colonie, Eugenia. Una stella salubre, un buon pianeta, e gli altri accorreranno in massa.» «Immagino di sì.» «Ma se raggiungeremo una stella che è solo a poco più di due anni luce, la metà della distanza di Alfa Centauri, e nessuno a parte noi saprà nulla di questa stella, chi ci seguirà?» «Nessuno… finché non scopriranno l’esistenza della Stella Vicina.» «Una scoperta che potrebbe richiedere parecchio tempo, però. E intanto, tutti punteranno in massa su Alfa Centauri, o tra le poche destinazioni ovvie ne sceglieranno un’altra. Non noteranno mai una nana rossa a due passi da casa, o se la noteranno la riterranno subito non adatta all’uomo… se non sapranno che degli esseri umani sono già là, al lavoro.» Eugenia fissò Pitt, incerta. «Ma questo che significa? Immaginiamo pure di raggiungere la Stella Vicina in gran segreto. Qual è il vantaggio?» «Avremo un mondo tutto per noi. Se ci sarà un pianeta abitabile…» «Non ci sarà. Non attorno a una nana rossa.» «Allora potremo usare le materie prime che troveremo là per costruire tutte le Colonie che vorremo.» «Insomma, avremo più spazio.» «Sì. Molto più spazio, tutto lo spazio che gli altri, seguendoci, ci ruberebbero.» «Guadagneremo solo un po’ di tempo, Janus. Alla fine occuperemo tutto lo spazio disponibile in quel sistema, anche se saremo soli. Impiegheremo cinquecento anni invece di duecento. Non vedo la differenza.» «C’è una differenza enorme, Eugenia. Se lasceremo che le Colonie si ammassino a loro piacimento avremo mille culture diverse, che porteranno con sé tutti gli odii e i disadattamenti della triste storia terrestre. Se saremo soli, invece, potremo costruire un sistema di Colonie uniforme in quanto a cultura ed ecologia. Sarà una situazione molto migliore… meno caotica, meno anarchica.» «Meno interessante. Meno variegata. Meno viva.» «Niente affatto. Ci diversificheremo, ne sono sicuro. Le varie Colonie avranno delle differenze individuali, ma almeno queste differenze deriveranno da una base comune. E, proprio per questo, sarà un gruppo di Colonie molto migliore. E anche se mi sbaglio, mi pare che sia un esperimento a cui non possiamo rinunciare. Perché non dedichiamo una stella a questo tentativo di sviluppo ragionato e vediamo se funziona? Possiamo prendere una stella, una nana rossa che normalmente non interesserebbe a nessuno, e usarla, per vedere se siamo in grado di costruire un nuovo tipo di società, possibilmente migliore. Vediamo cosa siamo in grado di fare quando le nostre energie non sono spezzettate e logorate da inutili divergenze culturali, quando il nostro complesso biologico non viene alterato continuamente da assalti ecologici esterni.» Eugenia Insigna fu toccata da quelle parole. Anche se non avesse funzionato, l’umanità avrebbe imparato qualcosa… che quel sistema non funzionava. E se, invece, avesse funzionato? Poi però scosse la testa. «È un sogno inutile. La Stella Vicina sarà scoperta indipendentemente, per quanto cerchiamo di tenere nascosta la sua esistenza.» «La tua scoperta è stata in parte fortuita, no, Eugenia? Sii sincera. Per caso hai notato la stella. Per caso l’hai confrontata con quello che compariva su un’altra carta. Poteva sfuggirti, no? Può darsi che sia sfuggita ad altri in circostanze simili, no?» Eugenia Insigna non rispose, ma per Pitt la sua espressione era eloquente. La voce di Janus Pitt era più bassa, quasi ipnotica. «Basta che il segreto rimanga tale per appena cent’anni. Se avremo cent’anni tutti per noi, per costruire la nostra nuova società, saremo abbastanza forti e numerosi da proteggerci e da costringere gli altri a proseguire verso altri mondi. Dopo di che non dovremo più nasconderci.» Eugenia restò ancora in silenzio. «Ti ho convinta?» chiese Pitt. Lei parve scuotersi. «Non del tutto.» «Allora pensaci, e dovresti farmi solo un favore. Mentre ci pensi, non parlare a nessuno della Stella Vicina, e dammi tutti i dati in tuo possesso perché li custodisca al sicuro. Non li distruggerò. Te lo prometto. Ci serviranno se vogliamo raggiungere la Stella Vicina. Ti senti di fare almeno questo, Eugenia?» «Sì» rispose lei con un filo di voce. Poi si infervorò. «Una cosa, però… Il nome alla stella voglio darlo io. Se le darò un nome, sarà la mia stella.» Pitt abbozzò un sorriso. «Come vuoi chiamarla? La Stella di Insigna? La Stella di Eugenia?» «No. Non sono così sciocca. Voglio chiamarla Nemesis.» «Nemesis? NEMESI?» «Sì.» «Perché?» «Verso la fine del ventesimo secolo, per un breve periodo si sono fatte delle ipotesi circa l’esistenza di una stella compagna del Sole. Non si è concluso nulla, all’epoca. Non è stata trovata nessuna stella del genere, però negli studi dedicati ad essa, quella stella ipotetica veniva chiamata «Nemesis». Io vorrei onorare così quei pensatori audaci.» «Nemesis? Non era il nome di una divinità greca? Di una divinità poco simpatica?» «Era la Dea della Giustizia Distributrice, del Giusto Castigo, della Punizione. È un’espressione entrata a far parte della lìngua come termine piuttosto fiorito. Il computer l’ha definito «arcaico» quando ho controllato.» «E perché allora l’avevano chiamata Nemesis?» «Era qualcosa di legato alla nube cometaria. A quanto pare, Nemesis, nella sua rivoluzione attorno al Sole, avrebbe attraversato la nube provocando cataclismi cosmici dagli effetti devastanti per gran parte delle forme di vita terrestri ogni ventisei milioni di anni.» Pitt assunse un’espressione di stupore. «È vero?» «No. L’idea ha avuto vita breve. Comunque, voglio che il nome della stella sia questo. E voglio che, nei documenti ufficiali, risulti che sono stata io a battezzarla Nemesis.» «Promesso, Eugenia. La scoperta è tua, e verrà registrata nei nostri archivi. Alla fine, quando il resto dell’umanità scoprirà la regione nemesiana… è l’aggettivo giusto?… quando la scopriranno, dicevo, tutti sapranno com’è avvenuta la scoperta e il nome dell’artefice. La tua stella, la tua Nemesis, sarà la prima stella, dopo il Sole, a splendere su una civiltà umana, e la prima in assoluto a splendere su una civiltà umana nata altrove.» Pitt osservò Eugenia che si allontanava, e si sentì complessivamente fiducioso. La dottoressa si sarebbe schierata con lui. Permetterle di dare il nome alla stella era stata una mossa perfetta. Sicuramente, avrebbe voluto raggiungere la sua stella, adesso. Sarebbe stata attratta dall’idea di costruire una società logica e ordinata attorno alla sua stella, una civiltà da cui forse sarebbero discese altre civiltà sparse in tutta la Galassia. Poi, mentre avrebbe potuto rilassarsi pregustando un futuro fulgido, Janus Pitt fu scosso da un brivido di orrore che gli era completamente estraneo. Perché Nemesis? Perché le era venuto in mente di dare alla stella il nome della Dea del Castigo Divino? Per poco, non fu tanto debole da interpretarlo come un sinistro presagio. 3 Madre VI Era ora di cena e, come le succedeva a volte, Eugenia Insigna si trovava in uno stato d’animo particolare: provava un lieve timore di sua figlia. Il fenomeno era diventato più pronunciato ultimamente, e lei non ne conosceva il motivo. Forse perché Marlene era sempre più silenziosa, introversa, e dava l’impressione di isolarsi con pensieri troppo profondi per essere espressi. E a volte il timore che turbava Eugenia era accompagnato da un senso di colpa: si sentiva in colpa per la sua mancanza di pazienza materna con la ragazza, e perché era fin troppo consapevole delle imperfezioni fisiche di Marlene. Marlene non possedeva certamente la bellezza convenzionale della madre, né la prestanza rude e insolita del padre. Era bassa e… tozza. Era l’unico aggettivo calzante che Eugenia riuscisse a trovare per descrivere la povera Marlene. E povera, naturalmente. Un termine di compatimento che Eugenia usava spessissimo dentro di sé e che stentava a non lasciarsi sfuggire. Bassa. Tozza. Tarchiata senza essere grassa, ecco Marlene. Non c’era nulla di aggraziato in lei. Capelli castano scuro, piuttosto lunghi, lisci. Naso leggermente bulboso, bocca piegata leggermente verso il basso alle estremità, mento piccolo, atteggiamento passivo e chiuso. C’erano gli occhi, naturalmente: grandi, scuri, lucenti, con sopracciglia scure dalla curva perfetta, e lunghe ciglia che quasi sembravano finte. Eppure, gli occhi, da soli, non potevano compensare tutto il resto, per quanto certe volte potessero risultare affascinanti. Fin da quando Marlene aveva cinque anni, Eugenia Insigna aveva capito che, difficilmente, sua figlia avrebbe attirato un uomo a livello esclusivamente fisico, un fatto che si era evidenziato sempre più col passare degli anni. Aurinel l’aveva guardata con occhio languido quando lei non aveva ancora raggiunto l’adolescenza, attratto evidentemente dalla sua intelligenza precoce, dalla sua vivida perspicacia. E Marlene aveva accolto la presenza di Aurinel con un misto di timidezza e di compiacimento, quasi si rendesse conto in modo vago che c’era qualcosa di tenero e accattivante in un oggetto chiamato «ragazzo», senza sapere però di che potesse trattarsi. Negli ultimi due anni, secondo Eugenia Insigna, Marlene aveva finalmente chiarito a se stessa il significato di «ragazzo». L’avidità con cui divorava libri e film che non sembravano adatti a lei, a giudicare dal suo corpo, l’aveva aiutata. Ma anche Aurinel era cresciuto e, ora che gli ormoni avevano incominciato a influenzare il suo comportamento, non era più tempo di giocare e scherzare per lui. Cercava qualcos’altro. Quella sera, a cena, Eugenia chiese: «Com’è andata la giornata, cara?» «Tranquilla. Aurinel è venuto a cercarmi, e immagino che poi sia venuto da te a riferire. Mi spiace che tu debba scomodarti a darmi la caccia.» Eugenia sospirò. «Ma, Marlene… a volte non posso fare a meno di pensare che tu sia infelice, ed è normale che mi preoccupi, no? Stai troppo sola.» «Mi piace stare sola.» «Vedendoti, non si direbbe. Non sembri affatto contenta di stare sola. Ci sono molte persone che vorrebbero offrirti la loro amicizia, e tu saresti più felice se glielo permettessi. Aurinel è tuo amico.» «Era. Adesso è troppo indaffarato con altra gente. L’ho capito subito, oggi, e la cosa mi ha fatto infuriare. Non stava quasi nella pelle, pensava a Dolorette.» «Non puoi biasimarlo. Dolorette ha la sua età.» «Fisicamente. È stupida e frivola.» «Il lato fisico conta parecchio all’età di Aurinel.» «Si vede. Diventa stupido anche lui. Più fa lo svenevole per Dolorette, più ha la testa vuota. Si capisce subito.» «Ma Aurinel continuerà a crescere, Marlene, e quando sarà un po’ più vecchio forse scoprirà quali sono le cose veramente importanti. E crescerai anche tu, e…» Marlene fissò Eugenia Insigna con aria interrogativa. «Dai, mamma» disse poi. «Non credi affatto a quello che stai cercando di insinuare. No, non ci credi proprio.» Eugenia arrossì. Di colpo si rese conto che Marlene non stava facendo delle supposizioni. Marlene sapeva… ma come? Eugenia aveva detto quelle parole con la massima sincerità possibile, si era sforzata di sentirle davvero. Ma Marlene aveva colto facilmente la verità che si celava dietro quel commento. E non era la prima volta che succedeva. Ormai Eugenia aveva la sensazione che Marlene soppesasse e valutasse le variazioni di tono, le esitazioni, i gesti, e capisse sempre quello che gli altri volevano tenerle nascosto. Doveva essere per questo che lei aveva sempre più paura della figlia. Non era piacevole essere come un libro aperto. Per esempio, se Marlene credeva che la Terra fosse condannata alla distruzione, cosa aveva detto Eugenia per spingerla a quella conclusione? Era un argomento da affrontare. Eugenia Insigna si sentì improvvisamente stanca. Se era impossibile ingannare Marlene, perché provare? «Be’, veniamo al sodo, cara. Cos’è che vuoi?» «Vedo che ti interessa davvero saperlo, quindi te lo dirò. Voglio andarmene.» «Andare via?» ripeté Eugenia, senza riuscire a capire la semplice risposta della figlia. «Andare, dove?» «Non esiste solo Rotor, mamma.» «D’accordo. Però non c’è altro nel raggio di due anni luce.» «No, mamma, non è vero. A meno di duemila chilometri c’è Eritro.» «Questo non conta. Là non si può vivere.» «C’è della gente che vive proprio là.» «Già, ma sotto una cupola. Un gruppo di scienziati e di tecnici, che vivono su Eritro perché stanno svolgendo un compito necessario di carattere scientifico. La Cupola è molto più piccola di Rotor. Se qui ti senti a disagio per lo spazio ristretto, là come ti sentirai?» «Su Eritro c’è un mondo intero all’esterno della Cupola. Un giorno la gente si espanderà e vivrà su tutto il pianeta.» «Forse. La cosa non è assolutamente certa.» «Per me, sì.» «In ogni caso, ci vorranno secoli.» «Ma un inizio deve pur esserci. Perché non posso far parte dell’inizio?» «Marlene, non essere assurda. Qui stai benissimo. A quando risale questa fissazione?» Marlene serrò un attimo le labbra prima di rispondere. «Non ne sono sicura. A qualche mese fa, ma la voglia di andare via è sempre più forte. Non sopporto più di stare qui su Rotor.» Eugenia guardò la figlia, corrugando la fronte. "Sente di avere perso Aurinel" rifletté. "Ha il cuore infranto, vuole partire e punire Aurinel in questo modo. Vuole andare in esilio su un mondo desolato, così lui si pentirà…" Sì, era un ragionamento plausibilissimo. Eugenia ricordava i suoi quindici anni. "I cuori sono così fragili allora, basta un nonnulla perché si spezzino. Gli adolescenti guariscono in fretta, però a quell’età si stenta a crederci, sembra impossibile riprendersi. Quindici anni! È dopo… è dopo che…" Inutile pensarci! «Cos’ha di speciale Eritro per attirarti tanto, Marlene?» chiese. «Non so, di preciso. È un mondo grande. Non è naturale desiderare un mondo grande…» Marlene esitò prima di completare la frase, ma, alla fine, ci riuscì. «Come la Terra?» aggiunse. «Come la Terra!» sbottò sua madre. «Non sei mai stata sulla Terra. Non sai nulla della Terra!» «Ho visto parecchie cose, mamma. Le biblioteche sono piene di film sulla Terra.» (Era vero. Da qualche tempo, Pitt era convinto che quei film andassero sequestrati… o addirittura distrutti. Secondo lui, staccarsi dal Sistema Solare significava staccarsi definitivamente; era sbagliato mantenere vivo un romanticismo artificiale nei confronti della Terra. Eugenia dissentiva in modo netto, ma adesso, di colpo, le sembrava di comprendere le argomentazioni di Pitt.) «Marlene, non puoi basarti su quei film» disse. «Idealizzano le cose. Perlopiù, parlano del passato remoto, di un periodo in cui la situazione sulla Terra era migliore, e, anche se un tempo le cose andavano meglio, quei film esagerano comunque, dipingono un quadro troppo roseo della realtà.» «Un tempo la situazione era migliore, però…» «Macché! Lo sai cos’è la Terra? È una fogna squallida e invivibile. Ecco perché la gente se n’è andata e ha formato le Colonie. Ha lasciato un mondo enorme e orribile come la Terra e si è spostata sulle Colonie, piccole e civili. Nessuno vuole tornare indietro.» «Miliardi di persone continuano a vivere sulla Terra.» «Ecco perché è una fogna invivibile. Le persone rimaste là partono non appena possono. Ecco perché sono state costruite tante Colonie, che adesso sono affollatissime. È per questo motivo che abbiamo abbandonato il Sistema Solare e siamo venuti qui, cara.» Marlene disse sottovoce: «Papà era un terrestre. Lui non ha lasciato la Terra, anche se avrebbe potuto farlo». «No, non l’ha lasciata. È rimasto.» Eugenia aggrottò le ciglia, cercando di controllare il tono della propria voce. «Perché, mamma?» «Via, Marlene. Ne abbiamo già parlato. Molti sono rimasti. Non volevano abbandonare un luogo familiare. In quasi tutte le famiglie di Rotor c’è stato qualcuno che non si è mosso dalla Terra. Lo sai benissimo. Vuoi tornare sulla Terra? È questo il problema?» «No, mamma. Assolutamente.» «Anche se volessi tornare, sei a oltre due anni luce di distanza, quindi è impossibile. Lo capisci, no?» «Certo che capisco. Stavo solo cercando di far notare che abbiamo un’altra Terra proprio qui. È Eritro. È là che voglio andare. Lo desidero moltissimo.» Eugenia Insigna non riuscì a trattenersi e, provando quasi un senso di orrore nel sentire le sue stesse parole, eruppe: «Dunque vuoi staccarti da me, come tuo padre!» Marlene sussultò, poi si riprese. «È proprio vero che lui si è staccato da te, mamma? Forse le cose sarebbero andate diversamente se tu ti fossi comportata in modo diverso» disse. Poi, tranquillamente, come se stesse annunciando di avere terminato la cena, soggiunse: «Sei stata tu a respingerlo, vero, mamma?» 4 Padre VII Strano, o forse stupido, che lei fosse ancora capace di ferirsi in modo così doloroso con pensieri del genere dopo quattordici anni. Crile era alto un metro e ottanta, mentre su Rotor la statura media per gli uomini era leggermente inferiore a un metro e settanta. Quel particolare già di per sé (come nel caso di Janus Pitt) gli conferiva un’aura prepotente di forza che non era scomparsa nemmeno quando Eugenia si era resa conto, pur non ammettendolo mai nel proprio intimo, di non poter contare sulla sua forza. Inoltre, Crile aveva una faccia dai lineamenti aspri, irregolari; naso e zigomi prominenti, un mento forte… un’aria, sì, famelica e selvaggia, in qualche modo. In lui, tutto esprimeva una intensa virilità. A Eugenia era sembrato quasi di poterla annusare quando lo aveva conosciuto, ed era rimasta subito affascinata. Era ancora una studentessa neolaureata in astronomia all’epoca, stava completando il suo periodo di specializzazione sulla Terra, e non vedeva l’ora di tornare su Rotor e di ottenere l’abilitazione necessaria per lavorare alla Sonda Remota. Sognava già i grandi progressi che la Sonda avrebbe reso possibili (e non aveva mai pensato che proprio lei avrebbe fatto la scoperta più sorprendente). Poi aveva incontrato Crile e, confusa, si era ritrovata follemente innamorata di un terrestre… un terrestre. In un attimo, aveva smesso di pensare alla Sonda Remota, e si era sentita pronta a rimanere sulla Terra, solo per stare con lui. Ricordava ancora l’espressione meravigliata di Crile e le parole che le aveva detto. «Rimanere qui con me? Preferisco venire su Rotor con te.» Non avrebbe mai immaginato che lui volesse abbandonare il proprio mondo per lei. Come avesse fatto Crile a ottenere il permesso di andare su Rotor, era un mistero. Eugenia non lo sapeva, e non lo aveva mai scoperto. Le norme che regolavano l’immigrazione erano rigide. Quando una Colonia raggiungeva un numero di abitanti considerevole, si poneva un freno all’immigrazione; in primo luogo, perché i mezzi di sostentamento erano limitati, quindi la popolazione non doveva superare certi limiti se non si volevano creare dei disagi; in secondo luogo, perché si cercava disperatamente di mantenere stabile l’equilibrio ecologico. La gente che veniva dalla Terra (o anche da altre Colonie) per affari importanti doveva sottoporsi a noiose procedure di decontaminazione, stare in isolamento per un certo periodo, e ripartire volente o nolente il più presto possibile. Eppure, Crile il terrestre era lì. Una volta si era lamentato delle settimane di attesa che rientravano nella fase di decontaminazione, e di fronte alla sua perseveranza lei aveva provato un senso di contentezza e di compiacimento. Chiaramente, Crile doveva desiderarla moltissimo se aveva accettato quella situazione. Ma, a volte, sembrava chiuso e distratto, e lei si chiedeva cosa lo avesse spinto veramente a superare tanti ostacoli per arrivare su Rotor. Forse la forza motivante non era stata lei, bensì il bisogno di fuggire dalla Terra. Aveva commesso un crimine? Si era fatto un nemico mortale? Aveva abbandonato una donna di cui si era stancato? Eugenia non aveva mai osato chiederglielo. E lui non aveva mai detto nulla. Anche se gli avevano consentito l’accesso su Rotor, rimaneva il problema della durata della sua permanenza. L’Ufficio Immigrazione avrebbe dovuto rilasciare un permesso speciale perché lui diventasse un cittadino effettivo di Rotor, e, in circostanze normali, questo era poco probabile. Per Eugenia, tutte le cose che rendevano Crile Fisher inaccettabile agli occhi dei rotoriani rappresentavano motivi ulteriori di fascino. Il fatto che fosse nato sulla Terra, secondo lei, gli conferiva una diversità, una carica di seduzione. I veri rotoriani inevitabilmente lo avrebbero disprezzato, considerandolo uno straniero, cittadinanza o no… ma Eugenia trovava che perfino questo particolare fosse fonte di eccitazione erotica. Avrebbe lottato per lui, e avrebbe trionfato, contro un mondo ostile. Quando Crile aveva cercato un lavoro che gli consentisse di guadagnare del denaro e di occupare una nicchia nella nuova società, era stata lei a fargli notare che, se avesse sposato una rotoriana, rotoriana da tre generazioni, quel matrimonio sarebbe stato un notevole incentivo per la concessione della cittadinanza da parte dell’Ufficio Immigrazione. Crile era parso sorpreso, come se finora non avesse pensato a quella possibilità, poi la sorpresa era diventata felicità. Eugenia era rimasta un po’ delusa. Sarebbe stato molto più lusinghiero sposarsi per amore, non per ottenere la cittadinanza… "Be’, se questo è necessario…" aveva pensato poi. Così, dopo il tipico lungo fidanzamento rotoriano, si erano sposati. La vita era continuata senza grandi cambiamenti. Crile non era un amante appassionato, ma non lo era nemmeno prima del matrimonio. Le aveva offerto un affetto distratto, un calore occasionale, e lei era quasi felice, arrivava quasi a toccarla, la felicità, anche se non vi si immergeva mai completamente. Crile non era mai volutamente crudele o cattivo, e aveva rinunciato al suo mondo per lei, aveva sopportato parecchi disagi per stare con lei. Erano senza dubbio punti a suo favore, ed Eugenia li considerava tali. Anche ottenuta la cittadinanza, che gli era stata concessa dopo il matrimonio, nell’animo di Crile era rimasto un fondo di insoddisfazione. Eugenia se ne rendeva conto e in parte lo comprendeva. Aveva la cittadinanza, d’accordo, però non era un vero rotoriano indigeno, e molte delle attività più interessanti su Rotor gli erano precluse. Eugenia non sapeva che tipo di istruzione avesse ricevuto, perché lui non ne parlava mai. Non sembrava incolto, e non c’era nulla di male nell’essere autodidatti, ma Eugenia sapeva che sulla Terra, a differenza delle Colonie, la gente non considerava l’istruzione superiore qualcosa di scontato. Quel pensiero la turbava. La provenienza terrestre di Crile Fisher non era un problema per lei, ed era disposta ad affrontare gli amici e i colleghi su questo punto. Ma se Crile fosse stato un terrestre incolto, sarebbe riuscita ad accettarlo? Non lo sapeva. La questione non era mai sorta, però, e, quando lei parlava del proprio lavoro alla Sonda Remota, Crile ascoltava paziente. Eugenia non aveva mai saggiato il suo livello di istruzione discutendo dei dettagli tecnici, naturalmente. Tuttavia, a volte, lui faceva delle domande o delle osservazioni a quel riguardo, e lei le apprezzava, perché riusciva sempre a convincersi della loro intelligenza. Fisher lavorava in una fattoria, un lavoro rispettabilissimo, perfino essenziale, ma che occupava un posto non molto elevato nella scala sociale. Non si lamentava, non protestava, questo era vero, però non ne parlava mai né dimostrava un briciolo di entusiasmo. Aveva sempre un’aria scontenta. Quindi Eugenia aveva imparato a evitare di salutarlo allegramente con frasi tipo: "Com’è andata oggi al lavoro, Crile?" Le poche volte che glielo aveva chiesto, nei primi tempi, lui aveva risposto asciutto con un: "Oh, niente di eccezionale". E non aveva aggiunto altro, le aveva solo rivolto una breve occhiata seccata. Alla fine, Eugenia era restia a parlargli perfino dei piccoli problemi e delle rivalità dell’ambiente di lavoro e degli errori seccanti. Anche quello avrebbe potuto rappresentare un confronto sgradito tra le rispettive occupazioni. Eugenia doveva ammettere che certi timori erano infondati… un esempio della sua insicurezza, non di quella del marito. Fisher non dava segno di impazienza quando lei era costretta a discutere della giornata di lavoro svolta. A volte, con un lieve interesse, le chiedeva addirittura dell’iperassistenza, un argomento di cui lei però sapeva poco o nulla. Gli interessava la politica rotoriana, e manifestava una tipica insofferenza terrestre per la piccolezza dei suoi orizzonti. Eugenia aveva lottato con se stessa per non lasciare trasparire il proprio dispiacere. Poi, tra loro era sceso il silenzio, rotto soltanto da discussioni banali riguardanti i film che avevano visto, gli impegni sociali, la routine quotidiana. Non era infelicità vera e propria. La torta si era trasformata rapidamente in pane, ma c’erano cose peggiori del pane. C’era anche un piccolo vantaggio. Lavorare in condizioni di massima sicurezza significava non parlare a nessuno del proprio lavoro, ma quanti finivano col sussurrare qualche mezza confidenza alla moglie o al marito? Eugenia non lo aveva fatto, perché le tentazioni per lei erano poche, dal momento che il suo lavoro non richiedeva il rispetto di norme di sicurezza rigorose. Ma quando la scoperta della Stella Vicina, la sua scoperta, fosse stata dichiarata top secret, Eugenia sarebbe riuscita a mantenere il segreto? Senza dubbio, la cosa più normale da fare sarebbe stata parlare al marito della grande scoperta che avrebbe scritto per sempre il nome di Eugenia Insigna nei trattati di astronomia. Avrebbe potuto addirittura dirlo a Crile prima che a Pitt, magari precipitandosi in casa gridando: "Indovina cos’è successo! Indovina! Ho una notizia sensazionale…" Invece era stata zitta. A Fisher non sarebbe interessato, aveva pensato. Forse Fisher parlava del loro lavoro con gli altri… coi coltivatori o con i laminatori… con lei, no. Così, Eugenia non aveva fatto fatica a non dirgli nulla di Nemesis. Era un argomento chiuso, tra loro, non suscitava rimpianti, aveva cessato di esistere… fino al giorno terribile in cui il loro matrimonio era fallito. VIII Quando si era schierata completamente dalla parte di Pitt? All’inizio, Eugenia era inorridita all’idea di tenere nascosta l’esistenza della Stella Vicina, aveva provato un profondo senso di disagio al pensiero di abbandonare il Sistema Solare per una destinazione di cui si conosceva solo la posizione. Per lei era contrario all’etica, vergognoso e disonorevole, accingersi a costruire una nuova civiltà in modo furtivo… una civiltà che escludesse il resto dell’umanità. Aveva ceduto per non violare la sicurezza interna della Colonia, però intendeva opporsi a Pitt in privato, sollevare obiezioni. Le aveva preparate mentalmente, in modo che fossero argomentazioni logiche e inconfutabili. Poi, però, non le aveva mai espresse. Pitt prendeva sempre l’iniziativa. Sempre… «Ricorda, Eugenia» le disse un giorno. «Hai scoperto la stella compagna in modo abbastanza casuale, e potrebbe scoprirla anche qualche tuo collega.» «Poco probabile…» iniziò lei. «No, Eugenia, non dobbiamo affidarci alle probabilità. Dobbiamo avere la certezza. Farai in modo che nessuno guardi in quella direzione, che nessuno voglia studiare quei particolari tabulati che rivelerebbero la posizione di Nemesis.» «E come?» «Facile. Ho parlato al Commissario e, da questo momento, la direzione del progetto di ricerca della Sonda Remota passa a te.» «Ma questo significherebbe scavalcare…» «Esattamente. Questo comporta maggiori responsabilità, uno stipendio più alto, una posizione sociale più elevata. Qualcosa in contrario?» «No, assolutamente» rispose lei, mentre il cuore cominciava a batterle forte. «Sono certo che sarai all’altezza del tuo compito di Primo Astronomo, ma il tuo scopo principale sarà quello di assicurarti che il lavoro svolto si mantenga su un livello qualitativo il più alto possibile, sia importante, ma non abbia niente a che fare con Nemesis.» «Ma, Janus, questo segreto non può durare in eterno.» «Non deve durare in eterno. Una volta abbandonato il Sistema Solare, conosceremo tutti la nostra destinazione. Fino ad allora, ne sarà informato il minor numero possibile di persone, e quei pochi lo sapranno il più tardi possibile.» La promozione aveva soffocato la sua smania di obiettare, constatò Eugenia vergognandosi un po’. Un’altra volta, Pitt le disse: «E tuo marito?» «Mio marito, cosa?» Eugenia assunse subito un atteggiamento difensivo. «È un terrestre, a quanto pare.» Eugenia serrò le labbra. «È di origine terrestre, ma è un cittadino rotoriano.» «Capisco. Immagino che tu non gli abbia rivelato nulla di Nemesis.» «Assolutamente.» «E questo tuo marito non ti ha spiegato perché ha lasciato la Terra e si è impegnato tanto per diventare cittadino rotoriano?» «No. E io non gliel’ho chiesto.» «Ma non te lo domandi mai?» Eugenia esitò, poi gli disse la verità. «Sì, me lo sono domandato, a volte.» Pitt sorrise. «Dovrei dirtelo, forse.» E lo fece, a poco a poco. Mai in maniera diretta e invadente. Non fu mai una rivelazione traumatica per lei, ma piuttosto un lento stillicidio ad ogni conversazione, che la aiutò a uscire dal suo guscio intellettuale. Vivendo su Rotor, in fin dei conti, era fin troppo facile prendere in considerazione solo le cose rotoriane. Ma, grazie a Pitt, a quello che le disse, ai film che le suggerì di vedere, Eugenia acquistò una nuova consapevolezza della Terra e dei suoi miliardi di abitanti, della violenza e della carestia endemiche, delle sue droghe e della sua alienazione. Cominciò a vederla come un abisso immane di miserie, un luogo da cui fuggire. Non si chiese più come mai Crile Fisher avesse lasciato la Terra. Si chiese come mai così pochi terrestri seguissero il suo esempio. E la situazione delle Colonie non era molto migliore. Eugenia si rese conto che erano chiuse in se stesse, che alla gente veniva impedito di muoversi liberamente da un insediamento all’altro. Nessuno voleva la flora e la fauna microscopiche delle altre Colonie. Gli scambi commerciali languivano, e ci si serviva sempre più spesso di navi automatizzate che trasportavano carichi accuratamente sterilizzati. Le Colonie litigavano e si detestavano a vicenda. Per le Colonie circummarziane le cose non andavano molto meglio. Solo nella zona asteroidale le Colonie stavano moltiplicandosi liberamente, e perfino quelle ormai guardavano con diffidenza tutte le Colonie interne. Eugenia cominciò a sentirsi d’accordo con Pitt, ad entusiasmarsi addirittura al pensiero di fuggire da una miseria insopportabile per dar vita a un sistema di mondi da cui i semi della sofferenza fossero stati estirpati. Un nuovo inizio, una nuova possibilità. Poi scoprì che c’era un figlio in arrivo, e il suo entusiasmo cominciò a scemare. Per lei e per Crile valeva la pena di rischiare e di affrontare il lungo viaggio, d’accordo. Ma esporre a certi rischi un neonato, un bambino… Pitt rimase imperturbabile. Si congratulò con lei. «Nascerà qui, e tu avrai un po’ di tempo per abituarti alla situazione. Ci vorrà almeno un anno e mezzo prima che siamo pronti a partire. E allora sarai contenta di non dovere più aspettare. Il bambino non avrà alcun ricordo delle miserie di un pianeta in rovina e di un’umanità disperatamente divisa. Conoscerà solo un nuovo mondo, dove regnerà un’armonia culturale… Un bambino fortunato. Mio figlio e mia figlia sono già grandi, sono già segnati.» Ed Eugenia cominciò di nuovo a condividere l’opinione di Pitt, e alla nascita di Marlene aveva già paura, paura che prima della partenza la bambina venisse contagiata dal fallimento caotico che rispondeva al nome di Sistema Solare. Ormai, era schierata completamente dalla parte di Janus Pitt. Fisher sembrava affascinato da Marlene, con grande sollievo di Eugenia. Lei non se lo aspettava, immaginava che non sarebbe stato granché come padre. Invece Crile Fisher era sempre accanto alla figlia e, quando bisognava accudirla, non si tirava mai indietro, anzi lo faceva volentieri, sembrava più allegro. Quando Marlene stava avvicinandosi al suo primo compleanno, in tutto il Sistema Solare si sparse la voce che Rotor intendeva andarsene. Ne derivò quasi una crisi generale e Pitt, che a questo punto aveva ottime probabilità di diventare Commissario, ebbe una reazione di macabro divertimento. «Be’, cosa possono fare?» disse. «Non possono fermarci in nessun modo, e tutte queste accuse di slealtà, questa dimostrazione di sciovinismo «solare», serviranno solo a ostacolare le loro indagini nel campo dell’iperassistenza, il che, per noi, va benissimo.» «Ma come si è sparsa la notizia, Janus?» chiese Eugenia. «Ho provveduto io.» Pitt sorrise. «Ormai possono anche sapere che partiremo… nulla in contrario, purché non sappiano dove siamo diretti. Dopo tutto, sarebbe impossibile tenere nascosta la nostra partenza ancora a lungo. Sarà necessaria una votazione, e quando tutti i rotoriani saranno informati della nostra partenza, lo saprà anche il resto del sistema, è inevitabile.» «Una votazione?» «Certo. Rifletti. Non possiamo partire con una Colonia di persone troppo impaurite o troppo malate di nostalgia per il Sole. Non ce la faremmo mai. Vogliamo con noi solo quelli disposti a partire volentieri, ansiosi di andarsene, magari.» Pitt aveva ragione. La campagna per convincere l’opinione pubblica a lasciare il Sistema Solare iniziò quasi subito, e il fatto che la notizia fosse già trapelata servì ad attenuare le reazioni esterne ed interne. Alcuni rotoriani erano eccitati all’idea, altri avevano paura. Fisher si accigliò moltissimo, e un giorno disse: «È pazzesco!» «È inevitabile» replicò Eugenia con circospezione, senza sbilanciarsi. «Perché? Per quale motivo dovremmo cominciare a vagare tra le stelle? Dove andremmo? Non c’è nulla là fuori.» «Ci sono miliardi di stelle.» «E quanti pianeti? Per quel che ne sappiamo, ci sono pochissimi pianeti, e nessuno abitabile. Il nostro Sistema Solare è l’unica casa che conosciamo.» «L’umanità ha l’esplorazione nel sangue.» Era una massima di Pitt. «Sciocchezze romantiche. Qualcuno crede davvero che la gente voterà per separarsi dall’umanità e scomparire nello spazio?» «A quanto pare, i rotoriani sono abbastanza favorevoli, Crile» disse Eugenia. «Propaganda del Consiglio. Pensi che la gente voterà per lasciare la Terra? Il Sole? Mai. Se arriveremo a tanto, noi andremo sulla Terra.» Eugenia provò un tuffo al cuore. «Oh, no. Vuoi proprio uno di quei simun, o una di quelle tormente, o il maestrale, o come diavolo si chiamano? Ti piacciono tanto i pezzi di ghiaccio, l’acqua che cade dal cielo, l’aria che soffia e sibila?» Crile aggrottò le ciglia. «Non esagerare. Di tanto in tanto ci sono delle bufere, ma è possibile prevederle. A dire il vero, sono interessanti… quando non sono troppo violente. È affascinante… un po’ di freddo, un po’ di caldo, un po’ di precipitazioni. Tutte cose che rendono la vita più varia, che ti fanno sentire vivo, arzillo. E poi, pensa alla varietà di cucine.» «Cucine? Come puoi dire una cosa simile? La maggior parte della gente sulla Terra soffre la fame. Continuiamo a inviare sulla Terra dei carichi di prodotti alimentari.» «Una parte della gente ha fame. Non è un fenomeno universale.» «Be’, comunque non pretenderai che Marlene viva in una situazione del genere, eh?» «Miliardi di bambini lo fanno.» «E la mia bambina non sarà una di loro» ribatté Eugenia rabbiosa. Tutte le sue speranze erano riposte in Marlene, adesso. Aveva quasi dieci mesi, aveva due dentini sopra, due sotto, si muoveva strascicando i piedi, aggrappandosi alle sbarre del suo box, e guardava il mondo con quegli occhi intelligenti e colmi di meraviglia. Fisher era ancora molto affezionato alla bambina; più affezionato che mai, anzi. Quando non la coccolava, rimaneva a fissarla e parlava ammirato dei suoi splendidi occhi. Metteva in rilievo l’unica cosa bella che Marlene possedesse, e sembrava che per lui bastasse a compensare tutte le altre cose che le mancavano. Sicuramente, Fisher sarebbe rimasto su Rotor, pur di non separarsi da Marlene. Se avesse dovuto scegliere tra la Terra ed Eugenia, la donna che aveva amato e sposato, forse avrebbe scelto la Terra… Eugenia aveva questo timore. Ma sicuramente Marlene lo avrebbe bloccato. Sicuramente? IX Il giorno successivo alla votazione, quando Eugenia Insigna lo vide, Fisher era pallido di rabbia. «Una votazione truccata» sbottò, la voce strozzata. «Shhh! Sveglierai la bambina.» E per un attimo, lui fece una smorfia e trattenne il respiro. Eugenia si rilassò leggermente. «È chiaro che la gente vuole partire» disse piano. «Hai votato a favore, tu?» Lei rifletté. Inutile cercare di calmarlo con una menzogna. Eugenia aveva manifestato la propria opinione in modo esplicito. «Sì.» «Te l’ha ordinato Pitt, immagino.» Eugenia rimase sorpresa. «No! Sono in grado di decidere da sola.» «Ma tu e lui…» Crile lasciò la frase in sospeso. Lei si sentì avvampare all’improvviso. «Cosa vorresti insinuare?» chiese, arrabbiandosi a sua volta. Intendeva accusarla di infedeltà? «Quel… quel politicante. Punta alla carica di Commissario, a qualsiasi costo. Lo sanno tutti. E tu vuoi fare carriera insieme a lui. Con la lealtà politica arriverai in alto anche tu, vero?» «Arriverò, dove? Non voglio arrivare in nessun posto. Mi occupo di astronomia, io, non di politica.» «Sei stata promossa, no? Hai scavalcato gente più anziana e più esperta di te.» «Lavorando sodo, voglio sperare.» (Come poteva difendersi, adesso, senza dirgli la verità?) «Oh, certo, ti fa comodo pensare che sia così. Ma è stato grazie a Pitt.» Eugenia respirò a fondo. «A che cosa serve questa discussione?» «Ascolta!» La voce di Crile era bassa; non l’aveva più alzata da quando lei gli aveva ricordato che Marlene dormiva. «Non posso credere che un’intera Colonia di gente abbia intenzione di affrontare i rischi di un viaggio con l’iperassistenza. Cosa succederà? Chi ti dice che funzionerà? Potremmo morire tutti.» «La Sonda Remota ha funzionato benissimo.» «C’erano degli esseri viventi a bordo della Sonda Remota? Se non c’erano, come fai a sapere in che modo reagiranno degli esseri viventi all’iperassistenza? Cosa sai dell’iperassistenza?» «Nulla.» «Come mai? Lavori nel laboratorio. Non nelle fattorie, come me.» "È invidioso" pensò Eugenia. «Quando parli del laboratorio, sembra che ti riferisca a un’unica stanza in cui siamo ammassati tutti quanti. Te l’ho detto. Sono un’astronoma, non so nulla dell’iperassistenza.» «Cioè, Pitt non te ne parla mai?» «Dell’iperassistenza? Nemmeno lui sa nulla.» «Nessuno sa nulla, insomma?» «Non ho detto questo, figuriamoci. Gli esperti iperspaziali sanno. Via, Crile. Quelli che devono essere informati, sanno. Gli altri, no.» «Dunque, è un segreto per tutti, tranne che per pochi addetti ai lavori.» «Esattamente.» «Quindi non sai se l’iperassistenza sia un sistema sicuro. Solo gli esperti iperspaziali lo sanno. E come fanno a saperlo, secondo te?» «Hanno fatto degli esperimenti, suppongo.» «Supponi.» «È una supposizione ragionevole. Loro garantiscono che è un sistema sicuro.» «E non mentono mai, immagino.» «Verranno anche loro. E poi, senza dubbio hanno fatto degli esperimenti.» Crile la fissò socchiudendo gli occhi. «Adesso sei sicura. La Sonda Remota era il tuo progetto, la cosa a cui tenevi di più. C’erano delle forme di vita a bordo?» «Non mi sono occupata degli aspetti pratici, solo dei dati astronomici raccolti.» «Non stai rispondendo alla mia domanda sulle forme di vita.» Eugenia perse la pazienza. «Senti, sono stanca di questo interrogatorio, e la bambina comincia ad agitarsi. Anch’io avrei un paio di domande da fare. Che intenzioni hai, tu? Vieni con noi?» «Non sono obbligato a farlo. Stando ai termini della votazione, chi è contrario alla partenza non è obbligato a partire.» «Lo so che non sei obbligato a farlo, ma verrai? Non vuoi spezzare la famiglia, eh?» Eugenia cercò di sorridere mentre lo diceva, ma non era molto convinta. Lentamente, un po’ torvo, Crile Fisher rispose: «Non voglio neppure abbandonare il Sistema Solare». «Preferiresti abbandonare me? E Marlene?» «Perché dovrei abbandonare Marlene? Anche se tu vuoi rischiare la vita in questa impresa pazzesca, devi proprio coinvolgere la bambina?» «Se io parto, Marlene parte. Mettitelo bene in testa, Crile» replicò asciutta Eugenia. «Dove la porteresti, tu? Su qualche insediamento asteroidale finito a metà?» «Certo che no. Sono un terrestre, e posso tornare sulla Terra, se voglio.» «Tornare su un pianeta morente? Fantastico!» «Gli rimangono ancora alcuni anni di vita, te lo assicuro.» «Allora perché l’hai lasciato?» «Credevo di migliorare la mia condizione. Non immaginavo che venire su Rotor significasse prendere un biglietto di sola andata per il nulla.» «Non per il nulla» esplose Eugenia, superando il limite di sopportazione. «Se sapessi dove siamo diretti, non saresti così ansioso di tornare indietro.» «Perché? Dov’è diretto, Rotor?» «Verso le stelle.» «Verso l’oblio.» Si fissarono, e Marlene aprendo gli occhi emise un lieve piagnucolio e annunciò che era sveglia. Fisher guardò la bambina e, addolcendo il tono, disse: «Eugenia, non dobbiamo separarci. Io non voglio affatto lasciare Marlene. E nemmeno te. Vieni con me». «Sulla Terra?» «Sì. Perché no? Ho degli amici là. Anche adesso. Essendo mia moglie e mia figlia, non avrete problemi di ingresso. La Terra non si preoccupa eccessivamente dell’equilibrio ecologico. Saremo su un pianeta gigantesco, non su una bollicina puzzolente persa nello spazio.» «Solo su una bolla gigantesca puzzolentissima. No, mai.» «Lasciami prendere Marlene, allora. Se per te vale la pena di rischiare perché sei un’astronoma e vuoi studiare l’universo, affari tuoi, ma la bambina dovrebbe rimanere nel Sistema Solare, al sicuro.» «Al sicuro sulla Terra? Non essere assurdo. Era questo il tuo scopo? Portarmi via mia figlia?» «Nostra figlia.» «Mia figlia. Vattene. Voglio che tu te ne vada, però non puoi toccare mia figlia. Dici che conosco Pitt, sì, è vero. Questo significa che posso fare in modo che tu venga mandato sugli asteroidi, che lo voglia o no… poi potrai tornartene sulla tua Terra, sul tuo pianeta in decomposizione. Ora vattene dal mio alloggio, e trova un posto dove dormire finché non ti manderanno via. Quando mi farai sapere dove sei, ti spedirò le tue cose. E non pensare di poter tornare qui. Questo posto sarà sorvegliato.» Mentre pronunciava quelle parole, col cuore traboccante di amarezza, Eugenia non scherzava affatto. Avrebbe potuto supplicarlo, blandirlo, cercare di discutere. Ma non lo fece. Fu dura, spietata, e lo cacciò. E Crile Fisher se ne andò davvero. Ed Eugenia gli spedì davvero le sue cose. E lui si rifiutò di partire con Rotor. E fu mandato via. E andò sulla Terra, immaginò Eugenia. Si era separato per sempre da lei e Marlene. Lei lo aveva cacciato e Crile se n’era andato per sempre. 5 Dono X Eugenia si meravigliò profondamente di se stessa. Non aveva mai raccontato quella storia a nessuno, anche se la riviveva quasi ogni giorno da quattordici anni. Non aveva mai immaginato di raccontarla a qualcuno. Pensava di portarla con sé nella tomba. Non che fosse disonorevole… era semplicemente privata. E adesso l’aveva raccontata, in modo dettagliato e senza riserve, alla figlia adolescente, a qualcuno che Eugenia, fino all’attimo in cui aveva cominciato a parlare, aveva sempre considerato una bambina… una bambina particolarmente sfortunata. Ora quella bambina la guardò serissima, con quegli occhi scuri penetranti e stranamente adulti, e infine disse: «Dunque, l’hai proprio cacciato, vero?» «In un certo senso, sì. Ma ero furiosa. Voleva portarti via. Sulla Terra.» Eugenia si interruppe, poi chiese esitante: «Capisci?» «Mi volevi a tal punto?» domandò Marlene. «Certo!» disse Eugenia indignata. Poi, sotto lo sguardo tranquillo di quegli occhi, si soffermò a considerare l’impensabile. Era davvero Marlene che voleva? «Sì, certo. Naturale, no?» soggiunse quindi, calma. Marlene scosse la testa e, per un attimo, la sua espressione si incupì. «Probabilmente non ero una bambina attraente, credo. Forse lui mi voleva… Eri infelice perché lui voleva soprattutto me, mi preferiva a te? Mi hai tenuta solo perché lui mi voleva?» «Che cose orribili stai dicendo. Non è affatto così» replicò Eugenia, per nulla convinta. Discutere di quell’argomento con Marlene non sarebbe stato confortevole. Marlene stava sviluppando sempre più quella tremenda e spiacevole capacità di penetrazione. Eugenia se n’era già accorta in precedenza, ma aveva pensato che si trattasse di qualche frecciata particolarmente azzeccata da parte di una ragazzina infelice. Ma accadeva sempre più spesso, e adesso sembrava che Marlene stesse assestando quei colpi deliberatamente. «Marlene, come mai hai pensato che avessi cacciato tuo padre? Io non l’ho mai detto, né ti ho dato motivo di pensarlo, vero?» «Come faccio a capire certe cose? Non lo so di preciso, mamma. A volte parli di mio padre, con me o con qualcun altro, e sembra sempre che tu abbia dei rimpianti, che ci sia qualcosa che vorresti poter cambiare, rifare daccapo.» «Davvero? Non me ne accorgo.» «E a poco a poco, queste impressioni diventano più nette. È il modo in cui parli, la tua espressione…» Eugenia fissò la figlia e chiese all’improvviso: «Cosa sto pensando?» Marlene ebbe un lieve sussulto, poi fece una risatina. Non era un tipo ridanciano, di solito ridacchiava, al massimo. «Facile. Pensi che io sappia cosa stai pensando, ma ti sbagli. Non leggo nel pensiero. Interpreto solo le parole, il tono, l’espressione e i gesti. Le persone non riescono a tenere nascosto quel che pensano. E le ho osservate parecchio.» «Perché? Perché questa esigenza di osservarle?» «Perché quand’ero piccola tutti mentivano con me. Mi dicevano che ero un tesoro. O lo dicevano a te quando io stavo ascoltando. E dipinta in faccia avevano sempre un’espressione che diceva chiaramente: "Non lo penso affatto". E non si rendevano nemmeno conto di averla. All’inizio, stentavo a credere che non se ne rendessero conto. Poi mi sono detta: "Immagino che per loro sia più comodo fingere di dire la verità".» Marlene s’interruppe, poi, di colpo, chiese alla madre: «Perché non hai detto a mio padre dove eravamo diretti?» «Non potevo. Era un segreto che non potevo rivelare.» «Forse, se glielo avessi detto, sarebbe venuto con noi.» Eugenia scosse energicamente la testa. «No. Aveva deciso di tornare sulla Terra.» «Ma se tu glielo avessi detto, mamma, il Commissario Pitt non lo avrebbe lasciato andare via, no? Papà sarebbe stato al corrente di troppe cose.» «Pitt non era Commissario allora» precisò distrattamente Eugenia. Poi, infervorandosi: «A quelle condizioni non lo avrei voluto. E tu?» «Non so. Non so come sarebbe stato se fosse rimasto.» «Io sì.» Eugenia ebbe l’impressione di essere ancora fuori di sé. Tornò con la mente a quell’ultima conversazione, a quando aveva urlato a Crile Fisher di andarsene, che doveva andarsene. No, non era stato un errore. Non lo avrebbe voluto come prigioniero, come membro forzato di Rotor. Non lo amava a tal punto. E non lo odiava nemmeno a tal punto, del resto. Poi si affrettò a cambiare argomento, evitando che la sua espressione la tradisse. «Oggi pomeriggio hai turbato Aurinel. Perché gli hai detto che la Terra sarà distrutta? È venuto da me ed era molto preoccupato.» «Bastava dirgli che sono solo una bambina e che nessuno dà retta alle parole dei bambini. Ci avrebbe creduto subito.» Eugenia ignorò quel commento. Forse era una buona idea non dire nulla per evitare la verità. «Pensi davvero che la Terra sarà distrutta?» «Sì. A volte parli della Terra. Dici: "Povera Terra". Dici quasi sempre: "Povera Terra".» Eugenia si accorse di arrossire. Parlava davvero della Terra in quei termini? «Be’, perché no?» fece. «È sovraffollata, in sfacelo, piena di odio, carestie e miserie. Mi spiace per quel mondo. Povera Terra.» «No, mamma. Non lo dici in questo senso. Quando lo dici…» Marlene alzò una mano, come se cercasse di afferrare qualcosa con la punta delle dita, senza riuscirci, anche se per poco. «Be’, Marlene?» «È un concetto chiaro qui nella mia testa, però non riesco a esprimerlo.» «Sforzati. Devo sapere.» «Ecco, da come lo dici, non posso fare a meno di pensare che tu ti senta in colpa… come se la responsabilità fosse tua.» «Perché? Cosa avrei fatto, secondo te?» «Te l’ho sentito dire una volta quando eri nella sala d’osservazione. Hai guardato Nemesis, e mi è sembrato che c’entrasse Nemesis. Così ho chiesto al computer il significato di Nemesis, e il computer me l’ha detto. È qualcosa che distrugge implacabilmente, qualcosa che punisce.» «Questo non ha niente a che fare con il nome» strillò Eugenia. «L’hai scelto tu, il nome» disse Marlene, calma, inesorabile. Non era più un segreto, naturalmente, da quando avevano lasciato il Sistema Solare alle loro spalle. Ormai era noto a tutti che era stata Eugenia Insigna a scoprire la stella e a chiamarla così. «Proprio perché il nome l’ho scelto io, so che quello che ti ha detto il computer non c’entra.» «Allora perché ti senti in colpa, mamma?» ("Silenzio… se non vuoi dire la verità.") «Come sarà distrutta la Terra, secondo te?» chiese infine Eugenia. «Non lo so, però credo che tu lo sappia, mamma.» «Non riusciamo a intenderci, Marlene, quindi lasciamo perdere per ora. Però voglio che sia ben chiara una cosa, cioè che tu non devi parlare di queste cose con nessuno… né di tuo padre, né di questa sciocchezza della distruzione della Terra.» «Se non vuoi che ne parli, starò zitta, naturalmente… però la distruzione della Terra non è una sciocchezza.» «Io dico di sì. È una sciocchezza, d’accordo?» Marlene annuì. «Penso che andrò a visionare per un po’» disse, con apparente indifferenza. «Poi andrò a letto.» «Bene!» Eugenia osservò la figlia che si allontanava. "Colpevole" rifletté. "Mi sento colpevole. L’ho scritto in faccia a grandi lettere. Basta guardare, e chiunque può vederlo… No, non chiunque. Solo Marlene. Lei possiede questo dono di natura." Marlene doveva avere qualcosa che compensasse tutto quello che le mancava. L’intelligenza non bastava. Non era una compensazione sufficiente, quindi Marlene aveva questa capacità di leggere l’espressione, il tono, i più piccoli movimenti del corpo, e nessun segreto era al sicuro con lei. Da quanto tempo teneva per sé quella dote pericolosa? Da quanto sapeva di possederla? Era qualcosa che si sviluppava sempre più con l’età? Perché la lasciava emergere adesso, scostando il velo con cui apparentemente l’aveva nascosta, usandola come un’arma con cui colpire sua madre? Era perché Aurinel l’aveva respinta definitivamente, stando a quello che Marlene aveva visto in lui? Stava colpendo alla cieca come reazione? "Colpevole" pensò Eugenia. "Perché non dovrei sentirmi colpevole? È tutta colpa mia. Avrei dovuto saperlo dall’inizio, dall’attimo della scoperta… ma non volevo sapere." 6 Avvicinamento XI Da quanto lo sapeva? Da quando aveva chiamato la stella Nemesis? Aveva percepito cosa fosse e cosa significasse, e le aveva dato un nome appropriato inconsciamente? Quando aveva individuato la stella, l’unica cosa importante per lei era stata la scoperta in sé. Aveva pensato soltanto all’immortalità. Era la sua stella, la Stella di Insigna. Era stata tentata di chiamarla così. Un nome fantastico, anche se nel prenderlo in considerazione lo aveva accantonato, riluttante, con una smorfia interiore di falsa modestia. Sarebbe stato davvero insopportabile adesso se lei fosse caduta in quella trappola. Dopo la scoperta, c’era stato lo shock della richiesta di segretezza da parte di Pitt, poi i preparativi frenetici per la Partenza. (Sarebbe stata chiamata così nei libri di storia un giorno? La Partenza? Maiuscolo?) Poi, dopo la Partenza, c’erano stati due anni in cui la nave aveva continuato a guizzare dentro e fuori l’iperspazio… e i calcoli interminabili necessari per l’iperassistenza, che richiedevano una marea di dati astronomici che Eugenia doveva controllare e coordinare. Solo la densità e la composizione della materia interstellare… In quei quattro anni Eugenia non aveva mai potuto pensare a Nemesis in modo approfondito; nemmeno una volta aveva potuto concentrarsi e cogliere qualcosa di ovvio. Possibile? O aveva semplicemente distolto lo sguardo da quello che non voleva vedere? Si era rifugiata deliberatamente in quel bailamme di segretezza, fretta, eccitazione? Poi però l’ultimo periodo iperspaziale era terminato; a questo punto, per un mese, avrebbero decelerato attraverso una grandinata iniziale di atomi d’idrogeno, colpendoli a una velocità tale da trasformarli in particelle di raggi cosmici. Nessun veicolo spaziale normale avrebbe potuto resistere, ma Rotor aveva attorno a sé uno spesso strato di terreno che era stato rinforzato per il viaggio e che assorbiva le particelle. Un giorno, aveva assicurato a Eugenia uno degli esperti iperspaziali, sarebbe stato possibile entrare nell’iperspazio e uscirne a velocità normali. «Ora che abbiamo l’iperspazio non sarà più necessaria alcuna innovazione concettuale clamorosa» aveva detto. «È solo una questione di tecnologia.» Forse! Per gli altri specialisti, comunque, quell’idea era soltanto spazzatura cosmica. Quando aveva intuito la terribile verità, Eugenia era corsa subito da Pitt. Nell’ultimo anno Pitt non aveva avuto molto tempo per lei, ed Eugenia lo aveva capito. Stava affiorando una certa tensione, sempre più evidente, ora che l’eccitazione del viaggio stava diminuendo, ora che la gente si rendeva conto che, nel giro di qualche mese, si sarebbe trovata in prossimità di un’altra stella. Allora ci sarebbe stato il problema assillante di riuscire a sopravvivere per un lungo periodo di tempo nei pressi di una nana rossa sconosciuta, senza sapere se avrebbero trovato del materiale planetario adeguato da sfruttare come fonte energetica e mineraria, e come spazio abitabile soprattutto. Janus Pitt non aveva più un’aria giovanile, anche se i capelli erano ancora scuri e la faccia priva di rughe. Erano passati appena quattro anni da quando Eugenia era andata ad annunciargli l’esistenza di Nemesis. Nei suoi occhi, però, c’era un’espressione tormentata, la consapevolezza che la gioia ormai non gli apparteneva più mentre gli rimanevano solo affanni e preoccupazioni, ben visibili. Era Commissario eletto, adesso. Forse questo spiegava in gran parte le sue preoccupazioni, ma chi poteva dirlo? Eugenia non aveva mai conosciuto il vero potere, né le responsabilità che lo accompagnavano, però aveva l’impressione che potesse esacerbare chi lo conosceva in prima persona… Pitt le sorrise distrattamente. Tra loro si era creata un’intimità forzata quando avevano avuto in comune un segreto di cui all’inizio nessuno (e poi quasi nessuno) era al corrente. Soltanto quando erano soli potevano parlare liberamente, allora. Dopo la Partenza, comunque, il segreto aveva cessato di essere tale, e i loro rapporti si erano raffreddati. «Janus, c’è qualcosa che mi rode» esordì Eugenia. «Dovevo vederti subito. Si tratta di Nemesis.» «Qualche novità? Non dirmi che hai scoperto che non è dove pensavi tu, perché è proprio là fuori, a meno di sedici miliardi di chilometri. Si vede.» «Lo so. Ma quando l’ho scoperta, a poco più di due anni luce, ho dato per scontato che fosse una stella compagna, che Nemesis e il Sole ruotassero attorno a un centro di gravità comune. Data la vicinanza, doveva essere quasi sicuramente così. Sarebbe stato sensazionale.» «D’accordo. Perché le cose non dovrebbero essere sensazionali di tanto in tanto?» «Perché per quanto sia vicina, è chiaramente troppo lontana per essere una stella compagna. L’attrazione gravitazionale tra Nemesis e il Sole è debolissima, talmente debole che le perturbazioni gravitazionali delle stelle vicine renderebbero instabile l’orbita.» «Ma Nemesis è là.» «Sì, e più o meno tra noi e Alfa Centauri.» «Che c’entra Alfa Centauri?» «Il fatto è che la distanza di Nemesis da Alfa Centauri non è molto più grande della sua distanza dal Sole. È altrettanto probabile che sia una stella compagna di Alfa Centauri. O, più probabilmente, a qualunque sistema appartenga, la presenza dell’altra stella adesso la sta disturbando, o l’ha già disturbata.» Pitt guardò Eugenia pensieroso e batté adagio le dita sul bracciolo della sedia. «Quanto impiega Nemesis a girare attorno al Sole… ammettendo che sia la compagna del Sole?» «Non so. Dovrei calcolare l’orbita. Avrei dovuto farlo prima della Partenza, ma ero sempre talmente occupata allora… e anche adesso… ma non è una scusa valida.» «Be’, fai un’ipotesi.» «Se l’orbita fosse circolare, Nemesis impiegherebbe circa cinquanta milioni di anni per compiere una rivoluzione attorno al Sole, o, per essere più precisi, attorno al centro di gravità del sistema, col Sole che si sposterebbe in modo analogo. La linea tra i due corpi celesti in movimento passerebbe sempre in quel centro. D’altra parte, se Nemesis sta seguendo un’orbita ellittica e si trova ora nel punto estremo… e dev’essere così, perché se si spingesse ancora più in là non sarebbe certamente una stella compagna… in tal caso, dicevo, dovrebbe impiegare molto meno, venticinque milioni di anni.» «Dunque, l’ultima volta che Nemesis si è trovata in questa posizione, più o meno tra Alfa Centauri e il Sole, Alfa Centauri doveva trovarsi in una posizione molto diversa rispetto a ora. In un arco di tempo compreso tra i venticinque e i cinquanta milioni di anni Alfa Centauri si sarà mossa, no? Di quanto?» «Di una parte consistente di anno luce.» «Quindi, questa sarebbe la prima volta che Nemesis è contesa dalle due stelle? Finora avrebbe ruotato tranquillamente?» «No, assolutamente, Janus. Anche escludendo Alfa Centauri, ci sono altre stelle. Può darsi che una stella sia arrivata adesso, però in passato in qualche punto della sua orbita deve esserci stata un’altra stella abbastanza vicina da influenzarla. L’orbita non è proprio stabile.» «Allora cosa ci fa in questo settore, se non orbita attorno al Sole?» «Appunto.» «Appunto, cosa?» «Se orbitasse attorno al Sole si muoverebbe, rispetto al Sole, a una velocità compresa tra gli ottanta e i cento metri al secondo, a seconda della massa di Nemesis. È un moto molto lento per una stella, e la stella apparentemente resterebbe nella stessa posizione a lungo. Perciò rimarrebbe dietro la nube a lungo, soprattutto se la nube si muovesse nella stessa direzione rispetto al Sole. Con uno spostamento così lento e la luce della stella attenuata, sarebbe normale notarla solo adesso. Però…» Pitt, che non fece alcuno sforzo per mostrarsi vivamente interessato, sospirò. «Be’? Non puoi venire al sodo?» «Be’, se non è in orbita attorno al Sole, allora ha un moto indipendente, e dovrebbe muoversi rispetto al Sole a una velocità di circa cento chilometri al secondo, mille volte più veloce che se fosse in orbita. Adesso la stella si trova per caso nel nostro settore, ma sta proseguendo, supererà il Sole e non tornerà più. Però, rimane ugualmente dietro la nube, senza cambiare in pratica posizione.» «Come mai?» «Se si muove a grande velocità e nel medesimo tempo sembra sempre nello stesso punto in cielo, una spiegazione c’è.» «Non dirmi che vibra avanti e indietro.» Eugenia arricciò le labbra. «Per favore, non scherziamo, Janus. Non c’è nulla di divertente. Può darsi che Nemesis stia avanzando grosso modo in linea retta verso il Sole. In questo caso, non avrebbe alcuno spostamento laterale, apparentemente non cambierebbe posizione, però verrebbe dritta verso di noi… cioè, verso il Sistema Solare.» Pitt la fissò sorpreso. «Ci sono delle prove?» «Non ancora. Non c’era motivo di rilevare lo spettro di Nemesis quando è stata individuata. Solo dopo avere osservato la parallasse sarebbe stato logico procedere a un’analisi spettrale… ma poi non sono più riuscita a compierla. Se ben ricordi, mi hai messa a capo del progetto Sonda Remota e mi hai detto di fare in modo che nessuno si accorgesse di Nemesis. Un’analisi spettrale accurata allora era da escludere, e dopo la Partenza… be’, non ci ho più pensato. Però adesso svolgerò un esame approfondito, te lo assicuro.» «Lascia che ti faccia una domanda. Se Nemesis stesse allontanandosi dal Sole, non avremmo lo stesso effetto di immobilità? Non è detto che si stia avvicinando al Sole, ci sono pari probabilità che si stia allontanando, vero?» «Sarà l’analisi spettrale a dircelo. Uno spostamento verso il rosso delle righe spettrali indicherà una recessione; uno spostamento verso il violetto, un avvicinamento.» «Ma adesso è troppo tardi. Rilevando lo spettro della stella scoprirai che si sta avvicinando a noi, perché noi ci stiamo avvicinando a Nemesis.» «A questo punto non analizzerò lo spettro di Nemesis, bensì quello del Sole. Se Nemesis si sta avvicinando al Sole, il Sole a sua volta si avvicinerà a Nemesis, e terremo conto del nostro movimento. E poi, stiamo rallentando, e nel giro di un mese avanzeremo così lentamente che il nostro movimento non influirà in modo sensibile sui risultati spettroscopici.» Per mezzo minuto, Pitt sembrò immergersi nei propri pensieri, fissando la scrivania sgombra, accarezzando lentamente con la mano il terminale del computer. Poi, senza alzare lo sguardo, disse: «No. Non sono osservazioni necessarie. Non voglio che tu ti preoccupi più di questo, Eugenia. È un problema inesistente, quindi dimentica tutto». E il cenno della sua mano fu un chiaro invito a uscire. XII Eugenia contrasse le narici emettendo un sibilo rabbioso. «Come osi, Janus? Come osi?» disse, la voce bassa e roca. «Come oso, cosa?» Pitt corrugò la fronte. «Come osi ordinarmi di uscire in questo modo, come se fossi un’inserviente qualsiasi? Se non avessi scoperto Nemesis, non saremmo qui. Tu non saresti Commissario. Nemesis è mia. Anch’io ho voce in capitolo.» «Nemesis non è tua. È di Rotor. Quindi per favore esci e lasciami riprendere il mio lavoro.» Eugenia alzò la voce. «Janus… te lo ripeto. Molto probabilmente, Nemesis sta avanzando verso il nostro Sistema Solare.» «E io ti ripeto che è altrettanto probabile che si stia allontanando. E anche se stesse dirigendosi verso il Sistema Solare… il loro Sistema Solare, tra parentesi, non più il nostro… non dirmi che colpirà il Sole, perché non ci crederò. In tutti i suoi cinque miliardi di anni di vita, il Sole non è mai stato colpito da una stella, e nemmeno sfiorato. Anche in una parte della Galassia relativamente affollata, è difficilissimo che si verifichi una collisione stellare. Le probabilità sono scarsissime. Non sarò un astronomo, però almeno questo lo so.» «Le probabilità non sono certezze, Janus. Per quanto improbabile, è concepibile che Nemesis e il Sole possano scontrarsi, ma riconosco che è molto improbabile che accada. Il guaio è che un passaggio ravvicinato, anche senza collisione, potrebbe essere fatale alla Terra.» «Ravvicinato, quanto?» «Non so. Bisognerà fare parecchi calcoli per stabilirlo.» «D’accordo, allora… Secondo te, dovremmo scomodarci a compiere le osservazioni e i calcoli necessari, e se poi scoprissimo che la situazione è davvero pericolosa per il Sistema Solare cosa dovremmo fare, sentiamo? Avvertire il Sistema Solare?» «Be’, sì. Non avremmo scelta.» «E come li avvertiremmo? Non disponiamo di alcun mezzo di ipercomunicazione, e in ogni caso loro non sarebbero in grado di ricevere degli ipermessaggi. Se inviassimo un messaggio di tipo infraluce… luce, microonde, neutrini modulati… impiegherebbe oltre due anni per raggiungere la Terra, sempre che avessimo un raggio abbastanza potente o sufficientemente coerente. E loro lo riceverebbero? Come faremmo a saperlo? Ammettiamo che lo ricevano e che rispondano… la risposta impiegherà sempre altri due anni per giungere a destinazione. E quale sarà in definitiva il risultato del nostro avvertimento? Noi dovremo rivelare la posizione di Nemesis, e loro vedranno che l’informazione proviene da questa direzione. Tutti i nostri progetti segreti per la creazione di una civiltà omogenea, senza interferenze, attorno a Nemesis, andranno in fumo.» «Qualunque sia il prezzo, Janus, non puoi pensare di non avvertirli!» «Perché ti preoccupi tanto? Anche se Nemesis sta avanzando verso il Sole, quanto impiegherà per raggiungere il Sistema Solare?» «Potrebbe arrivare nei pressi del Sole tra circa cinquemila anni.» Pitt si appoggiò allo schienale della sedia e studiò Eugenia con un’espressione ironica e divertita. «Cinquemila anni. Solo cinquemila anni? Ascolta, Eugenia, duecentocinquant’anni fa il primo terrestre ha messo piede sulla Luna. Sono passati due secoli e mezzo, ed eccoci qui, in prossimità della stella più vicina. Dove saremo tra altri due secoli e mezzo, a questo ritmo? Raggiungeremo tutte le stelle che vorremo. E tra cinquemila anni, cinquanta secoli, occuperemo tutta la Galassia, a meno che non esistano altre forme di vita intelligenti. Ci spingeremo verso altre galassie. Tra cinquemila anni, la tecnologia sarà talmente progredita che, se il Sistema Solare sarà davvero in pericolo, tutte le sue Colonie e l’intera popolazione planetaria potranno partire per lo spazio.» Eugenia scosse il capo. «Non credere che progresso tecnologico sia sinonimo di onnipotenza, che si possa vuotare il Sistema Solare con un semplice gesto della mano, Janus. Per trasferire miliardi di persone senza caos e senza perdite tremende di vite umane; saranno necessari lunghi preparativi. Se, tra cinquemila anni, correranno un pericolo mortale, devono saperlo subito, per cominciare a prepararsi il più presto possibile.» «Sei di buon cuore, Eugenia» disse Pitt. «Ti propongo un compromesso, quindi. Aspettiamo cent’anni, e in questi cent’anni insediamoci qui, moltiplichiamoci, costruiamo un gruppo di Colonie abbastanza forte e stabile. Poi sì, potremo studiare la destinazione di Nemesis e, se necessario, avvertire il Sistema Solare. Avranno ancora quasi cinquemila anni per prepararsi. Un piccolo ritardo di un secolo non sarà di certo fatale.» Eugenia sospirò. «È questa la tua visione del futuro? L’umanità che continua a litigare, contendendosi le stelle? Piccoli gruppi che cercano di imporre la propria supremazia su questa o su quella stella? Odio e sospetti e conflitti, come abbiamo avuto sulla Terra per migliaia di anni, estesi a tutta la Galassia per altre migliaia di anni?» «Eugenia, non ho nessuna visione del futuro. L’umanità farà quel che vorrà. Litigherà come dici tu, o forse formerà un Impero Galattico… o farà qualcos’altro. Non sta a me decidere, non posso influenzare il comportamento futuro dell’umanità, e non intendo provarci. Io devo pensare soltanto a quest’unica Colonia, a quest’unico secolo necessario per insediarci stabilmente attorno a Nemesis. Quando sarà trascorso, noi due saremo morti tranquillamente da un pezzo, e saranno i nostri successori a occuparsi del problema di avvertire il Sistema Solare… se sarà necessario. Sto cercando di essere ragionevole, non emotivo, Eugenia. Anche tu sei una persona ragionevole. Rifletti.» Eugenia rifletté. Rimase seduta, guardando Pitt con aria cupa, mentre lui aspettava con una pazienza quasi esagerata. «Benissimo» disse infine Eugenia. «Ho capito. Continuerò ad analizzare lo spostamento di Nemesis rispetto al Sole, così forse potremo dimenticare questa storia.» «No.» Pitt alzò un dito ammonitore. «Ricorda quel che ti ho detto prima. Niente osservazioni del genere. Se risultasse che il Sistema Solare non è in pericolo, non avremmo ottenuto nulla. Faremmo semplicemente quello che secondo me dovremmo fare in ogni caso… dedicare un secolo al rafforzamento della civiltà di Rotor. Però, se tu dovessi scoprire che il pericolo esiste, ti rimorderebbe la coscienza, saresti divorata dall’apprensione, da chissà quali timori, dai sensi di colpa. La notizia in un modo o nell’altro trapelerebbe e indebolirebbe la determinazione dei rotoriani, dato che molti di loro forse sono sentimentali come te. E quello sarebbe un duro colpo per noi. Capisci?» Eugenia rimase in silenzio. «Bene. Vedo che capisci.» E col solito cenno, Pitt la invitò di nuovo ad andarsene. Questa volta, Eugenia uscì. E Pitt, seguendola con lo sguardo, pensò: "Sta proprio diventando insopportabile". 7 Distruzione? XIII Marlene guardò sua madre con serietà, mantenendo un’espressione neutra, anche se, dentro di sé, era sorpresa e soddisfatta. La mamma le stava parlando finalmente degli avvenimenti riguardanti suo padre e il Commissario Pitt. La stava trattando da adulta. «Io avrei controllato i movimenti di Nemesis senza badare alle parole di Pitt, mamma» disse. «Ma vedo che tu non l’hai fatto. È evidente, dal tuo senso di colpa.» «Non riesco ad abituarmi all’idea di averla scritta in fronte, la mia colpa, leggibile come un’etichetta» fece Eugenia Insigna. «Nessuno nasconde quel che prova» disse Marlene. «Se si osserva bene, si riesce sempre a comprendere tutto.» (Gli altri non ci riuscivano. Marlene aveva imparato solo lentamente e con difficoltà. La gente non guardava, non percepiva, non si interessava. Non osservava le facce, i corpi, i suoni, gli atteggiamenti, le piccole abitudini nervose.) «Sai, non dovresti osservare in questo modo, Marlene» disse Eugenia, come se i loro pensieri avessero imboccato sentieri paralleli. E cinse col braccio le spalle della ragazza, perché le sue parole non sembrassero un rimprovero. «La gente si innervosisce quando quei tuoi grandi occhi scuri la fissano con tanta intensità. Rispetta l’intimità degli altri.» «Sì, mamma» rispose Marlene, accorgendosi subito che sua madre stava cercando di proteggere se stessa. Era nervosa, aveva paura di tradirsi continuamente. Poi Marlene domandò: «Come mai nonostante tutti i tuoi sensi di colpa nei riguardi del Sistema Solare non hai fatto nulla?». «Per diversi motivi, Molly.» (Non «Molly», pensò Marlene angosciata. Marlene! Marlene! Marlene! Tre sillabe. La seconda accentata. Marlene è un’adulta, ormai!) «Per esempio?» domandò Marlene imbronciata. (Possibile che sua madre non cogliesse l’ondata di ostilità che travolgeva Marlene ogni volta che veniva usato un vezzeggiativo del genere? Sicuramente, la faccia di Marlene si contraeva, le fremevano le labbra, le si infiammava lo sguardo. Perché la gente non se ne accorgeva? Perché non guardava?) «Innanzitutto, Janus Pitt è stato molto convincente. Per quanto le sue argomentazioni possano essere strane, per quanto si possa essere contrari, Pitt riesce sempre a dimostrare che i suoi punti di vista si basano su delle ottime ragioni.» «Se è vero, mamma, Pitt è un uomo molto pericoloso.» Eugenia sembrò scuotersi dai propri pensieri per lanciare un’occhiata incuriosita alla figlia. «Perché dici questo?» «Ogni punto di vista può avere delle ottime ragioni alla base. Se uno è in grado di afferrare quelle ragioni in fretta, e di presentarle in modo convincente, può convincere chiunque a fare qualsiasi cosa. E questo è pericoloso.» «Janus Pitt ha questa capacità, lo ammetto. Mi sorprende che tu capisca certe cose.» (Marlene pensò: "Perché ho appena quindici anni, e tu sei abituata a considerarmi una bambina".) «Si impara parecchio, osservando la gente» disse. «Già, però ricorda quel che ti ho detto. Non osservare troppo, controllati.» (Mai.) «Così il signor Pitt ti ha convinta.» «Mi ha fatto capire che non ci sarebbe stato niente di male se avessimo aspettato un po’.» «E tu non eri nemmeno curiosa di studiare Nemesis, di vedere esattamente dove stesse dirigendosi? Mi pare piuttosto strano…» «Certo che ero curiosa, ma non è facile come credi. L’Osservatorio lavora a ritmo continuo. Devi aspettare il tuo turno per usare gli strumenti. Anche se sono il capo, non posso usarli liberamente. E poi, quando qualcuno li usa, non può far nulla in segreto. Sappiamo cosa viene utilizzato in quel momento e perché. Era praticamente impossibile per me compiere un’analisi dettagliata dello spettro di Nemesis e del Sole, o servirmi del computer dell’Osservatorio per i calcoli necessari, senza che gli altri se ne accorgessero. E poi ho il sospetto che Pitt mi facesse sorvegliare da qualcuno nell’Osservatorio. Se avessi trasgredito gli ordini, lo avrebbe saputo subito.» «Non avrebbe potuto farti nulla, vero?» «Non avrebbe potuto farmi giustiziare per tradimento, se è a questo che ti riferisci… no, l’idea non lo avrebbe nemmeno sfiorato… però avrebbe potuto destituirmi, togliermi dall’Osservatorio e mandarmi a lavorare nelle fattorie. Una prospettiva tutt’altro che simpatica. E poco dopo la mia discussione con Pitt, abbiamo scoperto che Nemesis aveva un pianeta… o una stella compagna. Di preciso, non sappiamo ancora quale sia la definizione esatta. Erano separati soltanto da una distanza di quattro milioni di chilometri, e il corpo celeste compagno non emetteva alcuna radiazione luminosa visibile.» «Stai parlando di Megas, vero, mamma?» «Sì. È una vecchia parola che significa «grande» e, come pianeta, Megas è molto grande, molto più grande del maggior pianeta del Sistema Solare, Giove. Ma è molto piccolo come stella. Alcuni considerano Megas una nana bruna.» Eugenia si interruppe e fissò la figlia, quasi dubitasse all’improvviso della sua capacità di assimilazione. «Sai cos’è una nana bruna, Molly?» «Mi chiamo Marlene, mamma.» Eugenia arrossì leggermente. «Sì. Scusa se di tanto in tanto me ne dimentico. Non posso farci nulla. Vedi, un tempo avevo una bambina tanto cara che si chiamava Molly.» «Lo so. E la prossima volta che avrò sei anni, potrai chiamarmi Molly finché vorrai.» Eugenia rise. «Sai cos’è una nana bruna, Marlene?» «Sì, mamma. Una nana bruna è un piccolo corpo celeste pseudostellare, con una massa troppo ridotta per sviluppare le temperature e le pressioni necessarie per produrre la fusione dell’idrogeno nel suo interno, ma con una massa sufficiente per produrre reazioni secondarie che consentono al corpo di conservare un certo calore.» «Esatto. Niente male. Megas è un caso limite, in bilico tra le due cose. O è un pianeta molto caldo, o è una nana bruna molto fioca. Non sprigiona radiazioni luminose visibili, però ha una intensa emissione infrarossa. È diverso da qualsiasi cosa studiata in passato. È stato il primo corpo planetario extrasolare, cioè il primo pianeta all’esterno del Sistema Solare, che abbiamo potuto studiare dettagliatamente, e tutto l’Osservatorio era indaffaratissimo. Anche volendo, non avrei avuto la possibilità di analizzare il moto di Nemesis e, se devo essere sincera, per un po’ me ne sono dimenticata. Anche a me interessava moltissimo Megas, capisci?» «Hmmm» fece Marlene. «Abbiamo scoperto che era l’unico corpo planetario di dimensioni considerevoli in orbita attorno a Nemesis, ma era sufficiente. Aveva una massa quintupla…» «Lo so, mamma. Ha una massa quintupla rispetto a Giove, e che equivale a un trentesimo della massa di Nemesis. Il computer mi ha informata da un pezzo.» «Certo, cara. Ed è inabitabile come Giove… anzi, ancor più inabitabile di Giove, se mai. All’inizio siamo rimasti delusi, anche se in fondo non ci aspettavamo di trovare un pianeta abitabile attorno a una nana rossa. Se un pianeta è abbastanza vicino a una stella come Nemesis da presentare l’acqua allo stato liquido, per gli influssi gravitazionali è inevitabile che il pianeta rivolga sempre un lato alla stella.» «Ed è quello che fa Megas, no, mamma? Voglio dire, un lato guarda sempre Nemesis, vero?» «Sì. Il che significa che Megas ha un lato caldo e uno freddo, e il lato caldo è piuttosto caldo. Sarebbe al calor rosso, se non fosse per la circolazione della sua atmosfera densa che tende a equilibrare un po’ le temperature. Per questo fenomeno e per il calore interno di Megas, anche il lato freddo è abbastanza caldo. Megas possiede molti aspetti singolari che non trovavano riscontro nell’esperienza astronomica. E poi abbiamo scoperto che Megas aveva un satellite o, volendo considerare Megas una piccolissima stella, un pianeta… Eritro.» «Attorno al quale orbita Rotor, lo so. Ma, mamma, sono passati più di undici anni da quando si è fatto tanto chiasso per Megas ed Eritro. In tutto questo tempo, non sei riuscita a dare un’occhiata di nascosto allo spettro di Nemesis e del Sole? Non hai fatto qualche calcolo?» «Be’…» «L’hai fatto, lo so» si affrettò a dire Marlene. «Lo vedi dalla mia espressione?» «Da tutto.» «Sai, Marlene, può essere molto sgradevole avere attorno una persona come te… Comunque, sì, lo ammetto, ho dato un’occhiata.» «E…?» «Sì, si sta dirigendo verso il Sistema Solare.» Ci fu una pausa. Poi Marlene disse sottovoce: «Ci sarà una collisione?». «No, secondo i miei calcoli. Sono sicura che Nemesis non colpirà il Sole, né la Terra, né qualche parte importante del Sistema Solare, se è per questo. Ma, vedi, non è necessario che colpisca qualcosa… Anche se non colpirà nulla, probabilmente distruggerà la Terra.» XIV Per Marlene era chiaro: a sua madre non piaceva parlare della distruzione della Terra, c’erano delle frizioni interne che la bloccavano, se fosse dipeso da lei avrebbe smesso di parlare. L’espressione di Eugenia, il modo in cui si scostò leggermente dalla figlia (quasi fosse ansiosa di andarsene) e si passò piano la lingua sulle labbra (quasi stesse cercando di cancellare il sapore delle parole dette)… erano tutti messaggi inequivocabili per Marlene. Ma non voleva che sua madre smettesse. Quello che aveva saputo non le bastava. «Se Nemesis non colpirà la Terra, come farà a distruggerla?» chiese garbatamente. «Proverò a spiegarti. La Terra gira attorno al Sole, proprio come Rotor gira attorno a Eritro. Se nel Sistema Solare ci fossero solo la Terra e il Sole, la Terra girerebbe mantenendo la stessa orbita quasi in eterno. Dico «quasi» perché, ruotando, la Terra irradia delle onde gravitazionali che riducono la sua quantità di moto, e questo fa sì che la Terra si avvicini lentissimamente al Sole. Ma possiamo ignorare il fenomeno. "Ci sono altri fattori che complicano la situazione, perché la Terra non è sola. La Luna, Marte, Venere, Giove, tutti i corpi vicini attirano la Terra. Sono attrazioni di scarsissima entità rispetto all’attrazione del Sole, così la Terra rimane nella propria orbita più o meno. Tuttavia, queste attrazioni minori, che variano in quanto a direzione e intensità in modo complicato per il movimento dei vari corpi celesti, producono dei lievi cambiamenti nell’orbita terrestre. La Terra oscilla leggermente dentro e fuori, la sua inclinazione assiale si sposta e l’angolo varia, l’eccentricità cambia un po’, e così via. "Si può dimostrare… è stato dimostrato… che questi cambiamenti minori sono ciclici. Non proseguono in una direzione, ma presentano fasi alterne, si accentuano e diminuiscono. Risultato: la Terra, nella sua orbita attorno al Sole, vibra leggermente in una dozzina di modi diversi. Tutti i corpi del Sistema Solare vibrano così. La vibrazione della Terra non le impedisce di ospitare la vita. Nel peggiore dei casi, può verificarsi una grande glaciazione o una scomparsa dei ghiacci, e un aumento e un abbassamento del livello del mare, ma la vita è sopravvissuta a ogni genere di cataclisma per oltre tre miliardi di anni. "Ora supponiamo che Nemesis sfrecci in prossimità del Sistema Solare senza entrare in collisione, che arrivi al massimo a un mese luce di distanza, circa… meno di un trilione di chilometri. Passando, e il suo passaggio durerebbe un certo numero di anni, Nemesis darà uno scossone gravitazionale al sistema. La vibrazione diventerà più forte, ma poi, una volta passata Nemesis, si riassesterà.» Marlene intervenne. «Ho l’impressione che tu la consideri una cosa tragica anche se dalle tue parole non sembrerebbe. Che male c’è se Nemesis farà vibrare un po’ di più il Sistema Solare… se alla fine tutto si riassesterà?» «Già, ma tornerà tutto come prima? Ecco il problema. Se la posizione di equilibrio della Terra sarà leggermente diversa… se la Terra sarà un po’ più lontana dal Sole o un po’ più vicina, se la sua orbita sarà un po’ più eccentrica o il suo asse più inclinato o meno inclinato… che ripercussioni ci saranno sul clima terrestre? Anche un piccolo cambiamento potrebbe trasformarla in un mondo inabitabile.» «Non puoi stabilirlo prima?» «No. Rotor non è il posto più adatto per calcoli del genere. Anche Rotor vibra, e parecchio. Stando qui ci vorrebbero molto tempo e un’infinità di calcoli per dedurre dalle mie osservazioni la traiettoria esatta di Nemesis… e poi non avremo nessuna certezza finché Nemesis non sarà molto più vicina al Sistema Solare, cioè quando io sarò morta da un pezzo.» «Quindi non puoi stabilire con precisione a che distanza passerà dal Sistema Solare.» «È quasi impossibile calcolarlo. Bisogna tenere conto del campo gravitazionale di ogni stella vicina nel raggio di una dozzina di anni luce. Dopo tutto, il minimo effetto trascurato nei calcoli, in oltre due anni luce, potrebbe accumularsi e portare a una deviazione enorme, e invece del passaggio ravvicinato previsto avremmo una traiettoria lontanissima, o viceversa.» «Il Commissario Pitt ha detto che tutti gli abitanti del Sistema Solare potranno andare via, se vorranno, prima dell’arrivo di Nemesis. È vero?» «Può darsi. Ma è impossibile sapere cosa accadrà in cinquemila anni, quali mutamenti storici avverranno e in che modo incideranno sulla situazione. Noi possiamo solo sperare che tutti si salvino.» «Anche se nessuno li avvertirà» fece Marlene esitante, temendo di far notare una cosa ovvia a sua madre «lo scopriranno da soli. È inevitabile. Nemesis si avvicinerà sempre più, e, a un certo punto, non avranno più dubbi e potranno calcolare la traiettoria di Nemesis con precisione molto maggiore…» «Però avranno molto meno tempo per fuggire… se saranno costretti a farlo.» Marlene abbassò lo sguardo. «Mamma, non arrabbiarti con me. Ho l’impressione che tu saresti infelice anche se tutti abbandonassero il Sistema Solare indenni. C’è qualcos’altro che non va. Per favore, dimmelo.» «Il pensiero che tutti lascino la Terra non mi piace. Anche se l’esodo avverrà in modo ordinato, con tempo a sufficienza e senza gravi incidenti… no, è un pensiero che non mi piace ugualmente. Non voglio che la Terra venga abbandonata.» «E se sarà necessario abbandonarla?» «Be’, allora sarà abbandonata. So accettare l’inevitabile, ma non è detto che debba piacermi.» «Sei sentimentale nei confronti della Terra? Hai studiato là, vero?» «Ho completato la mia specializzazione in astronomia, su quel pianeta. La Terra non mi piaceva, ma questo non ha importanza. È il luogo natale dell’umanità. Capisci, Marlene? Anche se quando ero là non l’apprezzavo molto, la Terra rimane pur sempre il mondo dove la vita è nata e si è sviluppata nel corso di millenni e millenni. Per me non è solo un mondo, ma un’idea, un’astrazione. Voglio che esista, perché rappresenta il nostro passato. Forse non riesco a spiegarmi bene…» «Papà era un terrestre» disse Marlene. Eugenia contrasse leggermente le labbra. «Sì.» «Ed è tornato sulla Terra.» «Stando ai documenti ufficiali, sì. Immagino sia tornato là.» «Dunque io sono mezza terrestre, giusto?» Eugenia aggrottò le ciglia. «Siamo tutti terrestri, Marlene. I miei trisavoli sono vissuti sulla Terra per tutta la vita. La mia bisnonna è nata sulla Terra. Tutti, senza eccezione, discendono dai terrestri. E non solo gli esseri umani. Ogni organismo vivente di ogni Colonia, dal virus all’albero, discende dalle forme di vita terrestri.» «Ma solo gli esseri umani ne sono consapevoli» osservò Marlene. «E tra alcuni c’è un legame particolarmente stretto. Qualche volta pensi a mio padre, anche adesso?» Marlene alzò lo sguardo un attimo e sussultò. «Non sono affari miei. Ecco cosa mi risponderai.» «In effetti, è quello che ho appena pensato, ma non sono obbligata a lasciarmi guidare dai miei sentimenti. In fin dei conti, sei sua figlia. Sì, di tanto in tanto penso a lui.» Eugenia si strinse leggermente nelle spalle. «E tu, Marlene? Tu pensi a lui?» «Non ho nulla a cui pensare. Non lo ricordo nemmeno. Non ho mai visto nessun ologramma, niente.» «Già, era inutile…» Eugenia non terminò la frase. «Però quando ero piccola mi chiedevo come mai certi padri fossero rimasti coi loro bambini al momento della Partenza e certi altri no. Forse quelli che erano andati via non volevano bene ai loro bambini, e quindi mio padre non mi voleva bene, ho pensato.» Eugenia fissò la figlia. «Non me l’hai mai detto.» «Era un mio pensiero personale, di quando ero piccola. Crescendo, ho capito che il problema non era così semplice.» «Non avresti mai dovuto pensare una cosa del genere. Non è vero. Te lo avrei assicurato, se solo avessi immaginato…» «Non ti piace parlare di quel periodo, mamma. Capisco.» «L’avrei fatto ugualmente, se avessi saputo cosa pensavi… se potessi leggerti in faccia come tu mi leggi in faccia. Tuo padre ti voleva bene. Ti avrebbe portata con sé se glielo avessi permesso. No, è colpa mia se voi due vi siete separati.» «Anche sua. Poteva rimanere con noi.» «Be’, avrebbe potuto, forse… ma adesso, a distanza di anni, mi rendo conto dei suoi problemi e li capisco meglio. Dopo tutto, io non stavo lasciando la mia casa… il mio mondo sarebbe venuto con me. Anche se sono a più di due anni luce dalla Terra, sono ancora a casa mia, su Rotor, dove sono nata. Per tuo padre era diverso. È nato sulla Terra, non su Rotor, e non sopportava l’idea di staccarsi dalla Terra completamente, per sempre, immagino. Penso anche a questo, di tanto in tanto. Il pensiero che la Terra venga abbandonata mi ripugna. A miliardi di persone si spezzerà il cuore se saranno costretti ad andarsene.» Ci fu un attimo di silenzio tra loro, poi Marlene disse: «Chissà cosa sta facendo mio padre sulla Terra in questo momento?» «Chissà? Impossibile dirlo, Marlene. Venti trilioni di chilometri sono una distanza enorme, e quattordici anni sono parecchio tempo.» «Credi che sia ancora vivo?» «Nemmeno questo possiamo sapere» rispose Eugenia. «La vita può essere molto breve sulla Terra.» Poi, come se si rendesse conto all’improvviso che non stava parlando tra sé, continuò: «È vivo, Marlene, ne sono sicura. Quando è partito, godeva di ottima salute, e non ha ancora cinquant’anni, in questo momento». E sottovoce: «Ti manca, Marlene?» Marlene scosse la testa. «Non posso sentire la mancanza di qualcosa che non ho mai avuto.» ("Però tu l’hai avuto, mamma" pensò. "E tu senti la sua mancanza.") 8 Agente XV Strano a dirsi, Crile Fisher dovette abituarsi alla Terra… o riabituarsi. Non pensava che Rotor lo avesse condizionato a tal punto, in nemmeno quattro anni. Era stata la sua assenza più lunga dalla Terra, ma sicuramente non lo era stata abbastanza da fargli apparire la Terra come un luogo estraneo. Ora c’erano le dimensioni enormi del pianeta, l’orizzonte lontano che terminava bruscamente contro il cielo invece di incurvarsi in modo indistinto. E c’erano le folle, la gravità costante, l’atmosfera turbolenta e ostinata, gli sbalzi di temperatura, la natura incontrollata. Non che Crile dovesse sperimentare direttamente quelle cose per avvertirne la presenza. Anche quando era nel proprio alloggio, sapeva che erano là fuori, intorno a lui, e la brutalità dell’esterno pervadeva il suo animo, lo invadeva in qualche modo. O forse era la stanza, troppo piccola, troppo piena… forse erano i suoni e i rumori in sottofondo, troppo inconfondibili… come se tutt’intorno ci fosse un mondo congestionato e in rovina che lo schiacciasse. Strano… In quegli anni su Rotor la Terra gli era mancata moltissimo, e adesso che era tornato sulla Terra era Rotor a far sentire pesantemente la sua mancanza. Avrebbe passato il resto della sua vita desiderando di trovarsi in un posto diverso da quello in cui si trovava? Il segnalatore luminoso lampeggiò, e Crile sentì il ronzio. Tremolò… le cose sulla Terra tendevano a tremolare, mentre su Rotor tutto era costante, con un’efficienza quasi aggressiva. «Avanti» disse sottovoce, ma abbastanza forte da attivare il meccanismo di apertura. Garand Wyler entrò (Fisher sapeva che il visitatore doveva essere Wyler) e lo guardò con un’aria divertita. «Ti sei mosso da quando sono andato via, Crile?» «Un po’. Ho mangiato. Sono stato un po’ in bagno.» «Bene. Sei vivo, allora, anche se non sembra.» Garand stava sorridendo; aveva la pelle liscia e bruna, occhi scuri, denti candidi, capelli folti e crespi. «Stai pensando a Rotor?» «Ci penso, di tanto in tanto.» «È un pezzo che voglio chiedertelo, ma non l’ho mai fatto. Com’era? Biancaneve senza i sette nani, vero?» «Biancaneve» annuì Fisher. «Mai visto un nero, là.» «In tal caso, buon viaggio, è una bella liberazione. Lo sapevi che sono partiti?» Fisher contrasse i muscoli e per poco non si alzò in piedi, ma frenò quell’impulso. «Dicevano che l’avrebbero fatto» annuì. «Non scherzavano. Hanno cominciato ad allontanarsi. Li abbiamo osservati finché abbiamo potuto, abbiamo seguito la loro radiazione. Hanno aumentato la velocità con quella loro iperassistenza e in una frazione di secondo, mentre li captavamo ancora benissimo, sono spariti. Non abbiamo più ricevuto nulla.» «Li avete captati quando sono rientrati nello spazio?» «Parecchie volte. Il segnale era sempre più debole. Viaggiavano alla velocità della luce dopo essersi sgranchiti i muscoli, e dopo tre passaggi dallo spazio all’iperspazio, e viceversa, erano troppo lontani.» «L’hanno voluto loro» disse Fisher con amarezza. «Hanno sbattuto fuori quelli contrari… come me.» «Peccato che tu non ci fossi. Avresti dovuto vedere. È stato uno spettacolo interessante. Lo sai, alcuni esponenti della linea dura hanno insistito fino alla fine dicendo che l’iperassistenza era un imbroglio, che era tutto un trucco.» «Rotor aveva la Sonda Remota. Non avrebbero potuto lanciarla così lontano senza iperassistenza.» «Un trucco! Ecco cosa dicevano quei tipi.» «Era tutto vero.» «Già, adesso lo sanno. Tutti quanti. Quando Rotor è scomparso dagli strumenti, non si è trovata nessun’altra spiegazione. Tutte le Colonie stavano osservando. Impossibile sbagliarsi. Rotor è scomparso da tutti gli schermi nello stesso istante. Quello che irrita maggiormente è il fatto che non sappiamo dove sia diretto.» «Verso Alfa Centauri, immagino. Quale altra destinazione dovrebbe avere?» «Secondo l’Ufficio può darsi che non sia Alfa Centauri, e può darsi che tu lo sappia.» Crile Fisher parve seccato. «Mi hanno interrogato e spremuto in continuazione. Non ho nascosto nulla.» «Certo. Lo sappiamo. Tu credi di avere detto tutto. Vogliono che ti parli, da amico, e che scopra se c’è dell’altro, perché forse sai qualcosa e non te ne rendi conto. Può darsi che salti fuori qualcosa a cui non hai pensato. Sei stato là quattro anni, ti sei sposato, hai avuto una figlia. Impossibile che ti sia sfuggito proprio tutto.» «Impossibile? Se avessero sospettato anche lontanamente che io mi trovassi là per cercare qualcosa mi avrebbero sbattuto fuori. Ero già un individuo sospetto, per il semplice fatto di provenire dalla Terra. Se non mi fossi sposato, dimostrando così di voler rimanere rotoriano, mi avrebbero sbattuto fuori ugualmente. Comunque, mi hanno tenuto alla larga da qualsiasi informazione o materiale importante.» Fisher distolse lo sguardo. «E ha funzionato. Mia moglie era solo un’astronoma. Non ho potuto scegliere. Non potevo ricorrere a un annuncio olovisivo specificando che mi interessava una giovane che fosse un’esperta iperspaziale. Se ne avessi incontrata una, avrei fatto il possibile per agganciarla, anche se fosse stata un’arpia, invece mai incontrata un’esperta iperspaziale in quei quattro anni. La tecnologia era zona vietata. Secondo me tenevano le persone chiave completamente isolate. Scommetto che nei laboratori portavano tutti la maschera e usavano nomi in codice. Quattro anni… e non ho mai trovato il minimo indizio, non ho mai scoperto nulla. E sapevo che così avrei chiuso con l’Ufficio.» Si voltò verso Garand e, scaldandosi all’improvviso, disse: «Le cose hanno preso una piega talmente brutta che sono diventato una specie di imbecille, di inetto. Il senso di fallimento era opprimente». Wyler sedeva di fronte a Fisher dall’altra parte del tavolo nella stanza ingombra, stando in bilico sulle gambe posteriori della sedia, ma aggrappandosi al tavolo per non cadere. «Crile, l’Ufficio non può permettersi di essere delicato, però non è del tutto insensibile» disse. «A loro dispiace di doverti trattare così, ma devono farlo. E a me dispiace di avere ricevuto questo incarico, ma devo andare fino in fondo. Siamo preoccupati, perché hai fallito e non ci hai portato nulla. Se Rotor non fosse partito, forse avremmo pensato che non c’era nulla da scoprire. Ma Rotor è partito. Aveva davvero l’iperassistenza, eppure tu non ci hai portato nessuna informazione.» «Lo so.» «Ma questo non significa che vogliamo buttarti fuori o… sbarazzarci di te. Speriamo che tu possa ancora esserci utile. Quindi devo assicurarmi che tu abbia fallito in buona fede.» «Che significa?» «Devo essere in grado di confermare che non hai fallito per qualche debolezza personale. Dopo tutto, hai sposato una rotoriana. Era bella? Le eri affezionato?» Fisher ringhiò: «In pratica mi stai chiedendo se, per amore di una rotoriana, ho protetto deliberatamente Rotor e li ho aiutati a custodire il loro segreto». «Be’, l’hai fatto?» disse Wyler, imperturbabile. «Come puoi chiedermi una cosa simile? Se avessi deciso di diventare rotoriano, sarei partito con loro. Adesso sarei chissà dove nello spazio, e voi forse non potreste più trovarmi. Ma non l’ho fatto. Ho abbandonato Rotor e sono tornato sulla Terra, pur sapendo che il mio fallimento probabilmente mi avrebbe rovinato la carriera.» «Apprezziamo la tua lealtà.» «C’è più lealtà di quel che pensate, nel mio comportamento.» «Ci rendiamo conto che probabilmente amavi tua moglie e che il dovere ti ha costretto a lasciarla. Questo deporrebbe a tuo favore, se potessimo essere sicuri…» «Mia figlia… più che mia moglie.» Wyler osservò Fisher pensieroso. «Sappiamo che hai una figlia di un anno, Crile. Date le circostanze, forse avresti dovuto evitare di complicarti la vita diventando padre.» «Sono d’accordo. Però non sono una macchina, non funziono come un robot perfettamente a punto. Le cose succedono anche se uno non vuole, a volte. E quando è nata la bambina, dopo esserle stato accanto un anno…» «È comprensibile, ma è stato appena un anno. Un periodo un po’ troppo breve per un legame affettivo…» Fisher fece una smorfia. «Potrà anche sembrarti comprensibile, però non capisci.» «Spiega, allora.» «Vedi, si tratta di mia sorella… mia sorella minore.» Wyler annuì. «Sì, è un dato registrato nella tua scheda… Rose, mi pare.» «Roseanne. È morta nei disordini di San Francisco otto anni fa. Aveva solo diciassette anni.» «Mi spiace.» «Lei non partecipava ai disordini. Era uno di quegli spettatori casuali che di solito sono più esposti agli incidenti degli agitatori e dei poliziotti. Almeno abbiamo trovato il suo corpo, e ho potuto cremare qualcosa…» Wyler restò in silenzio, tradendo un certo imbarazzo. «Aveva appena diciassette anni» riprese Fisher. «I nostri genitori erano morti quando lei aveva quattro anni e io quattordici.» Schiaffeggiò l’aria con una mano, quasi a indicare che non era un argomento piacevole. «Ho lavorato dopo la scuola, ho fatto in modo che non le mancasse nulla… cibo, vestiti… perché la sua vita fosse comoda e tranquilla, anche quando la mia non lo era. Ho imparato a programmare, continuando a guadagnarmi da vivere a malapena… e poi, a diciassette anni, senza aver mai fatto male a nessuno, senza nemmeno sapere cosa fossero quegli scontri e quelle grida, Roseanne è rimasta intrappolata nei disordini…» «Capisco perché ti sei offerto volontario per Rotor» disse Wyler. «Oh, sì. Per un paio d’anni sono rimasto completamente frastornato. Sono entrato nell’Ufficio in parte per tenere la mente occupata, in parte perché pensavo che sarebbe stato un lavoro pericoloso. Per un po’ l’idea della morte mi ha attirato… non mi sarebbe dispiaciuto morire facendo qualcosa di utile. Quando si è discusso del problema di piazzare un agente su Rotor, mi sono offerto volontario. Volevo andarmene dalla Terra.» «E adesso sei tornato. Ti spiace?» «Un po’, sì. Ma Rotor mi soffocava. Nonostante tutti i suoi difetti, la Terra è spaziosa… Avresti dovuto vedere Roseanne, Garand. Non puoi immaginare… Non era graziosa, ma aveva certi occhi…» Gli occhi di Fisher erano rivolti al passato, e tra le sue sopracciglia si era formata una piccola grinza, come se stesse tendendo lo sguardo per mettere bene a fuoco le immagini. «Occhi stupendi, ma spaventosi. Mi sembrava che fosse impossibile fissarli senza provare un senso di inquietudine. Roseanne riusciva a guardarti dentro, capisci?» «Francamente, no» ammise Wyler. Fisher lo ignorò. «Sapeva sempre quando mentivi o nascondevi la verità. E se stavi in silenzio capiva subito qual era il problema.» «Non vorrai dirmi che era telepatica?» «Cosa? Oh, no. Diceva che leggeva le espressioni, che ascoltava il tono di voce, che nessuno poteva nascondere quel che pensava, che anche le risate e i sorrisi non riuscivano a mascherare l’amarezza e la sofferenza interiore. Ha provato a spiegarmi, ma non ho mai afferrato bene cosa facesse. Roseanne era qualcosa di speciale, Garand. Avevo soggezione di lei… E poi è nata mia figlia. Marlene.» «Sì?» «Aveva gli stessi occhi.» «La bambina aveva gli occhi di tua sorella?» «Non subito. È stata una cosa graduale, e io ho seguito il suo sviluppo. Quando Marlene aveva sei mesi, i suoi occhi hanno cominciato a darmi i brividi.» «Succedeva anche a tua moglie?» «Mai notato nessuna reazione del genere da parte sua, del resto lei non aveva mai avuto una sorella come Roseanne… Marlene piangeva pochissimo, era tranquilla. Ricordo che anche Roseanne era così, da piccola. E nemmeno Marlene prometteva di diventare particolarmente graziosa. Era come se Roseanne fosse tornata da me. Quindi, capisci, è stata una cosa tremenda per me…» «Tornare sulla Terra?» «Sì, e lasciarla là. È stato come perdere Roseanne una seconda volta. Adesso non la rivedrò più. Mai più!» «Però sei tornato ugualmente.» «Lealtà! Dovere! Ma se devo essere sincero, c’è mancato poco che rimanessi. Ero tormentato dall’incertezza. Ero disperato. Non volevo lasciare Roseanne… Marlene. Vedi, confondo i nomi. Ed Eugenia, mia moglie, mi ha detto angosciata: "Se sapessi dove siamo diretti non saresti così ansioso di tornare indietro". In quel momento io non volevo partire. Le ho chiesto di venire sulla Terra con me. Ha rifiutato. Le ho chiesto di lasciarmi portare Ro… Marlene, almeno. Ha rifiutato. E poi, proprio quando avrei potuto cedere, decidendo di restare, lei si è arrabbiata e mi ha ordinato di andarmene. E io l’ho fatto.» Wyler fissò Fisher riflessivo. «"Se sapessi dove siamo diretti non saresti così ansioso di tornare indietro." Ha detto così, tua moglie?» «Sì. E quando le ho chiesto: "Perché? Dov’è diretto Rotor?" lei ha risposto: "Verso le stelle".» «Non quadra, Crile. Sapevi che avevano intenzione di raggiungere le stelle, ma lei ha detto: "Se sapessi dove siamo diretti…" C’era qualcosa che non sapevi, dunque. Cosa?» «Ma di che stai parlando? Come si fa a sapere una cosa che non si sa?» Wyler continuò imperterrito. «Questo lo hai detto all’Ufficio nel tuo rapporto?» Fisher rifletté. «Non credo. Non ci ho nemmeno pensato finché non ho cominciato a raccontarti questa storia, a spiegarti come mai, per poco, non sono rimasto là.» Chiuse gli occhi, poi disse lentamente: «No, questa è la prima volta che ne parlo. È la prima volta che riesco a pensarci». «Benissimo, allora. Adesso che ci pensi… dov’era diretto Rotor? Su Rotor hai sentito qualche ipotesi circa la loro destinazione? Qualche voce? Qualche supposizione?» «Tutti davano per scontato che avrebbero raggiunto Alfa Centauri, la destinazione più logica. È la stella più vicina.» «Tua moglie era un’astronoma. Lei cos’ha detto?» «Nulla. Non ne ha mai parlato.» «Rotor ha lanciato la Sonda Remota.» «Lo so.» «E tua moglie faceva parte del progetto… in qualità di astronoma.» «Sì. Però non ha mai parlato nemmeno di questo, e io mi sono guardato bene dal farlo. La mia missione sarebbe fallita, e forse mi avrebbero imprigionato, o addirittura giustiziato, se avessi mostrato una curiosità eccessiva.» «Ma, dato che era un’astronoma, tua moglie doveva conoscere la destinazione di Rotor. Infatti ti ha detto: "Se tu sapessi…" Capisci? Lei sapeva, e se anche tu…» Fisher non parve rilevare l’osservazione. «Dal momento che non mi ha detto quel che sapeva, non sono in grado di dirtelo.» «Sicuro? Nessun commento distratto che allora ti è sembrato privo di importanza? Dopo tutto, tu non sei un astronomo, e può darsi che tua moglie abbia detto qualcosa che tu non hai afferrato bene. Non ha detto nulla che ti abbia lasciato perplesso? Non ricordi nulla?» «Non mi viene in mente nulla.» «Pensaci! È possibile che la Sonda Remota abbia individuato un sistema planetario attorno a una o a entrambe le stelle di Alfa Centauri?» «Non sono in grado di dirlo.» «O dei pianeti in orbita attorno a qualche stella?» Fisher si strinse nelle spalle. «Pensaci!» lo sollecitò Wyler. «Hai ragione di credere che tua moglie intendesse dire: "Tu pensi che vogliamo raggiungere Alfa Centauri, ma ci sono dei pianeti attorno ad Alfa Centauri, e sono quei pianeti la meta del nostro viaggio". Oppure: "Tu pensi che vogliamo raggiungere Alfa Centauri, però la nostra meta è un’altra stella, dove siamo certi di trovare un pianeta adatto a noi". O qualcosa del genere?» «Non saprei proprio… non ne ho la minima idea.» Garand Wyler contrasse un attimo le labbra carnose. «Be’, sta’ a sentire, Crile, vecchio mio… A questo punto accadranno tre cose. Primo, tu verrai interrogato di nuovo… rapporto supplementare. Secondo, ho l’impressione che dovremo convincere la colonia di Cerere a lasciarci usare il suo telescopio asteroidale, per osservare attentamente tutte le stelle nel raggio di un centinaio di anni luce. Terzo, dovremo spronare i nostri esperti iperspaziali perché si sbrighino a compiere qualche progresso. Vedrai se non andrà così!» 9 Eritro XVI Certe volte, di tanto in tanto, sempre più raramente col passare degli anni (o almeno così gli sembrava), Janus Pitt trovava il tempo di sistemarsi comodamente sulla sedia, solo e in silenzio, e di lasciare che la sua mente si rilassasse. Erano momenti in cui non c’era nessun ordine da dare, nessuna informazione da assimilare, nessuna decisione immediata da prendere, nessuna fattoria da visitare, nessuna fabbrica da ispezionare, nessuna regione dello spazio da occupare, nessuna persona da ricevere o ostacolare o incoraggiare… E in quei momenti Pitt si concedeva sempre il lusso supremo e meno esauribile… quello dell’autocommiserazione. Non che non fosse soddisfatto della situazione. Si era sempre ripromesso di diventare Commissario, perché si riteneva la persona più adatta a governare Rotor… e adesso che era Commissario, ne era ancora convinto. Ma perché, tra tutti gli sciocchi di Rotor, non riusciva a trovare nessuno che possedesse la sua lungimiranza? Erano trascorsi quattordici anni dalla Partenza, eppure nessuno si rendeva realmente conto dell’inevitabile, sebbene Pitt avesse spiegato tutto in modo accurato. Un giorno, nel Sistema Solare, presto o tardi (presto, probabilmente), qualcuno avrebbe messo a punto l’iperassistenza come gli scienziati di Rotor… un tipo più perfezionato di iperassistenza, magari. Un giorno l’umanità, con le sue centinaia e migliaia di Colonie, coi suoi miliardi di persone, avrebbe iniziato la colonizzazione della Galassia. E quello sarebbe stato un periodo brutale. Sì, la Galassia era enorme. Quante volte aveva sentito quella frase, Pitt? E oltre i suoi confini c’erano altre galassie. Ma l’umanità non si sarebbe espansa in modo uniforme. Ci sarebbero sempre stati dei sistemi stellari migliori degli altri, per qualche motivo… sempre! E per il controllo di quei sistemi stellari sarebbero scoppiate lotte e controversie. Se fossero esistiti dieci sistemi stellari e dieci gruppi di colonizzatori, i dieci gruppi si sarebbero avventati tutti su un unico sistema. E prima o poi avrebbero scoperto Nemesis, e i colonizzatori sarebbero arrivati. Come sarebbe sopravvissuto Rotor, allora? Solo guadagnando tempo, il più possibile, costruendo una civiltà forte, ed espandendosi adeguatamente. Se avessero avuto abbastanza tempo, i rotoriani avrebbero potuto estendere il loro dominio su un gruppo di stelle. In caso contrario, Nemesis sarebbe stata sufficiente… a patto di renderla inespugnabile, però. Pitt non sognava conquiste universali, non sognava conquiste di alcun genere. Voleva semplicemente un’isola di tranquillità e sicurezza in previsione dei giorni in cui la Galassia sarebbe stata in preda al caos e ai conflitti a causa delle ambizioni contrastanti dell’umanità. Ma era il solo a rendersene conto, a reggerne il peso. Forse sarebbe vissuto ancora un quarto di secolo, rimanendo al potere come Commissario effettivo o come anziano statista dal parere decisivo. Però alla fine sarebbe morto… e a chi avrebbe potuto lasciare in eredità la sua lungimiranza? Era allora che provava una fitta di autocommiserazione. Aveva lavorato sodo per tanti anni, avrebbe continuato a impegnarsi per molti anni ancora, eppure non c’era nessuno che lo apprezzasse… che lo apprezzasse veramente. E tutto sarebbe finito comunque, perché l’Idea sarebbe affondata nell’oceano di mediocrità che lambiva sempre le caviglie dei pochi capaci di spingere lo sguardo avanti negli anni. Erano trascorsi quattordici anni dalla Partenza, e mai una volta che fosse riuscito a sentirsi fiducioso! Ogni notte si addormentava col timore che lo svegliassero prima dell’alba per comunicargli che un’altra Colonia era arrivata… che Nemesis era stata scoperta. Ogni giorno una parte nascosta di Pitt non prestava attenzione alle attività quotidiane, ma stava in ascolto… pronta a cogliere quell’annuncio fatale. Quattordici anni, e loro non erano ancora al sicuro. Era stata costruita un’altra Colonia… Nuova Rotor. Era abitata, però era un mondo nuovo, naturalmente. Sapeva ancora di vernice fresca, per usare il vecchio detto. Altre tre Colonie erano in varie fasi di costruzione. Presto (entro il decennio, in ogni caso) le Colonie in costruzione sarebbero aumentate, e avrebbero ricevuto l’ordine più antico: Crescete e moltiplicatevi! Poiché l’esempio della Terra era di fronte a tutti, e poiché ogni Colonia aveva una capienza limitata e non espansibile, la procreazione era sempre stata rigorosamente controllata nello spazio. Lì le esigenze irremovibili dell’aritmetica si scontravano con la forza, a volte irresistibile, dell’istinto, ed era l’irremovibilità a vincere. Ma con l’aumento delle Colonie, a un certo punto sarebbe stato necessario un numero maggiore di persone, molto maggiore, e sarebbe stato possibile dare libero sfogo all’istinto riproduttivo. Un fenomeno temporaneo, ovvio. Indipendentemente dal loro numero, le Colonie avrebbero potuto essere popolate senza sforzo da una popolazione in grado di raddoppiare tranquillamente ogni trentacinque anni, o anche meno. E quando il ritmo di formazione delle Colonie avrebbe raggiunto il punto di flessione, iniziando a diminuire, forse sarebbe stato molto più arduo ricacciare nella bottiglia il genio liberato con facilità in precedenza. Una volta morto Pitt, chi avrebbe previsto quegli sviluppi, preparandosi per una tale evenienza? E c’era Eritro, il pianeta attorno a cui orbitava Rotor, mentre l’enorme Megas e la rossa Nemesis sorgevano e tramontavano seguendo uno schema complesso. Eritro! Un problema fin dall’inizio. Pitt ricordava benissimo i primi giorni del loro ingresso nel Sistema Nemesiano. La relativa semplicità della famiglia planetaria di Nemesis si era manifestata a poco a poco, via via che Rotor avanzava verso la nana rossa. Megas era stato scoperto a una distanza di quattro milioni di chilometri da Nemesis, solo un quindicesimo della distanza di Mercurio dal Sole. Megas riceveva all’incirca la stessa quantità di energia che la Terra riceveva dal Sole, ma con una minore intensità di luce visibile e una intensità maggiore di infrarossi. Comunque, Megas era chiaramente inabitabile, anche a prima vista. Era un gigante gassoso, con una faccia rivolta sempre verso Nemesis. La sua rotazione e la sua rivoluzione duravano entrambe venti giorni. La notte perpetua su metà di Megas lo raffreddava solo in modesta misura, dato che il suo calore interno saliva in superficie. Il giorno perpetuo sull’altra metà era caldissimo. Malgrado un simile calore, Megas aveva un’atmosfera solamente perché, con una massa superiore e un raggio minore rispetto a Giove, la sua gravità superficiale era quindici volte più grande di quella di Giove e quaranta volte più grande di quella terrestre. E Nemesis non aveva nessun altro pianeta di dimensioni notevoli. Poi, però, quando Rotor si era avvicinato di più ed era stato possibile osservare meglio Megas, la situazione era cambiata di nuovo… Era stata Eugenia Insigna a dare la notizia a Pitt. Non che fosse stata lei a fare la scoperta. Il dato era semplicemente apparso sulle fotografie elaborate dal computer, ed era stato sottoposto all’attenzione di Eugenia dal momento che lei era Primo Astronomo. Eccitatissima, Eugenia raggiunse lo studio del Commissario. Esordì in maniera semplice, controllando il tono, anche se le tremava la voce per l’emozione. «Megas ha un satellite.» Pitt aggrottò impercettibilmente le ciglia, ma poi disse: «Prevedibile, no? I giganti gassosi del Sistema Solare hanno perfino una ventina di satelliti». «Certo, Janus, però questo non è un normale satellite. È grande.» Pitt non si scompose. «Giove ha quattro grandi satelliti.» «Voglio dire, molto grande… ha quasi le dimensioni e la massa della Terra.» «Capisco. Interessante.» «Definirlo interessante è poco, Janus… molto poco. Se questo satellite ruotasse direttamente attorno a Nemesis, per gli influssi gravitazionali presenterebbe solo una faccia a Nemesis, e sarebbe inabitabile. Invece, presenta solo una faccia a Megas, che è molto più freddo di Nemesis. Inoltre, l’orbita del satellite è notevolmente inclinata all’equatore di Megas. Questo significa che nel cielo del satellite Megas è visibile solo da un emisfero e si sposta a nord e a sud con un ciclo di circa un giorno, mentre Nemesis percorre il cielo, sorgendo e tramontando, sempre con un ciclo di un giorno. Un emisfero ha dodici ore di oscurità e dodici ore di luce. L’altro emisfero pure, ma durante il periodo diurno Nemesis si trova spesso in eclissi anche per mezz’ora, col raffreddamento compensato dal lieve calore di Megas. Durante le ore di buio, in quell’emisfero, l’oscurità viene attenuata dalla luce riflessa di Megas.» «Il satellite ha un cielo interessante, dunque. Affascinante, per gli astronomi.» «Non è soltanto un giocattolo astronomico, Janus. È possibile che il satellite abbia una temperatura uniforme e adatta agli esseri umani. Può darsi che sia un mondo abitabile.» Pitt sorrise. «Ancor più interessante… Però non avrebbe il nostro tipo di luce, vero?» Eugenia annuì. «Vero. Dovrebbe avere un sole rossastro e un cielo scuro per la mancanza di radiazioni a onde corte… E un paesaggio rossiccio suppongo.» «In tal caso, dato che tu hai battezzato Nemesis e un tuo collaboratore ha battezzato Megas, io avrò il privilegio di scegliere il nome del satellite. Lo chiameremo Eritro… se ben ricordo è la parola greca che significa "rosso".» Per un po’, le notizie si mantennero buone. Oltre l’orbita del sistema MegasEritro fu individuata una fascia asteroidale di discrete dimensioni e, chiaramente, quegli asteroidi avrebbero costituito una fonte di materiali ideale per la costruzione di altre Colonie. E avvicinandosi a Eritro, le sue condizioni di abitabilità sembrarono sempre più favorevoli. Eritro era un pianeta di acqua e di terra anche se i suoi mari, stando a uno studio preliminare del suo strato nuvoloso osservato all’infrarosso e nella gamma visibile, sembravano meno profondi degli oceani terrestri, e anche se in superficie le montagne davvero imponenti erano pochissime. Eugenia Insigna, dopo ulteriori calcoli, affermò che il clima del pianeta nel complesso sarebbe stato perfettamente adatto all’uomo. Poi, quando furono abbastanza vicini a Eritro da compiere un’analisi spettroscopica accurata dell’atmosfera, Eugenia comunicò a Pitt: «L’atmosfera di Eritro è un po’ più densa di quella terrestre, e contiene ossigeno libero… il sedici per cento, più il cinque per cento di argo, e il resto azoto. Devono esserci piccole quantità di anidride carbonica, ma non l’abbiamo ancora individuata. In sostanza, è un’atmosfera respirabile». «Di bene in meglio» commentò Pitt. «Chi avrebbe mai immaginato tutto questo quando hai scoperto Nemesis?» «Di bene in meglio per i biologi. Forse non è una notizia molto buona per Rotor, però. Una notevole percentuale di ossigeno libero nell’atmosfera indica sicuramente la presenza di forme di vita.» «Forme di vita?» disse Pitt, sbalordito per alcuni istanti. «Sì» annuì Eugenia, affondando il colpo, provando apparentemente un piacere perverso nel sottolineare le possibilità. «Quindi, di forme di vita intelligenti, forse… o addirittura di una civiltà evoluta.» XVII Quello che seguì fu un incubo per Pitt. Era già in apprensione perché temeva che i terrestri lo inseguissero e lo raggiungessero, superiori numericamente, e forse anche tecnologicamente… e adesso ecco che un’altra paura lo tormentava, una paura ancor più grande. Forse stavano avvicinandosi a una civiltà antica e progredita, che non voleva essere disturbata… una civiltà capace di annientarli distrattamente in un attimo di fastidio… proprio come un essere umano, senza pensarci, avrebbe potuto schiacciare una zanzara che gli ronzasse troppo vicino all’orecchio. Mentre continuavano ad avanzare verso Nemesis, Janus Pitt, l’aria profondamente turbata, chiese a Eugenia: «La presenza di ossigeno comporta necessariamente l’esistenza della vita?» «È inevitabile, da un punto di vista termodinamico, Janus. In un pianeta di tipo terrestre, ed Eritro è un pianeta di tipo terrestre per quanto ne sappiamo, l’ossigeno libero non può esistere, come in un campo gravitazionale di tipo terrestre una roccia non può rimanere sospesa nell’aria. L’ossigeno, se presente nell’atmosfera, si combina spontaneamente con altri elementi del terreno, emettendo energia. Continua a esistere nell’atmosfera solo se qualche processo fornisce energia e rigenera ininterrottamente ossigeno libero.» «Capisco, Eugenia, ma perché il processo energetico di rigenerazione implica necessariamente l’esistenza di forme di vita?» «Perché in natura non abbiamo mai incontrato nulla che servisse allo scopo, a parte l’azione di fotosintesi delle piante che sfrutta l’energia solare per produrre ossigeno.» «Quando dici "in natura non abbiamo mai incontrato nulla", ti riferisci al Sistema Solare, no? Questo è un altro sistema, con un sole diverso, un pianeta diverso, condizioni diverse. Può anche darsi che le leggi della termodinamica siano ancora valide, d’accordo… ma se l’ossigeno qui venisse prodotto da qualche processo chimico mai incontrato nel Sistema Solare?» «Se sei uno scommettitore, non scommettere questa volta» fu il commento di Eugenia. Occorrevano delle prove, e Pitt dovette aspettare. Prima di tutto, si scoprì che Nemesis e Megas avevano campi magnetici estremamente deboli. Questo fatto non provocò una grande impressione perché era previsto, dato che, sia la stella che il pianeta, ruotavano molto lentamente. Eritro, con un periodo di rotazione di ventitré ore e sedici minuti (uguale al periodo di rivoluzione attorno a Megas), aveva un campo magnetico simile, come intensità, a quello terrestre. Eugenia Insigna espresse la propria soddisfazione. «Almeno, non dobbiamo preoccuparci degli effetti delle radiazioni di campi magnetici intensi, soprattutto dal momento che il vento stellare di Nemesis deve essere molto meno intenso di quello del Sole. È un bene, perché significa che forse potremo individuare la presenza o l’assenza di vita su Eritro a distanza. Vita tecnologica, perlomeno.» «Perché?» chiese Pitt. «È difficilissimo che si possa raggiungere un alto livello tecnologico senza un uso abbondante di radioonde… che si diffonderebbero da Eritro in ogni direzione. Dovremmo riuscire a distinguerle dalle onde elettromagnetiche casuali emesse dal pianeta stesso, visto che queste radiazioni naturali sono di lieve entità, considerato il debole campo magnetico di Eritro.» Pitt intervenne. «Forse non è necessario. Forse possiamo dedurre in un altro modo che Eritro è privo di vita nonostante l’atmosfera ricca di ossigeno.» «Oh? E come? Sono curiosa di sentirlo.» «Ho riflettuto. Ascolta! Non hai detto che gli influssi gravitazionali rallentano la rotazione di Nemesis, di Megas e di Eritro? E non hai detto che, per questo motivo, Megas si è allontanato da Nemesis, ed Eritro da Megas?» «Sì.» «Dunque, se esaminiamo il passato, un tempo Megas era più vicino a Nemesis, ed Eritro era più vicino a Megas e a Nemesis. Quindi, Eritro era troppo caldo per ospitare la vita, e può darsi che sia diventato abitabile solo di recente. Forse non c’è stato abbastanza tempo per la nascita di una civiltà tecnologica.» Eugenia rise garbatamente. «Bravo. Non devo sottovalutare la tua ingegnosità in campo astronomico… Una buona osservazione… non abbastanza buona, però. Le nane rosse hanno una vita molto lunga, e Nemesis potrebbe essersi formata benissimo agli albori dell’Universo… diciamo, quindici miliardi di anni fa. Gli influssi gravitazionali erano senz’altro molto forti all’inizio, quando i corpi erano più vicini, e la maggior parte della separazione forse è avvenuta nei primi tre o quattro miliardi di anni. Gli influssi gravitazionali sono inversamente proporzionali al cubo della distanza, e negli ultimi dieci miliardi di anni non devono esserci stati grandi cambiamenti… dieci miliardi di anni, un arco di tempo più che sufficiente per la nascita di parecchie civiltà tecnologiche! No, Janus, niente congetture. Aspettiamo, e vediamo se riusciamo a captare le radioonde che ci interessano.» …Sempre più vicini a Nemesis. Era un minuscolo disco rosso a occhio nudo, adesso, e il suo bagliore fioco si poteva guardare senza alcun problema. Su un lato, Megas, visibile come un puntino rossastro. Al telescopio, appariva a poco meno di mezza fase, in seguito all’angolo che formava con Rotor e Nemesis. Attraverso il telescopio si riusciva a scorgere anche Eritro, che si presentava come una macchiolina cremisi più sfocata. A poco a poco, divenne più luminoso, ed Eugenia annunciò: «Buone notizie per te, Janus. Non abbiamo ancora captato nessuna emissione di radioonde sospette di probabile origine tecnologica». «Benissimo.» Pitt provò un sollievo enorme, una specie di ondata fisica di calore che lo pervase. «Niente salti di gioia, però» disse Eugenia. «Potrebbero usare meno radioonde del previsto. Potrebbero schermarle alla perfezione, o usare addirittura qualcos’altro al posto delle radioonde.» Pitt piegò le labbra in un sorrisetto. «Parli seriamente?» Eugenia si strinse nelle spalle, incerta. «Perché se sei una scommettitrice, non scommettere in questo caso.» …Ancor più vicini a Nemesis. Adesso Eritro era un grosso disco a occhio nudo, con Megas accanto, e Nemesis sull’altro lato della Colonia. Rotor aveva regolato la velocità per stare al passo con Eritro, che, attraverso il telescopio, mostrava masse irregolari di nubi in movimento, formazioni spiraliformi familiari caratteristiche di un pianeta con temperatura e atmosfera di tipo terrestre. Per cui, Eritro avrebbe dovuto possedere un clima almeno vagamente simile a quello terrestre. «Non c’è traccia di luce nel lato notturno di Eritro» disse Eugenia. «Dovresti essere contento, Janus.» «L’assenza di luce non è compatibile con l’esistenza di una civiltà tecnologica, suppongo…» «Certo che no.» «Lasciami fare l’avvocato del diavolo, allora» continuò Pitt. «Con un sole rosso e una luce fioca, un’eventuale civiltà non produrrebbe una luce artificiale altrettanto fioca?» «Fioca nella gamma visibile, forse… Ma Nemesis è ricca di infrarossi, e anche la luce artificale dovrebbe esserlo, a rigor di logica. Gli infrarossi che captiamo, però, sono di origine planetaria. Sono distribuiti in modo più o meno uniforme su tutta la superficie, mentre la luce artificiale dovrebbe presentare un andamento irregolare, dovrebbe toccare picchi di notevole intensità nei punti di maggiore concentrazione della popolazione, ed essere scarsa altrove.» «Allora, come non detto, Eugenia» fece Pitt, brioso. «Non c’è nessuna civiltà tecnologica. Forse così Eritro sarà meno interessante sotto certi aspetti, però fortunatamente non dovremo affrontare degli esseri al nostro livello, o forse superiori a noi, giusto? Altrimenti dovremmo andare altrove, e non abbiamo nessun altro posto dove andare, e se lo avessimo forse non avremmo energia sufficiente per raggiungerlo. Invece, stando così le cose, possiamo rimanere.» «C’è sempre l’atmosfera ricca di ossigeno, però… quindi, su Eritro c’è sicuramente qualche forma di vita. Manca solo una civiltà tecnologica. Per cui, dovremo scendere sul pianeta e studiare le sue forme di vita.» «Perché?» «Come puoi fare una domanda del genere, Janus? Se ci troviamo di fronte a nuove forme di vita, completamente indipendenti dalla vita che si è evoluta sulla Terra, per i nostri biologi sarà come trovare un filone d’oro di enorme valore!» «Capisco. Stai parlando di curiosità scientifica. Be’, le forme di vita non scapperanno, immagino. Si potranno studiare comodamente in seguito. La precedenza alle cose importanti.» «Che c’è di più importante dello studio di una forma di vita completamente nuova?» «Eugenia, ragiona. Dobbiamo stabilirci qui. Dobbiamo costruire altre Colonie. Dobbiamo creare una società ordinata, molto più omogenea e cosciente e pacifica di tutte le società del Sistema Solare.» «Per farlo avremo bisogno di materiali, il che ci riporta su Eritro… dove dovremo studiare le forme di vita…» «No, Eugenia. Atterrare su Eritro e poi decollare in presenza del suo campo gravitazionale sarebbe troppo dispendioso adesso. L’intensità dei campi gravitazionali di Eritro e di Megas… non dimenticare Megas… è abbastanza grande, anche qui nello spazio. Uno dei nostri uomini l’ha calcolata per me. Sarà già un problema rifornirci nella fascia degli asteroidi, ma sarà sempre più facile che scendere su Eritro. E se ci insedieremo nella fascia degli asteroidi, la situazione sarà ancor più vantaggiosa. Sarà nella fascia degli asteroidi che costruiremo le nostre Colonie.» «Vorresti ignorare Eritro?» «Per un po’, Eugenia. Quando saremo forti, quando disporremo di molta energia, di riserve energetiche molto più consistenti, quando la nostra società sarà stabile e avrà raggiunto un buon livello di sviluppo, allora avremo tutto il tempo che vorremo per studiare le forme di vita di Eritro o, forse, i suoi processi chimici insoliti.» Pitt rivolse un sorriso bonario e rassicurante a Eugenia. La questione secondaria di Eritro doveva essere rimandata il più a lungo possibile. Se su Eritro non esisteva nessuna civiltà tecnologica, le forme di vita e le risorse del pianeta, quali che fossero, potevano aspettare. Il vero nemico erano le orde inseguitrici del Sistema Solare. Perché gli altri non riuscivano proprio a capire quali fossero le cose indispensabili? Perché gli altri si lasciavano distrarre con tanta facilità perdendosi in cose superflue? Con che coraggio sarebbe morto, abbandonando quegli sciocchi a se stessi? 10 Persuasione XVIII Così adesso, dodici anni dopo avere scoperto che su Eritro non esistevano civiltà tecnologiche, un intervallo di tempo durante il quale nessuna Colonia terrestre era arrivata all’improvviso a rovinare il nuovo mondo in fase di costruzione, Pitt poteva apprezzare quei rari momenti di riposo. Eppure, anche in quei rari momenti, il dubbio si insinuava nella mente di Pitt. Chissà? Forse la situazione di Rotor sarebbe stata migliore se lui non avesse abbandonato la sua posizione iniziale… se non fossero rimasti in orbita attorno a Eritro, e se non avessero mai costruito la Cupola su Eritro… Pitt stava rilassandosi sulla poltroncina morbida, piacevolmente prigioniero dell’effetto elastico dei campi di contenzione, cullato da un’aura di pace quasi soporifera, quando sentì il lieve ronzio che, purtroppo, lo riportò alla realtà. Aprì gli occhi (non si era neppure accorto di averli chiusi), e guardò il minuscolo riquadro visivo sulla parete opposta. Toccò un contatto, ed apparve un’immagine olografica ingrandita. Era Semyon Akorat, naturalmente. Semyon Akorat, con la sua testa calva e oblunga. (Akorat si rasava la frangetta scura che gli rimaneva, rendendosi conto giustamente che pochi capelli radi avrebbero reso ancor più patetico il deserto al centro della sua testa, mentre un cranio ben fatto e armonioso, senza zone pilifere che ne interrompessero la continuità, avrebbe potuto avere un aspetto quasi imponente.) Semyon Akorat, con la sua testa calva, e con l’espressione preoccupata… sempre, anche quando non c’era motivo di preoccuparsi. Pitt lo trovava sgradevole, non perché Akorat mancasse di efficienza o lealtà (in quanto a efficienza e lealtà non si poteva pretendere di più da lui, era inappuntabile), ma semplicemente per un riflesso condizionato. Akorat annunciava sempre una violazione della privacy di Pitt, un’interruzione dei suoi pensieri, la necessità di fare qualcosa che Pitt avrebbe preferito evitare. In breve, Akorat si occupava degli appuntamenti di Janus Pitt e li selezionava. Pitt corrugò leggermente la fronte. Non ricordava di avere un appuntamento, del resto se ne dimenticava spesso, e Akorat era lì proprio per quel motivo. «Chi è?» chiese rassegnato. «Nessuna visita importante, spero.» «Assolutamente» confermò Akorat. «Ma forse farebbe meglio a riceverla.» «Può sentirci?» «Commissario» disse Akorat in tono di rimprovero, come se lo stessero accusando di negligenza. «Ovvio che non può sentirci, lei. È sull’altro lato dello schermo.» Parlava con estrema precisione, il che era confortante per Pitt. Era impossibile fraintendere le parole di Akorat. «Lei?» fece Pitt. «Immagino si tratti della dottoressa Insigna, allora. Be’, attieniti alle mie istruzioni. Non senza appuntamento. Ne ho avuto abbastanza di lei per un po’, Akorat. Sono dodici anni che ne ho abbastanza. Inventa una scusa. Dille che sto meditando… no, non ci crederà… dille…» «Commissario, non è la dottoressa Insigna. In tal caso non l’avrei disturbata. È… è sua figlia.» «Sua figlia?» Pitt si concentrò un attimo per ricordare il nome. «Cioè, Marlene Fisher?» «Sì. Naturalmente le ho spiegato che era occupato, e lei mi ha detto che dovrei vergognarmi di dire le bugie, perché, dalla mia espressione, si capiva chiaramente che era una bugia, e perché la mia voce era troppo tesa per essere sincera.» Mentre Akorat esponeva i fatti, il suo tono baritonale era colmo di indignazione. «Comunque, non vuole andarsene. Sostiene che lei la riceverà se saprà che sta aspettando. Vuole riceverla, Commissario? Francamente, i suoi occhi mi sconcertano.» «Già, mi pare di avere sentito parlare dei suoi occhi. Be’, falla entrare, falla entrare… cercherò di resistere al suo sguardo. Ora che ci penso, deve darmi qualche spiegazione.» Marlene entrò. (Molto sicura di sé, anche se contegnosa e senza alcuna aria di sfida, rifletté Pitt.) Si sedette, posando le mani sulle ginocchia, aspettando che fosse Pitt a parlare per primo. Pitt la lasciò aspettare un po’, osservandola distrattamente. Di tanto in tanto l’aveva incontrata quand’era più giovane, ma ormai era da un po’ di tempo che non la vedeva. Da bambina non era graziosa, e non era graziosa nemmeno adesso. Aveva zigomi larghi, ed era piuttosto sgraziata, però aveva effettivamente degli occhi notevoli, e sopracciglia dalla linea armoniosa, e lunghe ciglia… «Be’, Marlene Fisher» esordì Pitt. «Così, volevi vedermi. Posso sapere perché?» Marlene alzò lo sguardo, l’espressione calma, ostentando la massima di sinvoltura. «Commissario Pitt, immagino che mia madre le abbia riferito che ho detto a un amico che la Terra sarà distrutta.» Le ciglia di Pitt si aggrottarono sui suoi occhi piuttosto comuni. «Mi ha riferito, sì. E spero che ti abbia detto che non devi più parlare di certe cose in modo così sciocco.» «Sì, me l’ha detto, Commissario. Ma non basta non parlare di una cosa perché questa cosa non sia vera, e non basta definirla sciocca perché sia sciocca.» «Sono Commissario di Rotor, Marlene Fisher, ed è compito mio occuparmi di certe cose, quindi devi lasciarle a me, vere o false che siano, sciocche o non sciocche. Come ti è venuta in mente l’idea della distruzione della Terra? È qualcosa che ti ha detto tua madre?» «Non direttamente, Commissario.» «Indirettamente, però. È così?» «Non ha potuto evitarlo, Commissario. Tutti parlano in cento modi. C’è la scelta delle parole. C’è il tono, l’espressione, il movimento degli occhi e delle palpebre, il modo in cui una persona si schiarisce la voce. Cento particolari. Capisce a cosa mi riferisco?» «Perfettamente. Anch’io osservo quei particolari.» «Ed è molto orgoglioso, Commissario. Pensa di essere molto in gamba come osservatore, e che questa sia una delle ragioni per cui è Commissario.» Pitt parve sorpreso. «Non ho detto niente del genere, signorina.» «Non a parole, Commissario. Non è stato necessario.» Marlene lo stava fissando negli occhi. Non c’era traccia di sorriso sul suo volto, ma gli occhi della ragazza sembravano divertiti. «Be’, signorina, è questo che volevi dirmi?» «No, Commissario. Sono venuta perché mia madre ultimamente ha avuto difficoltà a farsi ricevere da lei. No, non me l’ha detto. L’ho capito da sola. E ho pensato che, forse, avrebbe potuto ricevere me, invece.» «D’accordo. Sei qui, adesso. Cosa hai da dirmi?» «Mia madre è infelice perché ha paura che la Terra possa essere distrutta. Vede, mio padre è là.» Pitt avvertì un lieve accesso di rabbia. Inconcepibile, permettere che una questione puramente personale interferisse con il benessere e il futuro di Rotor! Eugenia Insigna, rivelatasi utilissima all’inizio con la scoperta di Nemesis, era diventata da tempo un intralcio, un peso morto che gravava sulle spalle di Pitt. Sembrava che facesse apposta a imboccare sempre il sentiero sbagliato. E adesso che Pitt non voleva più vederla, ecco che gli mandava quella pazza di sua figlia. «E questa distruzione di cui parli, quando dovrebbe avvenire, secondo te? Domani, o l’anno prossimo?» chiese Pitt. «No, Commissario. Tra poco meno di cinquemila anni, lo so.» «In tal caso, tuo padre sarà morto da un pezzo, allora… e anche tua madre, anch’io, anche tu. E quando saremo tutti morti, rimarranno ancora quasi cinquemila anni prima della distruzione della Terra e forse di altri pianeti del Sistema Solare… sempre che la catastrofe avvenga… e non avverrà.» «È l’idea della distruzione, Commissario… in qualsiasi momento avvenga.» «Tua madre ti avrà detto che, molto tempo prima che arrivi il momento fatidico, gli abitanti del Sistema Solare si renderanno conto di… di quello che secondo te dovrebbe accadere… e sapranno affrontare la situazione. E poi, non possiamo lamentarci della distruzione planetaria. Tutti i mondi devono scomparire, un giorno o l’altro. Anche se non ci sono collisioni cosmiche, ogni stella a un certo stadio della sua evoluzione diventa una gigante rossa e distrugge i suoi pianeti. Proprio come tutti gli esseri umani sono destinati a morire, anche i pianeti sono destinati a morire. La vita di un pianeta è un po’ più lunga, nient’altro. Capisci, signorina?» «Sì» rispose seria Marlene. «Sono in ottimi rapporti col mio computer.» ("Non ne dubito" pensò Pitt… poi, troppo tardi, cercò di cancellare il sorrisetto sardonico che gli era comparso in faccia. Probabilmente le era servito per capire il suo atteggiamento.) «Allora la nostra conversazione è terminata» disse Pitt, perentorio. «Questa storia della distruzione della Terra è una sciocchezza, e anche se non lo fosse, non è cosa che ti riguardi, e non devi più parlarne, altrimenti saranno guai… non solo per te, anche per tua madre.» «La nostra conversazione non è ancora terminata, Commissario.» Pitt era sul punto di perdere la pazienza, ma replicò cercando di mantenere la calma: «Mia cara signorina, quando il tuo Commissario dice basta, è basta… indipendentemente da quel che pensi tu». Accennò ad alzarsi, ma Marlene rimase seduta. «Perché voglio offrirle qualcosa che lei accoglierebbe con enorme piacere.» «Cosa?» «La possibilità di liberarsi di mia madre.» Pitt si abbassò di nuovo sulla poltroncina, estremamente perplesso. «Cosa vorresti dire?» «Se mi ascolta, Commissario, glielo spiegherò. Mia madre non può vivere così. È preoccupata per la Terra e il Sistema Solare e… e pensa a mio padre, a volte. Pensa che Nemesis possa essere la nemesis del Sistema Solare, e dato che è stata lei a scegliere il nome, si sente responsabile. È una persona emotiva, Commissario.» «Sì? L’hai notato, vero?» «E mia madre la disturba, Commissario. Ogni tanto le parla delle cose che le stanno a cuore, e che a lei invece non interessano. Così si rifiuta di vederla, e vorrebbe che mia madre se ne andasse. Ebbene, può mandarla via, Commissario.» «Davvero? Abbiamo un’altra Colonia. Devo mandarla su Nuova Rotor?» «No, Commissario. Su Eritro.» «Eritro? Per quale motivo dovrei mandarla là? Solo perché voglio sbarazzarmi di lei?» «Il suo motivo sarebbe questo, Commissario. Non il mio, però. Io voglio che mia madre vada su Eritro perché all’Osservatorio non riesce a lavorare bene. Pare che gli strumenti non siano mai disponibili, e ha la sensazione di essere osservata continuamente… si rende conto che lei è seccato, Commissario. E poi, Rotor non è un posto adatto per compiere dei rilevamenti astronomici precisi. Gira troppo in fretta, e in modo troppo irregolare.» «Sai proprio tutto. Te lo ha spiegato tua madre? No, non rispondere, vediamo se indovino. Non te l’ha detto direttamente, vero? Solo indirettamente.» «Sì, Commissario. E c’è il mio computer…» «Quello con cui sei in ottimi rapporti?» «Sì, Commissario.» «Quindi, tu pensi che tua madre potrà lavorare meglio su Eritro.» «Sì, Commissario. Eritro sarà una base più stabile, e mia madre forse riuscirà a stabilire che il Sistema Solare sopravviverà. E anche se dai suoi calcoli dovesse risultare il contrario, un’analisi accurata richiederà parecchio tempo e, almeno per un po’, lei si sbarazzerà di mia madre.» «Vedo che anche tu vuoi sbarazzarti di lei, eh?» «Niente affatto, Commissario» rispose Marlene, senza scomporsi. «Io la seguirei. E lei, Commissario, si sbarazzerebbe anche di me, e sarebbe ancor più contento.» «Cosa ti fa pensare che io voglia sbarazzarmi anche di te?» Marlene lo fissò, cupa, impassibile. «A questo punto vuole sbarazzarsi di me, Commissario, perché adesso sa che sono in grado di capire quel che pensa e quel che prova senza alcuna difficoltà.» D’un tratto, Pitt si accorse che, in effetti, desiderava allontanare da sé quel mostro, moltissimo. «Lasciami riflettere un attimo» disse, e girò la testa. Era un gesto puerile, distogliere lo sguardo, se ne rendeva conto, però non voleva che quella orribile ragazzina gli leggesse in faccia quasi avesse di fronte un libro aperto. Dopo tutto, era vero. Adesso lui voleva sbarazzarsi sia della madre che della figlia. Per quanto riguardava la madre, Pitt aveva pensato più volte di esiliarla su Eritro. Ma, dato che lei sicuramente si sarebbe opposta, sarebbero sorti battibecchi e discussioni oltremodo sgradevoli, che Pitt preferiva evitare. Ora, però, aveva saputo dalla figlia che forse Eugenia Insigna sarebbe andata su Eritro volentieri, e il discorso cambiava, naturalmente. «Se tua madre vuole davvero…» iniziò circospetto. «Certo che vuole, Commissario. Non me ne ha parlato, e può darsi addirittura che non ci abbia ancora pensato, ma lo farà e vorrà andare su Eritro. Lo so. Si fidi di me.» «Ho qualche alternativa? E tu vuoi andare?» «Lo desidero moltissimo, Commissario.» «Allora darò subito le disposizioni necessarie. Sei soddisfatta?» «Sì, Commissario.» «Adesso possiamo considerare concluso il colloquio?» Marlene sì alzò e piegò la testa in un inchino sgraziato, che in teoria avrebbe dovuto rappresentare un gesto rispettoso. «Grazie, Commissario.» Si voltò e uscì, e solo dopo parecchi minuti Pitt osò rilassare i muscoli della faccia che aveva tenuto bloccati in modo doloroso perché il suo viso fosse una maschera impassibile. Aveva tremato al pensiero che Marlene Fisher potesse dedurre dalle sue parole, da qualche suo gesto o dalla sua espressione, il particolare importantissimo che solo lui e un’altra persona conoscevano riguardo Eritro. 11 Orbita XIX La parentesi di tranquillità di Pitt era finita, purtroppo. Ma, arbitrariamente, egli annullò gli appuntamenti pomeridiani. Voleva più tempo per pensare. Voleva pensare a Marlene, soprattutto. Sua madre, Eugenia Insigna Fisher, era un problema, un problema diventato sempre più fastidioso nel corso degli ultimi dodici anni. Era emotiva, e giungeva a conclusioni affrettate ignorando la voce della ragione. Però era un essere umano; era possibile guidarla, controllarla, confinarla tra le comode pareti della logica; e anche se a volte era inquieta e si agitava, si poteva tenerla a freno. Con Marlene, il discorso cambiava. Era un mostro. Pitt non aveva dubbi in proposito. Grazie al cielo era stata così sciocca da scoprirsi per aiutare sua madre in una circostanza di poco conto. Del resto, mancava di esperienza e di saggezza; non aveva pensato di tenere nascoste le sue doti in attesa di poterle usare in modo veramente devastante. Comunque, crescendo sarebbe diventata sempre più pericolosa, quindi bisognava impedirle subito di nuocere. E a bloccarla sarebbe stato l’altro mostro: Eritro. Pitt doveva congratularsi con se stesso. Aveva capito fin dall’inizio che Eritro era un mostro. Anche Eritro aveva un’espressione da interpretare… il riflesso della luce sanguigna della sua stella, un’espressione sinistra e minacciosa. Quando avevano raggiunto la fascia degli asteroidi, a centocinquanta milioni di chilometri dall’orbita di Megas e di Eritro attorno a Nemesis, Pitt aveva detto, sicuro di sé: «Ecco il posto!» Non si aspettava difficoltà. Era tutto talmente logico! Tra gli asteroidi, Nemesis proiettava poca luce e poco calore. La perdita di luce e di calore naturale non rappresentava nulla, dato che Rotor disponeva di un sistema di microfusione perfettamente funzionale. Anzi, quella perdita era positiva. La luce rossa di Nemesis era così attenuata da scomparire quasi, e in questo modo non opprimeva il cuore, non offuscava la mente, non raggelava l’animo. Inoltre, stabilendosi nella fascia degli asteroidi, si sarebbero trovati in una zona dove gli effetti gravitazionali di Nemesis e di Megas sarebbero stati deboli, e quindi avrebbero avuto meno problemi di manovrabilità e minori consumi energetici. Sarebbe stato più facile estrarre minerali dagli asteroidi e, considerata la luce fievole di Nemesis, su quei piccoli corpi celesti avrebbero dovuto trovare una quantità notevole di sostanze volatili. Ideale! Eppure la stragrande maggioranza degli abitanti di Rotor era stata chiara: voleva che Rotor si spostasse e orbitasse attorno a Eritro. Pitt si era fatto in quattro per spiegare che così sarebbero stati immersi in una luce rossa irritante e deprimente, che sarebbero stati bloccati dalla morsa gravitazionale di Megas e di Eritro, che forse avrebbero dovuto raggiungere comunque gli asteroidi per procurarsi le materie prime. Pitt ne aveva discusso rabbiosamente con Tambor Brossen, l’ex Commissario a cui era subentrato. Brossen, piuttosto stanco, apprezzava il suo nuovo ruolo di anziano statista, molto più di quanto non avesse apprezzato la carica di Commissario. (Era risaputo che aveva affermato di non provare un grande piacere nel prendere le decisioni, a differenza di Pitt.) Brossen aveva riso di fronte alla preoccupazione di Pitt circa la posizione di Rotor… non apertamente, certo, ma garbatamente, con gli occhi. «Non devi sentirti obbligato ad ammaestrare Rotor perché sia sempre d’accordo con te, Janus» aveva detto. «Lascia che i rotoriani facciano a modo loro di tanto in tanto… così le altre volte saranno ancor più pronti ad accettare le tue decisioni. Se vogliono orbitare attorno a Eritro, accontentali.» «Ma è assurdo, Tambor. Non capisci?» «Certo che capisco. Capisco anche che Rotor è sempre stato in orbita attorno a un mondo di dimensioni considerevoli. Ecco cosa sembra giusto ai rotoriani, ecco cosa vogliono ancora.» «Eravamo in orbita attorno alla Terra. Eritro è diversissimo dalla Terra.» «È un mondo, e ha grosso modo le stesse dimensioni della Terra. Ha terre emerse e mari. E un’atmosfera che contiene ossigeno. Potremmo viaggiare per migliaia di anni luce prima di trovare un mondo così simile alla Terra. Te lo ripeto. Lascia che la gente faccia a modo suo.» Pitt aveva seguito il consiglio di Brossen, anche se nel suo intimo una voce non aveva smesso un solo istante di dissentire. Anche Nuova Rotor era in orbita attorno a Eritro, e pure le altre due Colonie in via di costruzione. Naturalmente, si stavano progettando degli insediamenti nella fascia degli asteroidi, però al pubblico mancava chiaramente l’entusiasmo per realizzarli. Tra tutte le cose accadute dalla scoperta di Nemesis, la scelta dell’orbita attorno a Eritro rappresentava secondo Pitt l’errore più grande di Rotor. Non avrebbero dovuto commetterlo. Eppure… Pitt stesso avrebbe potuto imporre la propria volontà? Avrebbe potuto insistere? E in tal caso, avrebbe ottenuto qualcosa, o lo avrebbero semplicemente destituito dopo nuove elezioni? La nostalgia… ecco qual era il problema di base. La gente tendeva a guardare indietro, e a volte Pitt non riusciva a farle voltare la testa perché guardasse avanti. Brossen, per esempio… Era morto sette anni prima, e Pitt era stato al suo capezzale. Solo Pitt aveva colto le ultime parole del vecchio in punto di morte. Brossen lo aveva chiamato con un cenno, invitandolo a chinarsi, poi tendendo una mano incartapecorita aveva stretto debolmente Pitt. «Com’era luminoso il Sole della Terra» aveva mormorato. Ed era morto. Così, dato che non riuscivano a dimenticare la luminosità del Sole e il verde della Terra, i rotoriani avevano protestato esasperati contro la logica di Pitt, e avevano preteso che Rotor orbitasse attorno a un mondo che non era verde e a un sole che non era luminoso. E il ritmo di sviluppo aveva subito un arresto di dieci anni. Avrebbero guadagnato dieci anni se si fossero stabiliti subito nella fascia degli asteroidi. Pitt ne era convinto. Già di per sé, questo fatto bastava a condizionare negativamente l’atteggiamento di Pitt nei confronti di Eritro… ma Eritro aveva delle particolarità peggiori… molto peggiori. 12 Rabbia XX Combinazione, dopo avere fornito alla Terra il primo indizio circa la destinazione misteriosa di Rotor, Crile Fisher fornì anche il secondo. Era tornato sulla Terra da due anni, ormai, e Rotor era sempre più un luogo vago e lontano nella sua mente. Eugenia Insigna era un ricordo che suscitava più che altro perplessità (cosa aveva provato per lei?), ma il pensiero di Marlene continuava ad essere fonte di amarezza. Nel proprio intimo, Crile non riusciva a separarla da Roseanne. La figlia di un anno che ricordava e la sorella diciassettenne che pure gli tornava alla mente si fondevano in un’unica personalità. La vita non era dura. Crile Fisher aveva una pensione ragguardevole. Gli avevano perfino trovato un lavoro, una comoda occupazione amministrativa in cui ogni tanto doveva prendere decisioni prive di qualsiasi importanza. Lo avevano perdonato, almeno in parte, perché aveva ricordato quell’osservazione di Eugenia: "Se sapessi dove siamo diretti…". Eppure aveva l’impressione di essere sorvegliato, e la cosa lo irritava. Garand Wyler si faceva vivo di tanto in tanto, sempre cordiale, sempre curioso, sempre pronto a tirare in ballo Rotor in un modo o nell’altro. Era appena arrivato, adesso… e, come previsto da Crile, stava già parlando di Rotor. Crile Fisher corrugò la fronte. «Sono passati quasi due anni. Cosa volete da me, insomma?» Wyler scosse la testa. «Non saprei, Crile. Abbiamo solo quella frase di tua moglie. È evidente che non basta. Deve aver detto qualcos’altro negli anni che hai trascorso con lei. Pensa alle vostre conversazioni, a tutte le parole che vi siete scambiati. Non ti viene in mente nulla?» «È la quinta volta che me lo domandi, Garand. Mi hanno interrogato. Mi hanno ipnotizzato. Mi hanno sondato la mente. Mi hanno strizzato e spremuto, e non c’è nulla nella mia testa. Lasciatemi in pace e dedicatevi a qualcos’altro. O rimettetemi al lavoro. Ci sono cento Colonie là fuori, con amici che si confidano tra loro e nemici che si spiano a vicenda. Chissà cosa potrebbe sapere una di quelle persone… magari senza rendersene conto, eh?» «Se devo essere sincero, vecchio mio, ci siamo mossi in quella direzione, e ci siamo anche concentrati sulla Sonda Remota» disse Wyler. «È ovvio che Rotor deve avere scoperto qualcosa che il resto di noi ignora. Non abbiamo mai lanciato una Sonda Remota. E nemmeno nessun’altra Colonia l’ha lanciata. Solo Rotor è stato in grado di farlo. Quello che ha scoperto Rotor, qualunque cosa sia, dev’essere nei dati della Sonda Remota.» «Bene. Esaminate i dati. Ce ne saranno abbastanza da tenervi occupati per anni. In quanto a me, lasciatemi in pace. Tutti quanti.» «In effetti, ce ne sono abbastanza da tenerci occupati per anni» disse Wyler. «Rotor ha fornito una mole enorme di dati, secondo l’Accordo sulla Scienza Aperta. In particolare, abbiamo le loro fotografie stellari su qualsiasi lunghezza d’onda. Gli obiettivi della Sonda Remota sono riusciti a esplorare quasi ogni parte del cielo, e noi abbiamo studiato attentamente il materiale e non abbiamo trovato nulla di interessante.» «Nulla?» «Finora, nulla… ma, come hai detto tu, possiamo continuare a studiare quel materiale per anni. Naturalmente, abbiamo già moltissimi dati di cui gli astronomi sono entusiasti. Sono indaffarati e felici, gli astronomi… però non c’è nulla per noi, nemmeno una piccolissima traccia che ci aiuti a stabilire la destinazione di Rotor. Zero, finora. Per esempio, pare sia da escludere completamente l’esistenza di pianeti attorno alle due stelle del sistema di Alfa Centauri. E nel nostro settore non c’è nessuna stella sconosciuta di tipo G, come il Sole. Personalmente, non credo che scopriremo granché. La Sonda Remota avrà visto né più né meno quello che si vede dal Sistema Solare, no? Si è spinta solo a un paio di mesi luce, quindi non dovrebbe esserci nessuna differenza. Eppure alcuni di noi pensano che Rotor debba aver visto qualcosa, e presto, anche. Il che ci riporta a te.» «Perché a me?» «Perché la tua ex moglie era a capo del progetto Sonda Remota.» «Non proprio. È diventata Primo Astronomo dopo la raccolta dei dati.» «D’accordo, è diventata capo in seguito, e sicuramente ha svolto un ruolo importante in precedenza. Non ti ha mai parlato di quello che avevano scoperto grazie alla Sonda Remota?» «Mai. Aspetta… hai detto che gli obiettivi della Sonda Remota sono riusciti a esplorare quasi ogni parte del cielo?» «Sì.» «Che significa "quasi ogni parte"? Che percentuale?» «Non mi dicono tutto, non siamo così in confidenza… quindi non posso darti delle cifre precise. Almeno il novanta per cento, credo.» «O più?» «Forse.» «Mi chiedo…» «Cosa?» «Su Rotor, c’era un tipo di nome Pitt che comandava.» «Lo sappiamo.» «Ma io credo di sapere in che modo deve avere agito. Avrà divulgato i dati della Sonda Remota un po’ alla volta, rispettando l’Accordo sulla Scienza Aperta, ma appena appena. E al momento della partenza di Rotor sarà rimasta esclusa volutamente una parte dei dati, il dieci per cento o meno… la parte importante.» «Cioè, i dati che ci rivelerebbero la destinazione di Rotor…» «Può darsi.» «Solo che non li abbiamo.» «Certo che li avete.» «Come arrivi a una conclusione del genere?» «Poco fa hai detto che non ti aspetti di vedere niente di nuovo nelle foto della Sonda Remota, niente che non sia già stato osservato dal Sistema Solare. Allora perché state perdendo tempo con i dati forniti da Rotor? Individuate con precisione la parte di cielo che non vi hanno dato e studiatela sulle vostre carte astronomiche. Chiedetevi: "C’è qualcosa che potrebbe apparire in modo diverso su una mappa tracciata dalla Sonda Remota? Perché?" Ecco cosa farei io.» Crile Fisher alzò improvvisamente la voce, mettendosi a urlare. «Torna là! Digli di guardare la parte di cielo che non hanno!» «Tutto al contrario…» fece Wyler pensieroso. «No. È perfettamente chiaro e logico. Trova qualcuno che usi il cervello anche per pensare in Ufficio, e forse otterrete qualche risultato.» «Vedremo» disse Wyler. Tese la mano a Fisher. Fisher lo guardò torvo e non la strinse. Passarono dei mesi prima che Wyler si rifacesse vivo, e Fisher non lo accolse con gioia. Era una giornata tranquilla, dove il lavoro scarseggiava, e aveva perfino letto un libro. A differenza di certa gente, Fisher non pensava che i libri fossero un abominio del ventesimo secolo, che solo il visore fosse indice di civiltà. Per lui, c’era qualcosa di speciale nel tenere in mano un libro, nel voltare le pagine ad una ad una, nella possibilità di soffermarsi a meditare su quel che si era letto, o addirittura di appisolarsi senza trovare al risveglio un film cento pagine più avanti o uno schermo vuoto. Tra i due metodi di lettura, il libro era quello più civile, secondo Fisher. Per cui fu una seccatura notevole essere costretto a uscire da quel piacevole letargo. «Be’, adesso che c’è, Garand?» chiese brusco. Wyler continuò a sorridere garbatamente. «L’abbiamo trovata, proprio come avevi detto tu» disse a denti stretti. «Trovato, cosa?» chiese Fisher, non ricordando. Poi, intuendo di cosa dovesse trattarsi, si affrettò ad aggiungere: «No, non dirmi nulla, se è qualcosa di riservato. Non voglio più avere a che fare con l’Ufficio». «Troppo tardi, Crile. Sei desiderato. Tanayama in persona vuole vederti.» «Quando?» «Devo portarti da lui al più presto.» «In tal caso, spiegami cosa sta succedendo. Non voglio incontrarlo impreparato.» «Intendo appunto spiegarti. Abbiamo studiato ogni settore celeste che non compariva nei dati della Sonda Remota. A quanto pare, gli esperti hanno seguito il tuo consiglio, si sono chiesti cosa avrebbero potuto rilevare di diverso gli obiettivi della Sonda Remota. Risposta ovvia, uno spostamento delle stelle più vicine… e, partendo da questo presupposto, gli astronomi hanno scoperto una cosa sorprendente, imprevedibile.» «Be’?» «Hanno scoperto una stella molto fioca con una parallasse superiore a un secondo di arco.» «Io non sono un astronomo. È un fatto insolito?» «Significa che la distanza della stella è appena la metà della distanza di Alfa Centauri.» «Hai detto "molto fioca".» «È dietro una piccola nube di polvere, pare. Ascolta, tu non sei un astronomo, però tua moglie su Rotor era un’astronoma. Forse l’ha scoperta lei. Non ti ha mai detto nulla a proposito di questa stella?» Fisher scosse la testa. «Nemmeno una parola. Certo che…» «Sì?» «Negli ultimi mesi era eccitata… come se non stesse più nella pelle.» «Non hai chiesto perché?» «Ho pensato che dipendesse dalla partenza imminente di Rotor. Era smaniosa di partire, e questo mi faceva impazzire.» «Per via di tua figlia?» Fisher annuì. «Può darsi che l’eccitazione dipendesse anche dalla nuova stella. Tutto quadra. Ovviamente, Rotor si sarà diretto verso questa nuova stella… verso una stella scoperta da tua moglie, forse… verso la sua stella, quindi. Questo spiegherebbe in parte la sua smania di partire. È un ragionamento che fila, no?» «Forse. Non posso dire il contrario.» «Bene, allora. Tanayama vuole vederti per questo motivo. Ed è arrabbiato. Non con te, pare… però è arrabbiato.» XXI Più tardi, quello stesso giorno, dato che si trattava di una questione urgente, Crile Fisher si ritrovò nella sede del Dipartimento Informazioni Terrestre, noto ai suoi dipendenti semplicemente come l’Ufficio. Kattimoro Tanayama, che dirigeva l’Ufficio da oltre trent’anni, era ormai piuttosto anziano. Le sue olografie ufficiali (non ne circolavano molte) erano state registrate anni addietro, quando Tanayama aveva ancora i capelli lisci e neri, il corpo dritto, l’espressione energica. Ora aveva i capelli grigi, e il suo corpo (che non era mai stato alto) era leggermente curvo e aveva un aspetto fragile. Forse si stava avvicinando il momento di pensare seriamente alla pensione, ma i tipi come lui di solito erano decisi a morire sulla breccia, rifletté Fisher. I suoi occhi, tra le palpebre socchiuse, erano acuti e penetranti come sempre. Fisher stentava un po’ a capirlo. L’inglese, nei limiti del possibile, era una lingua universale sulla Terra, ma esistevano diversi tipi di inglese, e quello di Tanayama non era l’inglese nordamericano a cui Fisher era abituato. «Be’, Fisher, hai deluso le nostre aspettative su Rotor» disse gelido Tanayama. Inutile controbattere, soprattutto trattandosi di Tanayama, rifletté Fisher. «Sì, Direttore» disse con voce inespressiva. «Tuttavia, può darsi che tu abbia ugualmente delle informazioni per noi.» Fisher sospirò tra sé. «Sono stato interrogato ripetutamente.» «Sì, mi è stato riferito. Comunque, non ti hanno chiesto tutto, e io ho una domanda alla quale voglio che tu risponda.» «Sì, Direttore?» «Durante la tua permanenza su Rotor, hai avuto l’impressione che le autorità rotoriane odiassero la Terra?» Fisher inarcò le sopracciglia. «Odiare? Ho notato che gli abitanti di Rotor, come tutti i Coloni credo, guardavano la Terra con un’aria di superiorità, la disprezzavano, ritenendola decadente, brutale, violenta. Questo sì, era chiaro. Ma odiare? Francamente, penso che non ci considerassero abbastanza per odiarci.» «Parlo delle autorità, dei capi, non della massa.» «Anch’io, Direttore. No, niente odio.» «Eppure non si può spiegare in nessun altro modo.» «Spiegare, cosa, Direttore? Se è una domanda lecita?» Tanayama alzò lo sguardo di scatto e lo fissò (di fronte a una personalità così forte era raro accorgersi della sua statura esigua). «Sai che questa nuova stella sta avanzando nella nostra direzione? Proprio nella nostra direzione?» Sorpreso, Fisher si girò un attimo verso Wyler, ma questi sedeva in disparte, immerso nella penombra, lontano dal sole che filtrava dalla finestra, e apparentemente non stava guardando nulla. Tanayama, in piedi, disse: «Be’, siediti, Fisher, se questo può aiutarti a pensare. Mi siederò anch’io». E si accomodò sul bordo della scrivania, lasciando penzolare le gambe corte. «Eri al corrente del movimento della stella?» «No, Direttore. Non sapevo nemmeno che esistesse, quella stella, finché l’agente Wyler non mi ha informato.» «Davvero? Sicuramente, su Rotor sapevano.» «Se ne erano al corrente, nessuno mi ha detto nulla.» «Tua moglie era eccitata, felice, nell’ultimo periodo, prima che Rotor partisse. È quanto hai detto all’agente Wyler. Per quale motivo era eccitata?» «Forse perché aveva scoperto la stella, secondo l’agente Wyler.» «E forse sapeva del movimento della stella, e l’idea di quel che sarebbe successo a noi la riempiva di gioia.» «Non vedo perché quest’idea avrebbe dovuto riempirla di gioia, Direttore. E poi, non è detto che fosse al corrente del movimento della stella, o addirittura della sua esistenza. Che io sappia, su Rotor nessuno lo sapeva.» Tanayama lo guardò pensoso, strofinandosi leggermente un lato del mento, quasi avesse un lieve prurito. «Gli abitanti di Rotor erano tutti euro, vero?» chiese. Fisher spalancò gli occhi. Era da parecchio tempo che non sentiva quella volgarità… e non l’aveva mai sentita da un funzionario governativo. Ricordò il commento di Wyler poco dopo il suo rientro sulla Terra, quando Wyler riferendosi a Rotor aveva usato il termine «Biancaneve». Gli era parsa soltanto una battuta ironica bonaria, e non ci aveva più pensato. Disse risentito: «Non so, Direttore. Non li ho studiati tutti. Non so quali possano essere le loro origini». «Via, Fisher. Non è necessario studiarli. Giudica in base al loro aspetto. Durante la tua permanenza su Rotor, hai incontrato qualche faccia afro, o mongo, o indo? Una carnagione scura? Una piega epicantica?» Fisher esplose. «Direttore, il suo è un atteggiamento da ventesimo secolo.» (Se avesse conosciuto un’espressione più forte per esporre il concetto, l’avrebbe usata.) «Io non do alcun peso a queste cose, e tutti sulla Terra dovrebbero fare altrettanto. Mi sorprende che lei non lo faccia, e, se si sapesse, non penso che gioverebbe alla sua posizione.» «Lasciamo perdere le favole, agente Fisher» disse il Direttore, agitando un dito nodoso. «Io sto parlando della realtà. Lo so che sulla Terra ignoriamo le differenze tra noi, almeno esteriormente.» «Solo esteriormente?» «Solo esteriormente» ripeté Tanayama con voce asciutta. «Quando si trasferiscono sulle Colonie, i terrestri formano dei gruppi distinti basandosi proprio sulle loro diversità. Se ignorassero queste diversità, non lo farebbero, no? Su qualsiasi Colonia, sono tutti uguali… o se c’è qualche mescolanza, quelli in inferiorità numerica si sentono a disagio, o subiscono un trattamento discriminatorio, e si spostano su un’altra Colonia in maniera tale da non essere più numericamente inferiori. È così?» Fisher comprese di non poter negare questa affermazione. Sì, in effetti la situazione era quella, e lui, in qualche modo, l’aveva accettata senza trovare nulla da eccepire. «È la natura umana» disse. «I simili si uniscono ai propri simili. Così si crea un… un ambiente omogeneo.» «La natura umana, certo. I simili si uniscono ai propri simili, perché odiano e disprezzano i diversi.» «Ci sono anche Colonie mo… mongo.» Fisher pronunciò l’ultima parola balbettando, e si rese conto che avrebbe potuto offendere mortalmente il Direttore… Offendere Tanayama era facile, e pericoloso. Tanayama non batté ciglio. «Lo so benissimo. Ma sono gli euro quelli che hanno dominato più recentemente il pianeta, e non possono dimenticarlo, vero?» «Forse nemmeno gli altri possono dimenticarlo, e hanno più motivi di odiare.» «Ma è stato Rotor a partire, a fuggire dal Sistema Solare.» «Perché, guarda caso, sono stati loro a scoprire l’iperassistenza.» «E hanno raggiunto una stella vicina di cui solo loro conoscevano l’esistenza, una stella che sta dirigendosi verso il nostro Sistema Solare e che potrebbe passare abbastanza vicino da sconvolgerlo.» «Non è detto che lo sappiano, anzi forse non sanno nemmeno che questa stella esiste.» «Certo che lo sanno.» La voce di Tanayama era quasi un ringhio. «E sono partiti senza avvisarci.» «Direttore, con rispetto parlando… questo è illogico. Se la stella, avvicinandosi, sconvolgerà il Sistema Solare, anche il sistema della stella sarà sconvolto… quindi, perché dovrebbero stabilirsi là?» «Possono mettersi in salvo facilmente, anche se costruiranno altri insediamenti. Noi dovremo evacuare un mondo intero, con otto miliardi di individui… un’impresa molto più difficile.» «Quanto tempo abbiamo?» Tanayama si strinse nelle spalle. «Alcune migliaia di anni, dicono.» «È parecchio tempo. Forse gli è sembrato superfluo avvertirci. Quando la stella si fosse avvicinata, l’avremmo scoperta comunque.» «Perdendo tempo prezioso per l’evacuazione. Loro hanno scoperto la stella casualmente. Noi non l’avremmo scoperta per un pezzo se non fosse stato per quell’osservazione imprudente di tua moglie, e se tu non ci avessi suggerito di esaminare bene la parte di cielo che non compariva nei loro dati… un buon suggerimento. Rotor voleva che scoprissimo la stella il più tardi possibile.» «Ma, Direttore, perché avrebbero dovuto fare una cosa simile? Per un odio assoluto e immotivato?» «Non immotivato. Perché il Sistema Solare, con la sua percentuale massiccia di noneuro, potesse essere distrutto. Per permettere all’umanità di ricominciare da capo partendo da una base omogenea esclusivamente di euro. Eh? Che te ne pare?» Fisher scosse la testa frastornato. «Impossibile. Inconcepibile.» «Allora perché non ci hanno avvertiti?» «Può darsi che loro stessi non fossero al corrente della traiettoria della stella, no?» «Impossibile» fece Tanayama, con ironia. «Inconcepibile. Il loro gesto non ha che una spiegazione… vogliono vederci distrutti. Ma anche noi scopriremo il modo di viaggiare nell’iperspazio, raggiungeremo questa nuova stella e li troveremo. E regoleremo i conti.» 13 Cupola XXII Eugenia Insigna accolse le parole della figlia con una risata incerta e incredula. Non era facile decidere se dubitare dell’equilibrio mentale di una figlia o delle proprie facoltà uditive. «Cos’hai detto, Marlene? Come sarebbe… io andrò su Eritro?» «L’ho chiesto al Commissario Pitt, e lui ha detto che provvederà.» Eugenia rimase interdetta. «Ma… perché?» Tradendo una lieve irritazione, Marlene rispose: «Perché vuoi compiere dei rilevamenti astronomici di precisione, e Rotor non ti consente la precisione necessaria, mentre Eritro sarebbe il posto adatto. Ma mi rendo conto che in realtà la tua domanda era un’altra». «Appunto. Io volevo sapere… perché il Commissario Pitt dovrebbe aver detto che provvederà? Gliel’ho chiesto parecchie volte in passato, e ha sempre rifiutato. Non vuole che nessuno vada su Eritro… a parte qualche specialista.» «Gli ho semplicemente esposto la cosa in modo diverso, mamma.» Marlene esitò un attimo. «Gli ho detto che sapevo che era ansioso di liberarsi di te e che questa era l’occasione giusta.» Eugenia inspirò in modo così brusco che si sentì soffocare e fu costretta a tossire. «Come hai potuto dire una cosa del genere?» chiese poi, gli occhi che lacrimavano. «Perché è vero, mamma. Non l’avrei detto se non fosse vero. L’ho sentito parlare con te, e ti ho sentita parlare di lui, ed è talmente chiaro che anche tu te ne rendi conto, lo so. Pitt è seccato con te, e vorrebbe che tu la smettessi di importunarlo per… per qualsiasi motivo. Lo sai.» Eugenia serrò le labbra. «Sai, cara, d’ora in poi dovrò confidarmi con te. È imbarazzante farti scoprire certe cose in questo modo.» Marlene abbassò gli occhi. «Sì, mamma. Mi dispiace.» «Ma continuo a non capire. Non era necessario spiegargli che è seccato con me. Pitt lo sapeva benissimo, per forza. Allora, perché non mi ha mandata su Eritro quando gliel’ho chiesto?» «Perché detesta avere a che fare con Eritro, e, anche se era ansioso di liberarsi di te, la sua avversione per Eritro era sempre troppo forte, non riusciva a superarla perché tu non rappresentavi uno stimolo sufficiente. Solo che adesso non sarai solo tu a partire. Partiremo in due. Tu ed io.» Eugenia si sporse in avanti, posando le mani sul tavolo tra loro. «No, Molly… Marlene. Eritro non è un posto adatto a te. Non resterò là in eterno. Compirò quei rilevamenti e tornerò, e tu starai qui ad aspettarmi.» «Temo di no, mamma. È evidente che Pitt ti lascia andare solo perché è l’unico modo per liberarsi di me. Ecco perché ha accettato di mandarti su Eritro quando gli ho chiesto di partire insieme a te, mentre ha rifiutato quando tu gli hai chiesto di partire da sola. Capisci?» Eugenia corrugò la fronte. «No. Non capisco proprio. Tu che c’entri?» «Quando stavamo parlando, e io gli ho spiegato che sapevo che gli sarebbe piaciuto liberarsi di tutte e due, ha irrigidito la faccia… sai, per cancellare qualsiasi espressione. Sapeva che sono in grado di interpretare le espressioni e altre piccole manifestazioni del genere, e non voleva che intuissi quel che provava, immagino. Ma, vedi, ci si tradisce anche così, è un atteggiamento molto significativo per me. E poi, non si può reprimere tutto. Gli occhi si muovono, si agitano, senza che uno se ne renda conto, credo.» «Così, hai capito che voleva liberarsi anche di te.» «Peggio. Ha paura di me.» «Perché dovrebbe avere paura di te?» «Perché detesta che io sappia certe cose che invece vorrebbe nascondere, immagino.» Marlene sospirò. «Parecchia gente si arrabbia con me per lo stesso motivo.» Eugenia annuì. «Capisco. Di fronte a te la gente si sente nuda… nuda mentalmente… come se un vento gelido le attraversasse la mente.» Fissò la figlia. «A volte, anch’io ho questa sensazione. Guardando indietro nel tempo, penso che tu mi abbia turbata fin da quando eri piccola. Spesso ho ripetuto a me stessa che eri soltanto insolitamente intell…» «Credo di esserlo» si affrettò a precisare Marlene. «Sì, certo… ma chiaramente non si trattava solo di intelligenza, c’era qualcos’altro, anche se non capivo bene di cosa si trattava. Dimmi… ti dispiace parlarne?» «Con te, no, mamma» rispose Marlene, però c’era una sfumatura di circospezione nella sua voce. «D’accordo, allora. Quando eri più giovane e hai scoperto di possedere questa capacità, a differenza degli altri bambini e perfino degli adulti, perché non sei venuta a dirmelo?» «Una volta ho provato, se devo essere sincera. Ma tu eri insofferente. No, non hai detto nulla, però ho capito che eri occupata e non volevi essere infastidita con delle stupidaggini infantili.» Eugenia spalancò gli occhi. «Ho proprio detto che erano stupidaggini infantili?» «Non l’hai detto, ma la tua espressione e il modo in cui tenevi le mani parlavano chiaro.» «Avresti dovuto insistere, cercare comunque di dirmelo.» «Ero solo una bambina. E tu eri quasi sempre infelice… per il Commissario Pitt, e per papà.» «Lasciamo perdere questo. Non puoi dirmi nient’altro, adesso?» «Solo una cosa» rispose Marlene. «Quando il Commissario Pitt ha detto che potevamo partire, be’, l’ha detto in un certo modo, e io ho avuto l’impressione che avesse tralasciato qualcosa… che non avesse detto tutto.» «E cosa avrebbe tralasciato, Marlene?» «Ecco il problema, mamma. Non sono capace di leggere il pensiero, quindi non lo so. Posso solo giudicare in base a certi segni esteriori, per cui a volte le cose rimangono vaghe, confuse. Però…» «Sì?» «Ho la sensazione che il Commissario Pitt abbia taciuto qualcosa di molto spiacevole… o addirittura qualcosa di malvagio.» XXIII Naturalmente, trascorse parecchio tempo prima che Eugenia fosse pronta a trasferirsi su Eritro. Su Rotor c’erano delle questioni che non si potevano lasciare in sospeso. Eugenia dovette sistemare le cose nella sezione astronomica, dare disposizioni ad altri, assegnare a un sostituto provvisorio la carica di Primo Astronomo, e consultarsi con Pitt, che, stranamente, non era molto loquace per quanto riguardava l’argomento partenza. Eugenia lo affrontò quando si presentò a rapporto da lui per l’ultima volta. «Domani vado su Eritro» disse. «Come, scusa?» Pitt alzò lo sguardo dalla relazione finale che lei gli aveva consegnato, e che aveva fissato fino a un attimo prima… senza leggerla, però, Eugenia ne era convinta. (Stava imparando qualche trucco di Marlene in modo incontrollato? No, non doveva illudersi subito di riuscire a vedere sotto la superficie.) «Domani vado su Eritro» ripeté con pazienza Eugenia. «Ah, è domani? Be’, tornerai prima o poi, quindi questo non è un addio. Abbi cura di te. Considerala una vacanza.» «Intendo studiare il moto di Nemesis nello spazio.» «Ah, intendi studiare il moto di Nemesis? Be’…» Pitt fece un gesto con entrambe le mani, quasi stesse accantonando un particolare privo di importanza. «Come vuoi. Un cambiamento di ambiente è una vacanza anche se si continua a lavorare.» «Voglio ringraziarti, dal momento che hai acconsentito, Janus.» «Me l’ha chiesto tua figlia. Lo sapevi?» «Sì. Me l’ha detto quello stesso giorno. Le ho detto che non aveva il diritto di disturbarti. Sei stato molto paziente con lei.» Pitt sbuffò. «È una ragazza davvero insolita. Per me non è stato un problema accontentarla. La cosa è solo temporanea. Finisci i tuoi calcoli e ritorna.» "È la seconda volta che parla del mio ritorno" rifletté Eugenia. "Se Marlene fosse qui, cosa dedurrebbe da questo fatto? Qualcosa di malvagio, come dice lei? Ma cosa?" «Torneremo» disse, calma. «Con la notizia che Nemesis, tra cinquemila anni, sarà inoffensiva, mi auguro.» «Questo lo stabiliranno i fatti» rispose ruvidamente Eugenia. XXIV Strano, pensò Eugenia. Era a oltre due anni luce dal punto dello spazio in cui era nata, eppure era salita su un’astronave appena due volte, e per viaggi brevissimi… da Rotor alla Terra e viceversa. I viaggi spaziali continuavano a non attirarla granché. Era Marlene la forza propulsiva alla base del trasferimento su Eritro. Era stata lei, di propria iniziativa, a incontrare Pitt e a convincerlo a cedere alla sua strana forma di ricatto. Era lei ad essere veramente eccitata, in preda a quella smania bizzarra di visitare Eritro. Eugenia non capiva una simile ossessione, e la considerava un altro aspetto della complessità mentale ed emotiva della figlia. Eppure, ogni volta che Eugenia tremava al pensiero di lasciare Rotor, piccolo, comodo e sicuro, per un mondo smisurato e deserto come Eritro, così strano e minaccioso, e distante seicentocinquantamila chilometri (quasi il doppio della distanza che aveva separato Rotor dalla Terra), era l’eccitazione di Marlene a infonderle coraggio. La nave che le avrebbe condotte su Eritro non era bella né aggraziata. Era pratica. Faceva parte della piccola flotta di razzi che fungevano da traghetti, che si svincolavano dalla massiccia attrazione gravitazionale di Eritro, o che scendevano sul pianeta attenti a non cedere minimamente a tale attrazione, affrontando in ogni caso un’atmosfera non addomesticata, ventosa, imprevedibile, densa. Non sarebbe stato un viaggio piacevole, secondo Eugenia. Perlopiù, si sarebbero trovate in assenza di peso, e due giorni interi di imponderabilità sarebbero stati senza dubbio noiosi. La voce di Marlene interruppe le sue riflessioni. «Andiamo, mamma, ci stanno aspettando. Il bagaglio è sistemato… e anche tutto il resto.» Eugenia Insigna avanzò. Mentre attraversava il compartimento stagno, il suo ultimo pensiero inquieto, prevedibilmente, fu: "Ma perché Janus Pitt ha accettato di lasciarci andare così di buon grado?". XXV Siever Genarr governava un mondo grande quanto la Terra. O, volendo essere più precisi, governava direttamente una cupola che copriva circa tre chilometri quadri e stava espandendosi lentamente. Sul resto del mondo, quasi cinquecento milioni di chilometri quadri di terre emerse e di mare, non c’era traccia di esseri umani, né di altre forme di vita che non fossero di dimensioni microscopiche. Quindi, se a governare un mondo erano le forme di vita pluricellulari che lo occupavano, le centinaia di persone che vivevano e lavoravano nella zona coperta dalla cupola erano i signori di Eritro, e Siever Genarr era il loro capo. Genarr non era un uomo imponente, erano piuttosto i suoi lineamenti forti che gli conferivano un aspetto imponente. Per questo motivo, da giovane Genarr dimostrava più dei suoi anni… però ora che aveva quasi raggiunto i cinquanta la situazione si era riequilibrata. Aveva un naso lungo, un po’ di borse sotto gli occhi, i capelli che cominciavano a tingersi di grigio. La sua voce però era melodiosa e sonora, dal tono baritonale. (Genarr una volta aveva pensato di calcare le scene professionalmente, ma, dato il suo aspetto, era destinato a ruoli occasionali come caratterista, e le sue capacità amministrative avevano avuto la precedenza.) Era per quelle capacità, in parte, che si trovava da dieci anni nella Cupola di Eritro, a osservare la sua progressiva crescita. L’incerta struttura iniziale di tre stanze si era trasformata nell’ampia stazione mineraria e di ricerca attuale. La Cupola aveva degli svantaggi. Poche persone rimanevano a lungo. C’erano dei turni, dal momento che quasi tutti quelli che venivano si consideravano in esilio e provavano il desiderio, più o meno costante, di tornare su Rotor. E la maggior parte di loro trovava la luce rosata di Nemesis minacciosa o malinconica, anche se la luce all’interno della Cupola era vivida e familiare come quella di Rotor. La Cupola presentava anche dei vantaggi. Genarr era lontano dalla baraonda della politica rotoriana, che sembrava sempre più chiusa, involuta e senza senso. E soprattutto, era lontano da Janus Pitt, di cui in generale (e inutilmente) non condivideva le opinioni. Pitt si era opposto con accanimento alla creazione di qualsiasi insediamento su Eritro, fin dall’inizio… non voleva nemmeno che Rotor orbitasse attorno a Eritro. Su questo punto, almeno, era stato sconfitto dalla forza schiacciante dell’opinione pubblica, ma aveva fatto in modo che la Cupola ricevesse pochissimi fondi e che il suo sviluppo procedesse lentamente. Se, grazie a Genarr, la Cupola non fosse diventata una fonte idrica preziosa per Rotor (molto più economica degli asteroidi), Pitt avrebbe potuto annientarla. In genere, però, ignorando il più possibile l’esistenza della Cupola per principio, Pitt tentava raramente di intromettersi nelle procedure amministrative di Genarr… il che a Genarr andava benissimo. Dunque, Genarr era rimasto sorpreso quando Pitt si era scomodato a informarlo personalmente dell’arrivo di un paio di persone, invece di lasciare che l’informazione figurasse tra le normali comunicazioni di servizio. Pitt aveva anzi discusso dell’argomento in modo dettagliato, parlando svelto e secco, col suo solito atteggiamento arbitrario che non ammetteva discussioni né commenti, e la conversazione era stata anche schermata. Fatto ancor più sorprendente, una delle persone in arrivo era Eugenia Insigna. Un tempo, diversi anni prima della Partenza, Genarr ed Eugenia erano stati amici, in seguito, dopo i giorni felici dell’università (Genarr li ricordava con nostalgia come un periodo molto romantico), Eugenia era andata sulla Terra per la specializzazione ed era tornata su Rotor con un terrestre. Genarr non l’aveva più vista, tranne un paio di volte, da lontano, dopo che lei aveva sposato Crile Fisher. E quando lei e Fisher si erano separati, appena prima della Partenza, Genarr era stato impegnato col lavoro, ed Eugenia pure… e a nessuno dei due era venuto in mente di riallacciare i vecchi legami. Forse Genarr ci aveva pensato di tanto in tanto, ma non voleva sembrare importuno, dato il dolore evidente di Eugenia rimasta sola con una bambina da allevare. Poi Genarr era stato inviato su Eritro, e addio possibilità di riprendere i contatti con Eugenia. Anche se aveva dei periodi di ferie su Rotor, non si sentiva più a proprio agio in quel luogo. Qualche vecchia amicizia rotoriana gli era rimasta, ma erano rapporti piuttosto tiepidi ormai. È adesso stava arrivando Eugenia con la figlia. Genarr non ricordava il nome della ragazza… forse non aveva mai saputo quale fosse. Sicuramente, non l’aveva mai vista. La ragazza avrebbe dovuto avere quindici anni… chissà se cominciava a mostrare la stessa avvenenza giovanile di Eugenia? si chiese Genarr, provando uno strano turbamento interiore. Guardò dalla finestra dell’ufficio, con un’aria quasi furtiva. Si era talmente abituato alla Cupola da non vederla più con occhio critico. Ospitava lavoratori di ambo i sessi… adulti, nessun bambino… turnisti assunti per qualche settimana o per qualche mese, che a volte tornavano per un altro turno, e a volte non tornavano. Tranne Genarr e altre quattro persone, che, per un motivo o per l’altro, avevano imparato a preferire la Cupola, non c’erano membri permanenti del personale. Non c’era nessuno che fosse orgoglioso della Cupola come semplice dimora. Era pulita e ordinata, necessariamente, però aveva un’aria artificiale. C’era una prevalenza eccessiva di archi e di linee, di piani e di cerchi. Alla Cupola mancava l’irregolarità, il caos della vita permanente che permetteva a una stanza o perfino a una scrivania di adattarsi agli anfratti e alle oscillazioni di una personalità particolare. C’era Genarr, naturalmente. La sua scrivania e la sua stanza riflettevano i contorni e le caratteristiche della sua personalità. Forse, anche per questo si sentiva a proprio agio lì. Il suo animo era in sintonia con la geometria spoglia ed essenziale della Cupola. Ma cosa avrebbe pensato Eugenia della Cupola? (Genarr era contento che avesse ripreso il nome da nubile.) La donna che lui ricordava amava l’irregolarità, i fronzoli superflui e appariscenti, malgrado fosse un’astronoma. O era cambiata? La gente cambiava mai, essenzialmente? L’abbandono di Fisher l’aveva inasprita, l’aveva alterata…? Erano riflessioni inutili, pensò Genarr, grattandosi i capelli grigi sulla tempia. Tra poco avrebbe visto Eugenia, perché aveva ordinato che la accompagnassero da lui non appena fosse arrivata. O doveva andare ad accoglierla personalmente? No! Aveva già esaminato il problema una decina di volte. Non poteva mostrarsi troppo ansioso; sarebbe stato un comportamento sconveniente per la dignità della sua posizione. Ma… no, non era questo il motivo, non lo era affatto, pensò Genarr un attimo dopo. Non voleva che Eugenia si sentisse a disagio, che vedesse in lui lo stesso ammiratore imbarazzato e maldestro che si era ritirato mogio mogio di fronte alla cupa prestanza del terrestre. Eugenia non lo aveva più guardato dopo avere incontrato Crile Fisher… non lo aveva più guardato seriamente. Genarr ripensò alle parole del messaggio di Janus Pitt… aride, concise, come tutte le sue comunicazioni, e capace di trasmettere una sensazione indefinibile di autorità, come se la possibilità di dissentire fosse non solo qualcosa di inaudito… ma addirittura di impensabile. E a un tratto Genarr notò che Pitt aveva dato maggior rilievo alla figlia di Eugenia che non a Eugenia stessa. La ragazza aveva manifestato un vivo interesse per Eritro, affermava Pitt, e se desiderava esplorare la superficie del pianeta Genarr doveva permetterle di farlo. Come mai? XXVI Eccola. Erano trascorsi quattordici anni dalla Partenza… venti dalla giovinezza di Eugenia, dal giorno in cui erano andati nell’Area Agricola C salendo ai livelli a bassa gravità, e lei aveva riso quando Genarr aveva tentato una capriola lenta e aveva calcolato male la spinta, atterrando poi sulla pancia. (In effetti, avrebbe potuto farsi male facilmente, perché anche se la sensazione di peso diminuiva, la massa e l’inerzia non facevano altrettanto, e le conseguenze avrebbero potuto essere dolorose. Per fortuna, Genarr non aveva patito quella umiliazione.) Sì, Eugenia era invecchiata. Però non si era appesantita molto, e i suoi capelli, più corti e lisci, adesso, avevano un’aria più pratica, e lo stesso colore intenso, castano scuro. E quando avanzò verso di lui sorridendo, Genarr sentì che il suo cuore traditore accelerava leggermente i battiti. Lei gli tese le mani, e Genarr le strinse. «Siever!» esordì Eugenia. «Ti ho tradito, e mi vergogno tantissimo.» «Mi hai tradito, Eugenia? Di che stai parlando?» Di cosa stava parlando? Non del suo matrimonio con Crile, sicuramente. «Avrei dovuto pensare a te ogni giorno. Avrei dovuto mandarti dei messaggi, tenerti informato, insistere per venire a farti visita» spiegò lei. «Invece, non hai mai pensato a me!» «Oh, non sono così spregevole. Di tanto in tanto, ho pensato a te. Non ti ho mai dimenticato del tutto, credimi. Solo che i miei pensieri alla fine non mi hanno mai spinta a fare qualcosa.» Genarr annuì. Che poteva dire? «So che sei stata occupata. E io ero qui… lontano dagli occhi… lontano dal cuore, quindi.» «No, non lontano dal cuore. Praticamente, non sei cambiato, Siever.» «È il vantaggio di sembrare già vecchi e rugosi a vent’anni. Dopo, non si cambia più, Eugenia. Il tempo passa, e si diventa un po’ più vecchi e rugosi, ma sono differenze che non si notano quasi.» «Via, come al solito sei crudele con te stesso, perché le donne dal cuore tenero accorrano in tua difesa. In questo non sei cambiato affatto.» «Dov’è tua figlia, Eugenia? Non doveva venire con te?» «È venuta, puoi starne certo. Non so perché, considera Eritro una specie di paradiso. È nel nostro alloggio a sistemare le cose e a disfare i bagagli. Già, è proprio quel tipo di ragazza, lei. Seria. Responsabile. Pratica. Obbediente. Possiede tutte le virtù più sgradevoli, per usare la definizione che ho sentito una volta da qualcuno.» Genarr scoppiò a ridere. «Mi sento perfettamente a mio agio con queste virtù. Se sapessi che sforzi ho fatto un tempo per coltivare almeno un vizio affascinante. Ho sempre fallito.» «Oh, be’, invecchiando, è meglio possedere più virtù sgradevoli e meno vizi affascinanti, credo. Ma come mai ti sei ritirato per sempre su Eritro, Siever? D’accordo, la Cupola ha bisogno di qualcuno che diriga le cose, ma sicuramente non sei l’unico su Rotor in grado di svolgere questo compito.» «Se devo essere sincero, mi piace pensare di essere l’unica persona all’altezza. Comunque, in un certo senso, mi trovo bene qui, e, a volte, vado anche su Rotor per una breve vacanza.» «E non vieni mai a trovarmi?» «Be’, non è detto che le nostre ferie coincidano, no? Ho l’impressione che tu sia molto più occupata di me, soprattutto dopo la scoperta di Nemesis. Ma sono deluso. Volevo conoscere tua figlia.» «La conoscerai. Si chiama Marlene. Io la chiamo Molly, in cuor mio, ma lei non vuole. A quindici anni è già intransigente, e pretende di essere chiamata Marlene. Ma la conoscerai, non temere. Sai, non volevo che ci fosse anche lei la prima volta. Non potremmo abbandonarci liberamente ai ricordi se fosse presente, no?» «Vuoi rievocare il passato, Eugenia?» «Alcune cose.» Genarr esitò. «Mi dispiace che Crile non sia partito con Rotor.» Il sorriso di Eugenia divenne forzato. «Alcune cose, Siever.» Voltandosi, Eugenia si avvicinò alla finestra e guardò fuori. «Niente male questo posto, tra parentesi. Quel poco che ho visto mi ha colpito. Luci scintillanti. Vere strade. Grandi edifici. Eppure su Rotor non si parla quasi mai della Cupola. Quante persone vivono e lavorano qui?» «Dipende. Ci sono periodi di grande attività e periodi in cui le cose vanno un po’ a rilento. Siamo arrivati ad ospitare quasi novecento persone. Adesso, ce ne sono cinquecentosedici. Le conosciamo tutte. Non è facile. Ogni giorno, qualcuno arriva e qualcuno parte.» «Tranne te.» «E pochi altri.» «Ma… perché la Cupola, Siever? In fin dei conti, l’atmosfera di Eritro è respirabile.» Genarr sporse il labbro inferiore e, per la prima volta, evitò di guardarla negli occhi. «Respirabile, ma non proprio ideale. Il livello luminoso è sbagliato. Quando esci dalla Cupola, sei immerso in una luce rosata, che tende all’arancione quando Nemesis è alta nel cielo. C’è abbastanza luce. Puoi leggere. Però, non sembra naturale. E poi, Nemesis stessa ha un che di innaturale. Sembra troppo grande, e la maggior parte della gente pensa che abbia un aspetto minaccioso, che la sua luce rossastra la faccia sembrare ostile… e si deprime. In effetti, Nemesis è anche pericolosa, almeno in un certo senso. Dato che non ha una luminosità accecante, si tende a guardarla e a cercare le macchie solari. Gli infrarossi possono ledere facilmente la retina. Quelli che devono uscire all’aperto portano un casco speciale per questo motivo… tra l’altro.» «Quindi, la Cupola, per così dire, serve più a trattenere all’interno la luce normale che a escludere qualcosa.» «Non impediamo nemmeno all’aria di entrare. L’aria e l’acqua della Cupola provengono da Eritro. Naturalmente, stiamo attenti a tenere fuori qualcosa» disse Genarr. «I procarioti. Sai, le piccole cellule verdazzurre.» Eugenia annuì pensierosa. Avevano scoperto che la presenza di ossigeno nell’aria era dovuta appunto ai procarioti. C’era vita su Eritro, diffusa ovunque, ma di natura microscopica, equivalente solo alle forme di vita cellulare più semplici del Sistema Solare. «Sono proprio procarioti?» chiese. «Lo so che li chiamano così, ma si chiamano così anche i nostri batteri. Sono batteri?» «Se equivalgono a qualcosa presente nel Sistema Solare, equivalgono ai cianobatteri, quelli della fotosintesi. La tua è una domanda giusta, comunque. No, non sono i nostri cianobatteri. Possiedono le nucleoproteine, ma con una struttura fondamentalmente diversa da quella prevalente nelle nostre forme di vita. Hanno anche una specie di clorofilla priva di magnesio e attiva nella gamma infrarossa, per cui le cellule tendono ad essere incolori. Hanno enzimi diversi, percentuali diverse di oligoelementi. Ma esteriormente assomigliano abbastanza alle cellule terrestri, abbastanza da essere chiamati procarioti. Pare che i biologi stiano insistendo perché si usi invece il termine «eritrioti», ma per i non addetti ai lavori come noi «procarioti» va benissimo.» «E sono abbastanza efficienti nella loro attività da spiegare la presenza di ossigeno nell’atmosfera di Eritro?» «Certo. La presenza dell’ossigeno si spiega solo così. A proposito, Eugenia, sei tu l’astronoma, quali sono le ultime novità a proposito dell’età probabile di Nemesis?» Eugenia si strinse nelle spalle. «Le nane rosse sono quasi immortali. Nemesis può essere vecchia come l’universo e continuare ugualmente a esistere per altri cento miliardi di anni senza cambiamenti visibili. Al massimo, noi possiamo giudica re in base al contenuto di elementi minori che compongono la sua struttura. Se è una stella di prima generazione e i suoi componenti iniziali erano idrogeno ed elio, dovrebbe avere poco più di dieci miliardi di anni… circa il doppio dell’età del Sole.» «Dunque, anche Eritro ha dieci miliardi di anni.» «Certo. Un sistema stellare si forma tutto contemporaneamente, non un po’ alla volta. Perché me lo chiedi?» «Be’, mi sembra strano che in dieci miliardi di anni la vita non abbia superato lo stadio procariotico.» «Non ci trovo nulla di strano, Siever. Sulla Terra, dopo la sua comparsa, la vita è rimasta allo stadio procariotico per un periodo compreso tra i due e i tre miliardi di anni, e qui su Eritro la concentrazione di energia solare è molto minore rispetto alla Terra. Occorre energia perché si sviluppino forme di vita più complesse. Su Rotor si è discusso a fondo di questo argomento.» «Non ne dubito» disse Genarr. «Ma a quanto pare, qui nella Cupola, siamo un po’ tagliati fuori. Ci concentriamo troppo sui problemi e sulle attività locali, immagino… anche se, in teoria, qualsiasi cosa collegata ai procarioti dovrebbe interessarci… se non sono un fenomeno locale i procarioti, non so…» «Se è per questo, su Rotor non è che si senta parlare molto della Cupola» ammise Eugenia. «Già, si tende a isolarsi in compartimenti stagni. Del resto, la Cupola non ha nulla di speciale, nulla di affascinante, Eugenia. È solo un laboratorio, quindi non mi sorprende che non faccia notizia su Rotor. L’attenzione del pubblico è rivolta interamente alle nuove Colonie in costruzione. Ti trasferirai là, Eugenia?» «Mai. Sono rotoriana, e intendo rimanere tale. Non sarei nemmeno qui, scusa se lo dico, se non fosse indispensabile per motivi di lavoro. Devo compiere una serie di rilevamenti astronomici da una base più stabile di Rotor.» «Lo so. Mi ha informato Pitt. Devo offrirti tutta la mia collaborazione.» «Bene. Sono certa che lo farai. A proposito, prima hai detto che la Cupola cerca di tenere fuori i procarioti. Ci riuscite? L’acqua si può bere tranquillamente? E sicura?» «Certo, dal momento che la beviamo» rispose Genarr. «Non ci sono procarioti nella Cupola. L’acqua che entra, come qualsiasi altra cosa, viene trattata con dei raggi bluvioletti che distruggono i procarioti in pochi secondi. I fotoni a onde corte della luce hanno un’intensità energetica troppo forte per i procarioti, e disgregano dei componenti chiave delle cellule. E anche se qualche procariota entrasse, non ci risulta che siano velenosi o nocivi. Abbiamo fatto dei test sugli animali.» «È un sollievo saperlo.» «La stessa regola vale anche in senso inverso. I nostri microorganismi non possono competere con i procarioti di Eritro in condizioni ambientali locali. Almeno, quando vengono seminati nel suolo di Eritro, i nostri batteri non riescono a crescere e a riprodursi.» «E le piante pluricellulari?» «Abbiamo provato, ma il risultato è stato pessimo. Deve dipendere dal tipo di luce di Nemesis, perché all’interno della Cupola, con l’acqua e il terreno di Eritro, le piante crescono perfettamente. Naturalmente, riferiamo tutte queste cose a Rotor, ma dubito che queste informazioni abbiano un’ampia diffusione. Come ho detto, a Rotor non interessa la Cupola. Sicuramente, non interessiamo al terribile Pitt, e su Rotor è lui che conta, no?» Genarr lo disse sorridendo, ma il suo sorriso sembrava forzato. (Marlene come avrebbe interpretato quel particolare? si chiese Eugenia.) «Pitt non è terribile» fece. «A volte è fastidioso, noioso, ma questo è un altro discorso. Sai, Siever, quando eravamo giovani ho sempre pensato che un giorno tu avresti potuto diventare Commissario. Eri così acuto, così brillante…» «Ero?» «Lo sei ancora, ne sono sicura. Ma allora avevi un orientamento politico preciso, avevi certe idee. Sai, io ti ascoltavo, incantata. Per certi versi, saresti stato un Commissario migliore di Janus Pitt. Tu avresti ascoltato la gente. Non avresti cercato di imporre così spesso le tue opinioni.» «E proprio per questo sarei stato un pessimo Commissario. Vedi, io non ho nessun obiettivo particolare nella vita. Desidero solo fare quello che mi sembra giusto al momento, sperando che porti poi a qualcosa di decente. Pitt invece sa quel che vuole e intende ottenerlo con qualsiasi mezzo.» «Lo stai giudicando male, Siever. È volitivo, ha delle idee radicate a fondo, però è un uomo molto ragionevole.» «Certo, Eugenia. Ecco la sua grande dote… la ragionevolezza. Qualunque fine persegua, Pitt ha sempre una ragione perfettamente valida, perfettamente logica, perfettamente umana, a cui appoggiarsi. Può inventarne una in qualsiasi momento, ed è così sincero che riesce a convincere perfino se stesso. Sicuramente, se hai avuto a che fare con lui, ti sarai lasciata convincere a fare qualcosa che all’inizio non volevi fare, e scommetto che Pitt ti avrà persuasa non con degli ordini e delle minacce, ma con ragionamenti pazienti e razionali.» «Be’…» fece debolmente Eugenia. Al che, Genarr osservò sardonico: «Vedo che anche tu sei una vittima della ragionevolezza di Pitt. Quindi hai constatato di persona che è un bravo Commissario, no? Non una brava persona, ma un bravo Commissario». «Dire che non è una brava persona forse è esagerato, Siever» fece Eugenia, scuotendo leggermente la testa. «Be’, non stiamo a discutere. Voglio conoscere tua figlia.» Genarr si alzò. «Che ne diresti se venissi a trovarvi nel vostro alloggio dopo pranzo?» «Sarebbe bellissimo» rispose Eugenia. Genarr la seguì con lo sguardo mentre usciva, e il suo sorriso si spense a poco a poco. Eugenia voleva rievocare il passato, e lui aveva subito accennato a suo marito… ed Eugenia si era bloccata. Genarr sospirò dentro di sé. Come sempre, era imbattibile quando si trattava di sprecare un’occasione favorevole. XXVII «Il suo nome è Siever Genarr, e bisogna rivolgersi a lui chiamandolo «Comandante», perché è il capo della Cupola di Eritro» spiegò Eugenia alla figlia. «Certo, mamma. Se quello è il suo titolo, lo chiamerò così.» «E non voglio che tu lo metta in imbarazzo…» «Non lo farei mai.» «Oh, lo faresti, eccome, Marlene. Lo sai. Accetta quello che dice senza correggerlo, non dar retta ai linguaggio corporeo. Ti prego! Era un mio caro amico ai tempi dell’università… e in seguito, per un certo periodo. E anche se è qui nella Cupola da dieci anni e io non l’ho più visto, è ancora un vecchio amico.» «Deve essere stato una specie di fidanzato, credo.» «Ascoltami bene, Marlene. Non devi osservarlo e non devi dirgli quel che pensa o quel che prova in realtà. Chiaro? E se ci tieni proprio a saperlo, non era il mio fidanzato, e non eravamo certamente amanti. Eravamo amici, c’era una simpatia reciproca tra noi… da amici. Ma dopo che tuo padre…» Eugenia scosse la testa e fece un gesto vago. «E attenta a quello che dici a proposito del Commissario Pitt… se dovessimo toccare l’argomento. Ho la sensazione che il Comandante Genarr diffidi del Commissario Pitt…» Marlene concesse uno dei suoi rari sorrisi alla madre. «Hai studiato il comportamento subliminale del Comandante Siever? Perché la tua non è una semplice sensazione.» Eugenia scosse la testa. «Vedi? Non riesci a smettere nemmeno un istante. Benissimo, non è una sensazione. Il Comandante in pratica ha detto che non si fida del Commissario. E, sai… può darsi che abbia dei motivi validi per…» aggiunse, quasi tra sé. Poi si rivolse a Marlene e disse all’improvviso: «Te lo ripeto, Marlene. Sei libera di osservare il Comandante e di scoprire tutto quel che puoi scoprire, ma a lui non dire nulla. Dillo a me! Capito?» «Pensi che ci sia pericolo, mamma?» «Non lo so.» «Io lo so» fece Marlene sbrigativa. «Non appena il Commissario Pitt ha detto che potevamo venire su Eritro, ho capito che c’era qualche pericolo nascosto. Solo, non so quale sia questo pericolo.» XXVIII Vedere Marlene per la prima volta fu uno shock per Siever Genarr, non solo… Genarr rimase ancor più scosso quando notò che la ragazza lo guardava con un’espressione arcigna e cupa, come se sapesse perfettamente che per lui era stato un incontro scioccante e conoscesse il motivo di tale shock. Il fatto era che Marlene non sembrava assolutamente la figlia di Eugenia, non possedeva neppure l’ombra della bellezza o della grazia o del fascino della madre. Aveva soltanto quei due grandi occhi luminosi che ora lo stavano fissando penetranti, occhi diversi da quelli di Eugenia. Erano l’unico particolare in cui fosse superiore alla madre, il resto invece… A poco a poco, però, Genarr modificò l’impressione iniziale. Prese il tè con loro, e Marlene si comportò benissimo. Era una ragazza a modo, e molto intelligente. Cosa aveva detto Eugenia? Che possedeva tutte le virtù più sgradevoli? Be’, aveva esagerato un po’. Genarr aveva la sensazione che Marlene avesse un desiderio intensissimo di amore, come capitava a volte alle persone… non belle. Come capitava anche a lui. Di colpo, fu pervaso da un senso di simpatia, di solidarietà. Dopo un po’, chiese: «Eugenia, potrei parlare con Marlene da solo?». Eugenia si sforzò di mostrarsi disinvolta. «Qualche motivo particolare, Siever?» «Be’, è stata Marlene a parlare al Commissario Pitt, a convincerlo a lasciarvi venire su Eritro. Come Comandante della Cupola, dipendo moltissimo dal Commissario Pitt, da quel che fa e da quel che dice, e se Marlene potesse riferirmi qualcosa del loro colloquio, lo apprezzerei, mi sarebbe utile. Credo che parlerà più liberamente se saremo soli.» Genarr attese che Eugenia fosse uscita, quindi si rivolse a Marlene, che ora occupava una grande poltrona morbida in un angolo della stanza. La ragazza teneva le mani intrecciate sulle ginocchia, e i suoi splendidi occhi scuri fissarono il Comandante estremamente seri. Con una sfumatura divertita nella voce, Genarr osservò: «Tua madre sembrava un po’ agitata all’idea di lasciarti qui con me. Sei agitata anche tu?». «Per niente» rispose Marlene. «E in ogni caso, mia madre era agitata per lei, Commissario, non per me.» «Oh, per me? Perché?» «Ha paura che io possa dirle qualcosa di offensivo.» «E tu lo faresti, Marlene?» «Non intenzionalmente, Commissario. Cercherò di non offenderla.» «Ci riuscirai, ne sono certo. Lo sai perché ho voluto vederti da sola?» «Ha detto a mia madre che voleva sapere qualcosa del mio colloquio con il Commissario Pitt. È vero, però lei vuole anche vedere che tipo sono.» Genarr corrugò leggermente la fronte. «Be’, certo… mi piacerebbe conoscerti meglio.» «Non è questo» replicò subito Marlene. «Di che si tratta, allora?» Marlene distolse lo sguardo. «Mi spiace, Comandante.» «Ti dispiace, perché?» Marlene fece una smorfia di disappunto, e rimase in silenzio. «Su, Marlene, che c’è che non va?» chiese Genarr sottovoce. «Devi dirmelo. È importante che parliamo con franchezza. Se tua madre ti ha detto di stare attenta a quel che dici, dimenticalo, per favore. Se mi ha presentato come una persona sensibile che si offende facilmente, dimentica anche questo, per favore… Anzi, ti ordino di parlare liberamente, non avere paura di offendermi… e devi obbedire al mio ordine, perché sono il Comandante della Cupola di Eritro.» Tutt’a un tratto, Marlene rise. «È proprio ansioso di conoscermi meglio, vero?» «Certo.» «Perché è sorpreso, stenta a credere che io sia figlia di mia madre, con l’aspetto che mi ritrovo.» Genarr spalancò gli occhi. «Mai detto niente del genere.» «Non era necessario. È un vecchio amico di mia madre. Me l’ha detto lei stessa. Ma era innamorato di lei, e non ha ancora superato del tutto la cosa, e si aspettava che io assomigliassi a mia madre, alla Eugenia di tanti anni fa… così, quando mi ha vista, ha avuto un sussulto, è rimasto di sasso.» «Davvero? È stato tanto evidente?» «È stato un gesto piccolissimo, perché lei è una persona educata e ha cercato di controllarsi, ma io me ne sono accorta, facilmente. E dopo ha lanciato un’occhiata a mia madre, poi ha guardato di nuovo me. E le prime parole che mi ha rivolto, be’, avevano un tono particolare. Stava pensando che non assomigliavo affatto a mia madre, ed era deluso.» Genarr si appoggiò allo schienale. «Ma è meraviglioso, questo!» E una grande contentezza illuminò il viso di Marlene. «È sincero, Comandante. Parla sul serio. Non si è offeso. Non è a disagio. Le fa piacere. È il primo, il primo. Nemmeno a mia madre piace, questa cosa.» «Che piaccia o no, non ha importanza. Bisognerebbe mettere da parte certe considerazioni personali irrilevanti quando ci si imbatte in qualcosa di straordinario. Da quanto tempo sei capace di leggere il linguaggio corporeo in questo modo, Marlene?» «Da sempre, ma adesso riesco a leggerlo meglio. Secondo me, può farlo chiunque… basta osservare, e riflettere.» «No, Marlene. Non crederlo. È impossibile… Così, dici che sono innamorato di tua madre.» «Senza dubbio, Comandante. Quando è accanto a lei, sì tradisce a ogni sguardo, a ogni parola, al minimo gesto.» «Credi che se ne accorga?» «Lo sospetta… ma non vuole che lei l’ami.» Genarr distolse lo sguardo. «Non ha mai voluto.» «È per via di mio padre.» «Lo so.» Marlene esitò. «Ma penso che mia madre si sbagli. Se potesse vederla come la vedo io adesso, Comandante…» «Ma non può, purtroppo. Però, sono davvero contento che tu ci riesca. Sei bella.» Marlene arrossì. «E sincero!» «Certo che sono sincero.» «Ma…» «Con te non posso mentire, no? Quindi non ci proverò nemmeno. La tua faccia non è bella. Il tuo corpo non è bello. Però tu sei bella, ed è questo che conta. E tu sai che lo penso davvero.» «Sì, lo so.» Marlene sorrise, ed era talmente felice che per un attimo perfino sul suo volto apparve un vago accenno di bellezza. Anche Genarr sorrise. «Parliamo del Commissario Pitt, adesso? Ora che so che sei una signorina incredibilmente perspicace, per me è ancora più importante parlarne. Ti va?» Marlene serrò leggermente le mani, sorridendo timida. «Sì, zio Siever. Posso chiamarti così, non ti spiace, vero?» «Assolutamente. Anzi, mi sento onorato. Bene… raccontami un po’ del Commissario Pitt. Ho ricevuto sue istruzioni, vuole che offra tutta la collaborazione possibile a tua madre, e che metta a sua disposizione tutte le nostre apparecchiature astronomiche. Perché, secondo te?» «Mia madre vuole analizzare con precisione il moto stellare di Nemesis, e Rotor è un posto troppo instabile per i rilevamenti. Eritro andrà molto meglio.» «E questo suo progetto è recente?» «No, zio Siever. È da parecchio tempo che cerca di ottenere i dati necessari. Me lo ha detto lei.» «Allora perché non ha chiesto di venire qui tempo fa?» «L’ha fatto, ma il Commissario Pitt non le ha permesso di venire.» «E perché glielo ha permesso, adesso?» «Perché voleva liberarsi di lei.» «Già, certo… se continuava a seccarlo coi suoi problemi astronomici. Ma doveva essere stanco di lei da un pezzo. Perché l’ha mandata su Eritro soltanto adesso?» «Voleva liberarsi di me» rispose Marlene a bassa voce. 14 A caccia XXIX Erano trascorsi cinque anni dalla Partenza. Crile Fisher stentava a crederci, gli sembrava che fosse passato molto più tempo, un’infinità di tempo. Rotor non apparteneva al passato, ma a un’altra esistenza completamente diversa, a cui lui riusciva a pensare solo con incredulità crescente. Aveva vissuto davvero in quel luogo? Aveva avuto una moglie? Ricordava soltanto la figlia, bene… e anche quel ricordo conteneva elementi confusi, perché a volte gli sembrava di ricordarla come un’adolescente. Naturalmente, il problema era aggravato dal fatto che la sua vita negli ultimi tre anni, da quando la Terra aveva scoperto la Stella Vicina, era stata frenetica. Crile Fisher aveva visitato sette Colonie. Erano tutte abitate da Coloni del suo stesso colore di pelle, che parlavano più o meno la sua lingua e possedevano più o meno il suo retaggio culturale. (Ecco il vantaggio della varietà terrestre. La Terra era in grado di fornire agenti simili, in quanto ad aspetto esteriore e cultura, alla popolazione predominante di qualsiasi Colonia.) Naturalmente, le sue capacità di inserimento in una Colonia non erano illimitate. Per quanto in superficie somigliasse ai suoi abitanti, Crile conservava sempre un accento caratteristico, non riusciva a muoversi con la grazia di un colono quando la gravità cambiava, non era in grado di galleggiare leggero come loro in condizioni di bassa gravità. Su ogni Colonia che visitava, si tradiva in vari modi, e loro si ritraevano sempre un po’ da lui, lo emarginavano, anche se si era sottoposto alla quarantena e alle terapie mediche prima di ricevere il visto di ingresso. Naturalmente, Crile rimaneva su ogni Colonia solo alcuni giorni, o qualche settimana al massimo. Non doveva stabilirsi a lungo o crearsi una famiglia come aveva fatto su Rotor. Ma allora Rotor aveva l’iperassistenza, e, dopo la partenza di Rotor, la Terra aveva cercato informazioni di minor importanza, o almeno a Crile erano stati assegnati incarichi meno importanti. Era rientrato da tre mesi. Non c’era nessun nuovo incarico in vista, e lui non era ansioso di iniziare un’altra missione. Era stanco di quegli sballottamenti continui, di non avere un minimo di stabilità, delle radici… stanco di fingersi un turista. Adesso era con Garand Wyler, il suo vecchio amico e collega, che era appena tornato da una Colonia e lo stava fissando con occhi stanchi. La pelle scura della sua mano luccicò alla luce quando sollevò la manica un attimo accostandola al naso. Fisher abbozzò un sorriso. Conosceva quel gesto, anche lui lo aveva fatto. Ogni Colonia aveva un odore caratteristico, a seconda dei prodotti agricoli che coltivava, delle spezie che usava, dei profumi che prediligeva, dei macchinari e dei lubrificanti utilizzati. Ci si abituava presto, ma tornando sulla Terra l’odore della Colonia rimaneva addosso, in modo percettibile. E anche se si faceva il bagno e si lavavano gli indumenti perché gli altri non notassero nulla, addosso a sé si sentiva ancora quell’odore. «Bentornato» esordì Fisher. «Com’era la tua Colonia questa volta?» «Come sempre… terribile. Il vecchio Tanayama ha ragione. La cosa che tutte le Colonie temono e odiano maggiormente è la varietà. Non vogliono nessuna diversità in fatto di aspetto fisico, gusti, abitudini, tipo di vita… Si scelgono in maniera tale da creare un complesso uniforme, e disprezzano tutto il resto.» «È vero. Che peccato…» «Mi sembra un commento piuttosto cinico e superficiale, il tuo» obiettò Wyler. «"Che peccato… Oops, mi è caduto il piatto. Che peccato… Oh, questo aggeggio non funziona. Che peccato." Stiamo parlando dell’umanità, Crile. Stiamo parlando dei lunghi sforzi che la Terra ha compiuto per trovare il modo di far convivere tutte le culture, tutte le razze. Non è ancora perfetto, ma se pensi alla situazione esistente un secolo fa, be’, siamo in paradiso adesso. Poi, invece, quando abbiamo la possibilità di andare nello spazio, ecco che gettiamo tutto al vento e torniamo ai secoli bui del passato. E tu dici: "Che peccato." Bella reazione, di fronte a una tragedia enorme!» «D’accordo» replicò Fisher. «Ma a meno che tu non sappia indicarmi qualcosa di concreto che io possa fare per risolvere il problema, che importanza ha la superficialità del mio commento? Sei stato su Akruma, vero?» «Sì.» «Sanno della Stella Vicina?» «Certo. Ormai la notizia si è sparsa su tutte le Colonie, a quanto mi risulta.» «Erano preoccupati?» «Assolutamente. Perché dovrebbero preoccuparsi? Hanno migliaia di anni. Possono andarsene tranquillamente, prima che la stella si avvicini troppo… se ci sarà una situazione di pericolo, cosa di cui non siamo affatto sicuri. Possono andarsene tutti. Ammirano Rotor, e aspettano solo l’occasione giusta per partire anche loro.» Wyler era accigliato, il suo tono era amaro. «Partiranno tutti, e noi rimarremo qui, bloccati» proseguì. «Come faremo a costruire Colonie sufficienti per otto miliardi di esseri umani?» «Sembri Tanayama. Non servirà a nulla dargli la caccia e punirli, o distruggerli. Saremo ancora qui, bloccati. Se tutti restassero qui, buoni e obbedienti, ad affrontare la Stella Vicina con noi, la nostra situazione migliorerebbe?» «Vedo che non te la prendi, Crile. Tanayama è furioso, invece, e io sono con lui. È abbastanza furioso da mettere a soqquadro la Galassia, se necessario, per trovare l’iperassistenza. La vuole… così potremo dare la caccia a Rotor e cancellarlo dalla faccia dell’universo… e anche se questo non servirà a nulla, avremo bisogno dell’iperassistenza per allontanare dalla Terra il maggior numero possibile di esseri umani, se scopriremo che il passaggio della Stella Vicina avrà conseguenze catastrofiche. Quindi, quello che sta facendo Tanayama è giusto, anche se i suoi motivi sono sbagliati.» «Supponi che abbiamo l’iperassistenza e che ci accorgiamo di disporre solo del tempo e dei mezzi necessari per mettere in salvo un miliardo di persone. Quale sarà questo miliardo di persone che partirà? E cosa succederà se i capi, i responsabili, cominceranno a salvare solo quelli come loro?» «Mi rifiuto di pensarci» borbottò Wyler. «Già» annuì Fisher. «Per fortuna saremo morti e sepolti, prima che cominci a muoversi qualcosa.» Wyler abbassò di colpo la voce. «Se è per questo, forse si sta già muovendo qualcosa. Ho il sospetto che abbiamo l’iperassistenza, adesso… o che l’abbiamo quasi.» L’espressione di Fisher era notevolmente cinica. «Cosa te lo fa pensare? Sogni? Intuito?» «No. Conosco una donna, e sua sorella conosce un collaboratore del Vecchio. Ti basta?» «Certo che no. Dovrai essere più esplicito.» «Non posso. Senti, Crile, sono un amico, no? Ti ho aiutato a rientrare nell’Ufficio con la posizione di prima, lo sai.» Crile annuì. «Lo so e lo apprezzo. E ho cercato di ricambiare il favore di tanto in tanto.» «Sì, e lo apprezzo. Bene, ora voglio darti delle informazioni riservate, che dovrebbero essere utili e importanti per te, credo. Sei disposto ad ascoltarle e a dimenticare che sono stato io a dirti queste cose?» «Dispostissimo.» «Sai cosa abbiamo fatto negli ultimi tempi, naturalmente…» «Sì» si limitò a rispondere Fisher, trattandosi di una domanda retorica del tutto inutile. Da cinque anni gli agenti dell’Ufficio (negli ultimi tre anni anche Fisher) frugavano tra i "rifiuti informativi" delle Colonie. Erano a caccia di scarti. Ogni Colonia stava lavorando all’iperassistenza, proprio come la Terra, da quando era trapelato che Rotor disponeva di quella tecnica, sicuramente da quando Rotor aveva dato una dimostrazione pratica lasciando il Sistema Solare. Presumibilmente la maggior parte delle Colonie, forse tutte, aveva ottenuto qualche risultato, ricostruendo in parte la realizzazione di Rotor. Secondo l’Accordo sulla Scienza Aperta, tutti avrebbero dovuto divulgare quei risultati frammentari, e unendoli forse si sarebbe arrivati all’iperassistenza. Ma, chiaramente, era chiedere troppo, in questo caso. La nuova tecnica avrebbe potuto consentire chissà quali applicazioni utili, e nessuna Colonia poteva rinunciare alla speranza di essere la prima in quel campo, di guadagnare così un vantaggio importante sulle altre in qualche modo. Quindi, ognuno teneva per sé quel che aveva (se l’aveva), e nessuno aveva in mano abbastanza. E la Terra, col suo complesso e articolato Dipartimento Informazioni Terrestre, s’insinuava in tutte le Colonie, annusando. La Terra era a caccia di informazioni, e Fisher era uno dei cacciatori. «Abbiamo messo assieme quel che abbiamo, e pare che sìa sufficiente» disse lentamente Wyler. «I viaggi spaziali iperassistiti sono alla nostra portata. E penso che raggiungeremo la Stella Vicina. Non ti interesserebbe partecipare al viaggio, quando si farà?» «Perché dovrebbe interessarmi, Garand? Ammesso che si faccia quel viaggio… io ne dubito.» «Sono certo che si farà. Non posso rivelarti la mia fonte d’informazione, ma fidati, è attendibile. Ed è naturale che tu voglia partecipare al viaggio. Potresti rivedere tua moglie. O, se non tua moglie… tua figlia.» Fisher si agitò. Gli sembrava di trascorrere gran parte del suo tempo cercando di non pensare a quegli occhi. Marlene… una bambina di sei anni, ormai… che probabilmente parlava calma e ponderata… come Roseanne. Che leggeva nell’animo della gente, come Roseanne. «Stai dicendo delle sciocchezze, Garand. Anche se si facesse questo viaggio, perché dovrebbero lasciarmi partecipare? Manderanno degli specialisti, degli esperti. E poi, se c’è una persona che il Vecchio non lascerà mai partire, quella persona sono io. D’accordo, mi ha ripreso nell’Ufficio e mi ha assegnato degli incarichi, però sai perfettamente che atteggiamento ha nei confronti di chi fallisce. E per lui, io su Rotor ho fallito, l’ho deluso.» «Già, ma è proprio questo il punto. Ecco perché puoi considerarti uno specialista. Se ha intenzione di dare la caccia a Rotor, il Vecchio non può lasciare a casa l’unico terrestre che sia stato su Rotor per quattro anni! Tu capisci i rotoriani meglio di chiunque altro, sapresti affrontarli nel modo migliore. Chiedi di vedere il Vecchio. Faglielo notare, però ricorda, tu non sai che abbiamo l’iperassistenza, intesi? Limitati al campo delle ipotesi. E non coinvolgermi in nessun modo. Io sono all’oscuro di tutto, come te.» Fisher aggrottò le ciglia, pensieroso. Possibile? Non osava sperarlo. XXX Il giorno dopo, mentre stava ancora domandandosi se fosse il caso di rischiare e chiedere un colloquio con Tanayama, Fisher perse la possibilità di decidere. Fu convocato. Era raro che un semplice agente fosse convocato dal Direttore. Degli agenti si occupavano i numerosi assistenti del capo, di solito. E quando un agente veniva convocato dal Vecchio, erano cattive notizie in vista, quasi sempre. Così, Crile Fisher si preparò rassegnato a un incarico di ispettore delle fabbriche di fertilizzanti. Tanayama alzò lo sguardo e lo fissò da dietro la scrivania. Fisher lo aveva visto di rado e solo per pochi attimi nei tre anni successivi alla scoperta della Stella Vicina, e Tanayama non sembrava cambiato. Era piccolo e avvizzito da tanto tempo che evidentemente non c’era più spazio per ulteriori cambiamenti fisici. Anche l’acutezza penetrante dei suoi occhi era sempre la stessa, e pure la piega decisa e arcigna delle sue labbra. Forse indossava addirittura gli stessi indumenti di tre anni prima. Fisher non era in grado di dirlo. Ma, malgrado anche la voce fosse aspra come al solito, il tono era sorprendente. A quanto pareva, si era verificato un fatto quasi impossibile: il Vecchio lo aveva chiamato per lodarlo. Nel suo strano Inglese Planetario, non del tutto sgradevole, Tanayama esordì: «Fisher, ti sei comportato bene. Ci tengo a dirtelo personalmente». Fisher, in piedi (non era stato invitato a sedersi), riuscì a reprimere il suo lieve sussulto di sorpresa. «Non ci saranno festeggiamenti pubblici» continuò il Direttore «né parate con raggi laser, né sfilate olovisive. Tutto questo non è possibile. Comunque, ho voluto dirtelo.» «È più che sufficiente, Direttore. Grazie.» Tanayama lo fissò in silenzio per alcuni istanti. «E non hai nient’altro da aggiungere? Nessuna domanda?» «Immagino che mi dirà quello che devo sapere, Direttore.» «Sei un agente, un uomo abile. Cos’hai scoperto da solo?» «Nulla, Direttore. Io cerco di scoprire solo quello che mi ordinano di scoprire.» Tanayama annuì, muovendo leggermente la testa minuscola. «Una risposta appropriata, però io non voglio questo tipo di risposta. Sei arrivato a qualche conclusione, hai qualche ipotesi?» «Sembra soddisfatto di me, Direttore, quindi può darsi che io abbia raccolto qualche informazione che si è rivelata utile.» «Utile, come?» «Per mettere a punto definitivamente la tecnica dell’iperassistenza. Sì, secondo me questa sarebbe la cosa più utile per lei.» Le labbra di Tanayama si schiusero in un’esclamazione silenziosa. «E poi? Supponiamo che sia così… Quale dovrà essere la nostra mossa successiva?» «Raggiungere la Stella Vicina. Localizzare Rotor.» «Nient’altro? Tutto qui? Non ti viene in mente altro?» A questo punto, Fisher decise che sarebbe stato sciocco non rischiare. Era un’occasione imperdibile. «Sì, c’è un’altra cosa… Quando la prima nave terrestre lascerà il Sistema Solare sfruttando l’iperassistenza, io dovrò essere a bordo.» Non appena ebbe finito di parlare, Fisher si rese conto di avere perso… o almeno di non avere vinto. Tanayama si incupì. «Siediti!» ordinò, perentorio. Fisher sentì dietro di sé il movimento lieve della sedia che si avvicinava alle parole di Tanayama, parole che il suo motore computerizzato primitivo era in grado di capire. Si sedette, senza guardarsi alle spalle per assicurarsi che la sedia fosse nel punto giusto. Sarebbe stato un gesto offensivo, e non era il momento di offendere Tanayama. «Perché vuoi essere a bordo della nave?» chiese Tanayama. Fisher controllò la propria voce con uno sforzo. «Direttore, ho una moglie su Rotor.» «Una moglie che hai abbandonato cinque anni fa. Pensi che ti accoglierebbe volentieri?» «Direttore, ho una figlia.» «Aveva un anno quando te ne sei andato. Credi che sappia di avere un padre? O che le importi?» Fisher rimase in silenzio. Anche lui aveva ragionato su quelle cose, ripetutamente. Tanayama attese qualche istante prima di proseguire. «Ma non ci sarà nessun viaggio verso la Stella Vicina, nessuna nave su cui imbarcarsi.» Fisher dovette reprimere di nuovo un moto di sorpresa. «Mi perdoni, Direttore. Lei non ha detto che abbiamo l’iperassistenza. Ha detto: "Supponiamo che sia così…" Avrei dovuto fare attenzione alle sue parole.» «Già, avresti dovuto. Dovresti sempre fare attenzione alle mie parole… Comunque, abbiamo davvero l’iperassistenza. Adesso possiamo viaggiare nello spazio proprio come ha fatto Rotor… o almeno, potremo viaggiare nello spazio quando avremo costruito un veicolo adatto e saremo sicuri della perfetta efficienza di tutte le sue parti… cosa che forse richiederà un paio d’anni di lavoro. Ma poi? Dovremmo metterci in viaggio per quella stella? Sei proprio convinto?» «Sicuramente, è una scelta possibile, Direttore» rispose cauto Fisher. «E inutile. Rifletti. La Stella Vicina è a oltre due anni luce. Per quanto possiamo sfruttare al meglio l’iperassistenza, impiegheremo più di due anni per arrivare là. Stando ai nostri teorici, anche se l’iperassistenza consente a una nave di superare la velocità della luce per brevi periodi, e maggiore è la velocità minore è la durata di questi periodi, il risultato finale non cambia: la nave non può raggiungere nessun punto dello spazio più velocemente di un raggio di luce partito dallo stesso punto di origine.» «Ma allora…» «Allora saresti costretto a rimanere a bordo di un’astronave in un ambiente angusto con parecchie altre persone per oltre due anni. Pensi di poter resistere? Sai benissimo che una nave di dimensioni ridotte non ha mai affrontato un viaggio lungo. A noi serve una Colonia, una struttura abbastanza grande che offra condizioni ambientali decenti… come Rotor. Quanto tempo ci vorrà per costruirla?» «Non saprei, Direttore.» «Dieci anni, forse, se tutto procederà nel migliore dei modi… se non ci saranno intoppi o incidenti. Ricorda… è quasi un secolo che non costruiamo una sola Colonia. Tutte le Colonie recenti sono state costruite da altre Colonie. Se all’improvviso cominceremo a costruirne una, attireremo l’attenzione di tutte le Colonie esistenti, e dobbiamo evitarlo. E anche se riusciremo a costruire questa Colonia, a dotarla dell’iperassistenza facendole raggiungere la Stella Vicina in più di due anni luce, arrivata a destinazione cosa farà? Essendo una Colonia sarà vulnerabile… se Rotor avrà delle navi da guerra potrà distruggerla facilmente… e Rotor le avrà senz’altro. Certo, potremmo trasportare anche noi delle navi da guerra con la nostra Colonia mobile, però Rotor ne avrà sempre più di noi. Sono là da tre anni, loro, e forse passeranno altri dodici anni prima del nostro arrivo. Non appena avvisteranno la nostra Colonia, la distruggeranno.» «In tal caso, Direttore…» «Basta congetture, agente Fisher. A noi serve l’iperpropulsione, quella vera, il vero volo iperspaziale, per percorrere qualsiasi distanza in brevissimo tempo.» «Mi scusi, Direttore, ma è possibile? Almeno in teoria?» «Non sta a noi dirlo. Ci occorrono degli scienziati che si concentrino sul problema, e non li abbiamo. Per oltre un secolo, si è verificata una fuga di cervelli dalla Terra alle Colonie. Quindi adesso dobbiamo rovesciare la situazione. Dobbiamo depredare le Colonie, più o meno, convincere i fisici e i tecnici migliori a venire sulla Terra. Possiamo offrirgli parecchio, però bisognerà procedere con cautela. Non possiamo scoprirci troppo, o le Colonie sventeranno sicuramente il nostro piano. Ora…» Tanayama si interruppe e studiò Fisher meditabondo. Fisher si agitò sulla sedia, inquieto. «Sì, Direttore?» «Il fisico che ho in mente si chiama T.A.Wendel… a quanto mi dicono, è il massimo esperto iperspaziale del Sistema Solare.» «Sono stati gli esperti iperspaziali di Rotor a scoprire l’iperassistenza» osservò Fisher, senza riuscire a evitare che una punta di sarcasmo gli alterasse la voce. Tanayama ignorò la cosa. «A volte le scoperte sono dovute al caso, e una mente inferiore può avanzare incespicando e trovarsi in testa, mentre una mente superiore procede adagio per gettare prima delle basi solide. È successo spesso nella storia. E poi, Rotor ha dimostrato di possedere soltanto l’iperassistenza, una propulsione alla velocità della luce. Io voglio un tipo di propulsione ultraluce, molto più veloce della luce. E voglio Wendel.» «E vuole che io vada a prenderlo?» «A prenderla. È una donna. Tessa Anita Wendel, di Adelia.» «Oh?» «Ecco perché ci servi tu per questo incarico. A quanto pare…» e a questo punto Tanayama sembrò vagamente divertito, anche se la sua espressione non mutò «sei irresistibile con le donne.» Fisher si irrigidì, imbarazzato. «Mi dispiace contraddirla, Direttore, ma non mi pare che sia così. Non mi sono mai accorto di essere irresistibile.» «I rapporti parlano chiaro, comunque. La Wendel è una donna di mezz’età, ha superato i quaranta, ha due divorzi alle spalle. Non dovrebbe essere difficile persuaderla.» «Se devo essere sincero, signore, trovo che questo incarico sia molto sgradevole e, date le circostanze, forse un altro agente sarebbe più adatto.» «Ma io voglio ugualmente che sia tu a occupartene. Se hai paura di non riuscire a sprigionare tutto il tuo fascino accostandoti a lei con la faccia girata e arricciando il naso, ti indorerò la pillola, agente Fisher. Su Rotor hai fallito, ma quello che hai fatto in seguito ha compensato in parte il tuo fallimento. Ora puoi cancellarlo completamente. Ma se non porterai sulla Terra la Wendel, sarà un insuccesso molto più grande rispetto a quanto è successo su Rotor, e non avrai più la possibilità di riparare. Comunque, non voglio che tu sia influenzato soltanto dall’apprensione. Ti lascerò pregustare anche qualcosa di piacevole, un premio. Portaci la Wendel, e quando una nave ultraluce sarà pronta per raggiungere la Stella Vicina, tu sarai a bordo di quella nave, se vorrai.» «Mi impegnerò al massimo» disse Fisher. «Mi sarei impegnato al massimo anche senza incentivi piacevoli o prospettive allettanti.» «Un’ottima risposta» commentò Tanayama, concedendosi un accenno di sorriso. «E studiata con cura, indubbiamente.» E Fisher uscì, rendendosi conto che lo aspettava la spedizione di caccia più importante che gli fosse toccata finora. 15 Morbo XXXI Eugenia Insigna sorrise a Genarr, arrivati al dessert. «A quanto pare, conduci una vita piacevole qui.» Anche Genarr sorrise. «Abbastanza piacevole, ma claustrofobica. Viviamo su un mondo immenso, ma sono confinato nella Cupola. Qui la gente tende a essere chiusa, a isolarsi. Quando conosco delle persone interessanti, in un paio di mesi al massimo se ne vanno. In genere quelli della Cupola mi annoiano quasi sempre, anche se probabilmente li annoio più io. Ecco perché il tuo arrivo sarebbe stato un evento degno di un servizio olovisivo anche se tu fossi stata qualcun altro. Naturalmente, dal momento che sei tu…» «Adulatore» disse Eugenia, mesta. Genarr si schiarì la voce. «Marlene mi ha avvisato, per il mio bene, ovvio… che tu non hai ancora dimenticato del tutto…» Ma Eugenia lo interruppe di colpo. «Non mi sembra di avere suscitato l’interesse dell’olovisione.» Genarr rinunciò. «Era solo un modo di dire. Abbiamo in programma una festicciola domani sera, e allora verrai presentata ufficialmente, e tutti potranno conoscerti.» «E discutere del mio aspetto fisico, del mio abbigliamento, e sviscerare tutto quello che sapranno di me.» «Garantito. Ma è invitata anche Marlene… quindi, se noi sapremo delle cose sul tuo conto, tu ne scoprirai molte di più sul nostro, immagino. E saranno anche informazioni più attendibili.» Eugenia parve a disagio. «Marlene… si è comportata male?» «Mi stai chiedendo se ha letto il mio linguaggio corporeo? Sì.» «Le avevo detto di non farlo.» «È più forte di lei, credo.» «Hai ragione. Non può trattenersi. Però le avevo raccomandato di non dirtelo. Invece te l’ha detto, eh?» «Oh, sì. Le ho ordinato di farlo. Gliel’ho ordinato nella mia veste di Comandante.» «Be’, mi dispiace. Può essere una cosa molto seccante.» «Ma non lo è stata. Non per me. Eugenia, cerca di capire questo, per favore. Tua figlia mi piace. Mi piace moltissimo. Ho l’impressione che abbia avuto una vita misera, infelice… dev’essere duro sapere troppe cose e non piacere a nessuno. Il fatto che, malgrado tutto, adesso possieda le virtù più sgradevoli, per usare la tua definizone, è quasi un miracolo.» «Ti avverto. Marlene ti stancherà. E ha appena quindici anni.» «Dev’esserci una legge che impedisce alle madri di ricordare com’erano quando avevano quindici anni. Marlene ha accennato a un ragazzo, così, distrattamente… Forse saprai che l’amore non corrisposto è doloroso a quindici anni come a venticinque, magari ancor più doloroso… anche se, probabilmente, tu hai vissuto un’adolescenza allegra e felice, dato il tuo aspetto fisico. E ricorda, poi, che Marlene è in una situazione particolarmente brutta. Sa di non essere bella e sa di essere intelligente. Si rende conto che l’intelligenza dovrebbe compensare abbondantemente la mancanza di bellezza, e sa anche che invece non è così, quindi si arrabbia inutilmente e capisce che non serve a nulla.» «Be’, Siever, sei un vero psicologo» osservò Eugenia, con leggerezza voluta. «No, assolutamente. Capisco solo questa situazione. L’ho vissuta anch’io.» «Oh…» Eugenia parve imbarazzata. «Stai tranquilla, Eugenia. Non ho intenzione di compiangere me stesso, e non stavo cercando di commuoverti per spingerti a offrire un po’ di comprensione e tenerezza a una povera creatura distrutta… perché non sono una povera creatura distrutta. Ho quarantanove anni, non quindici, e sono in pace con me stesso. Se fossi stato bello e stupido quando avevo quindici anni, o ventuno, cosa che allora desideravo, adesso indubbiamente non sarei più bello… però sarei ancora stupido. Quindi, in fin dei conti, il problema l’ho risolto, ce l’ho fatta, e sono certo che ci riuscirà anche Marlene… se ci sarà il tempo.» «Cosa vorresti dire?» «Marlene mi ha detto che ha parlato con il nostro caro amico Pitt, e che l’ha provocato volutamente per far sì che accettasse di mandarti su Eritro, perché così si sarebbe liberato anche di lei.» «Non l’approvo» intervenne Eugenia. «Non mi riferisco al fatto che abbia influenzato Pitt, perché non credo che Pitt sia facilmente influenzabile. Marlene non doveva nemmeno provarci. Ormai pensa di potere manovrare le persone come marionette, e potrebbe finire in guai seri.» «Eugenia, non voglio spaventarti, ma credo che Marlene si trovi già in guai seri. O almeno, forse Pitt spera che lei finisca nei guai.» «Via, Siever, è impossibile. Pitt sarà anche ostinato e prepotente, però non è cattivo. Non se la prenderà con un’adolescente per così poco, per i giochetti sciocchi di Marlene.» La cena era finita, ma le luci erano ancora un po’ basse nell’alloggio piuttosto elegante di Genarr, ed Eugenia corrugò leggermente la fronte quanto Genarr si sporse in avanti per premere il contatto che attivava lo schermo. «Segreti, Siever?» chiese con una risata forzata. «Sì, Eugenia. Dovrò fare di nuovo lo psicologo. Tu non conosci Pitt, non come lo conosco io. Io l’ho contrastato, ero in competizione con lui… ecco perché mi trovo qui. Voleva liberarsi di me. Nel mio caso, però, la separazione è sufficiente. Può darsi che non basti nel caso di Marlene.» Altra risata forzata. «Via, Siever. Che stai dicendo?» «Ascolta, e capirai. Pitt ama la segretezza. Detesta che gli altri conoscano le sue intenzioni. Prova un senso di potere quando percorre un sentiero misterioso trascinando con sé la gente ignara.» «Forse hai ragione. Ha tenuto nascosta la scoperta di Nemesis, e mi ha obbligata a non rivelare nulla.» «Ha molti segreti, più di quanti immaginiamo, ne sono certo. Ma a un certo punto entra in scena Marlene… per lei i pensieri e i motivi occulti di una persona sono chiari come il giorno. Una cosa che non piace a nessuno, soprattutto a Pitt. Quindi, Pitt ha mandato qui Marlene… e anche te, dal momento che non avrebbe potuto mandarla senza di te.» «D’accordo. E allora?» «Credi che la rivoglia indietro, per caso?» «Questa è paranoia, Siever. Secondo te, Pitt avrebbe intenzione di tenerla in esilio per sempre? Che assurdità!» «Può farlo, in un modo. Vedi, Eugenia, tu non conosci bene la storia della Cupola… le fasi iniziali della sua storia le conosciamo solo io e Pit, e pochissimi altri. La mania di segretezza di Pitt è sempre valida, anche qui. Devo spiegarti perché rimaniamo nella Cupola e non cerchiamo di colonizzare il pianeta…» «Me l’hai spiegato. Il tipo di luce…» «Questa è la spiegazione ufficiale, Eugenia. Accetta la luce: ci si può abituare. Pensa alle altre cose che abbiamo: un mondo con una gravità normale, un’atmosfera respirabile, una temperatura piacevole, cicli meteorologici e climatici che ricordano quelli terrestri, nessuna forma di vita a parte i procarioti, che non sono nocivi. E nonostante questo, non muoviamo un dito per colonizzare il pianeta, neppure in modo limitato.» «Sentiamo, perché?» «Quando la Cupola era sorta da poco, tutti uscivano liberamente a esplorare l’esterno. Non prendevano precauzioni particolari, respiravano l’aria, bevevano l’acqua.» «Sì?» «E alcuni si sono ammalati. Mentalmente. Permanentemente. Non erano pazzi furiosi, però… erano alienati dalla realtà. Alcuni sono migliorati col tempo, ma nessuno si è ripreso completamente, a quanto mi risulta. Non è un male contagioso, pare, e questi ammalati vengono curati su Rotor… con discrezione.» Eugenia aggrottò le ciglia. «Stai inventando tutto, Siever? Io non ho mai sentito nulla di questa storia.» «Ti ricordo ancora la mania di segretezza di Pitt. Non era necessario che tu ne fossi informata. Non riguardava il tuo campo. Io invece dovevo saperlo, perché sono stato mandato qui a occuparmi del problema. Se avessi fallito, forse avremmo dovuto abbandonare completamente Eritro, e una coltre di paura e di scontento sarebbe scesa su noi tutti.» Genarr rimase un attimo in silenzio prima di continuare. «Non dovrei dirti queste cose. In un certo senso, sto violando il mio giuramento. Però, per amore di Marlene…» Un’espressione di profonda inquietudine attraversò il volto di Eugenia. «Che stai dicendo? Che Pitt…» «Che Pitt può aver pensato che Marlene potrebbe contrarre quello che noi chiamiamo "Morbo eritrotico". Non la ucciderebbe. Non la farebbe nemmeno star male, non nel senso che si intende normalmente, però le altererebbe la mente in maniera tale da annullare la sua dote particolare… e Pitt avrebbe raggiunto lo scopo.» «Ma è orribile, Siever. Inconcepibile. Esporre una bambina…» «Non sto dicendo che succederà, Eugenia. Non è detto che Pitt debba ottenere sempre quel che vuole. Una volta arrivato qui, ho introdotto metodi protettivi drastici. Usciamo solo indossando delle tute apposite, e rimaniamo all’esterno il minimo indispensabile. Anche i procedimenti di filtraggio della Cupola sono stati perfezionati. Da quando ho introdotto queste misure, abbiamo avuto solo due casi, entrambi leggeri.» «Ma quale è la causa, Siever?» Genarr sbottò in una breve risata. «Non lo sappiamo. Ecco la cosa peggiore. Non possiamo migliorare ulteriormente le nostre difese. Abbiamo fatto degli esperimenti accurati, e pare che nell’aria e nell’acqua non sia presente alcun elemento nocivo. Nemmeno nel terreno… in fin dei conti, lo abbiamo proprio qui nella Cupola, non possiamo separarci dal terreno. Abbiamo anche l’aria e l’acqua, opportunamente filtrate. Eppure, molte persone hanno respirato l’aria naturale di Eritro e hanno bevuto l’acqua naturale di Eritro senza alcuna conseguenza.» «Devono essere i procarioti, allora.» «Impossibile. Tutti li abbiamo ingeriti o respirati inavvertitamente, e li abbiamo usati per dei test sugli animali. Non è successo nulla. Inoltre, se fossero i procarioti, il Morbo dovrebbe essere contagioso e, come ho detto, non lo è. Abbiamo fatto. altri esperimenti con le radiazioni di Nemesis, e anche quelle sembrano innocue. E poi, una volta, solo una volta, una persona che non era mai stata all’esterno si è ammalata nella Cupola. È un mistero.» «Tu non hai nessuna teoria?» «Io? No. Sono contento che il Morbo si sia praticamente arrestato… mi basta questo. Però, finché non conosceremo la sua natura e la sua causa che lo genera, non avremo mai la certezza che non ricominci. Un’ipotesi c’era…» «Quale?» «L’idea era di uno psicologo, e io l’ho comunicata a Pitt. Secondo lo psicologo, le persone che hanno contratto la malattia erano più ricche di immaginazione rispetto agli altri, più fuori del comune, mentalmente parlando. Più intelligenti, più creative, più insolite. Secondo lui, quale che fosse la causa del male, le menti più notevoli erano meno resistenti, più facilmente alterabili.» «Pensi che possa essere così?» «Non lo so. Il guaio è che non c’è nessun’altra distinzione. Sono stati colpiti entrambi i sessi, più o meno in percentuali uguali, e non siamo riusciti a trovare nessuna tendenza particolare riguardò l’età, l’istruzione, le caratteristiche fisiche complessive. Naturalmente, le vittime del Morbo costituiscono un campione piuttosto limitato, quindi le statistiche hanno un valore relativo. Pitt ha ritenuto accettabile questa teoria delle menti fuori del comune, e negli ultimi anni sono venute su Eritro solo persone piuttosto ottuse… non prive di intelligenza, beninteso, ma prive di estro, sgobbone. Come me. Sono il prototipo del soggetto immune al Morbo… un cervello ordinario. Giusto?» «Via, Siever, non…» «D’altra parte» fece Genarr, interrompendo la replica di Eugenia «direi proprio che la mente di Marlene è senza dubbio fuori del comune.» «Oh, sì. Capisco dove vuoi arrivare.» «Dopo avere scoperto che Marlene possedeva questa capacità e che era lei a chiedergli di andare su Eritro, può darsi che Pitt si sia reso conto all’istante che accogliendo semplicemente la sua richiesta forse sarebbe riuscito a liberarsi di una mente che aveva riconosciuto subito come pericolosa.» «Quindi dovremmo andarcene, tornare su Rotor… è evidente.» «Già, ma sono sicuro che Pitt potrà impedirvelo per un po’. Può sostenere che i rilevamenti che vuoi compiere sono di importanza vitale e vanno quindi ultimati, e tu non potrai usare il Morbo come giustificazione. Provaci, e Pitt ti farà ricoverare per una visita psichiatrica. Io ti suggerisco di completare quei rilevamenti al più presto, e in quanto a Marlene, prenderemo tutte le precauzioni possibili. Il Morbo è cessato, e l’idea che le menti fuori del comune siano particolarmente vulnerabili è soltanto un’ipotesi. Non c’è motivo di pensare che non possiamo farcela. Possiamo tenere Marlene al sicuro e farla in barba a Pitt. Vedrai.» Eugenia fissò Genarr, senza vederlo in realtà, mentre un nodo le bloccava lo stomaco. 16 Iperspazio XXXII Adelia era una Colonia gradevole, molto più di Rotor. Ormai, Crile Fisher era stato su sei Colonie, oltre a Rotor, ed erano tutte più accoglienti di Rotor. (Si soffermò un attimo a esaminare la lista di nomi, e sospirò. Erano sette, non sei. Stava cominciando a confondersi, a perdere il conto. Forse la situazione stava diventando insostenibile per lui.) Quale che fosse il numero, Adelia era la Colonia più gradevole che Crile avesse visitato. Forse, non fisicamente. Rotor era una Colonia più vecchia, che era riuscita a crearsi un complesso di tradizioni. C’era un’atmosfera di efficienza, si aveva l’impressione che ogni persona conoscesse esattamente il proprio posto, fosse soddisfatta, e svolgesse il proprio ruolo con successo. Naturalmente, lì su Adelia c’era Tessa… Tessa Anita Wendel. Crile non era ancora entrato in azione, forse perché era rimasto scosso dalla caratterizzazione di Tanayama, che lo aveva dipinto come un conquistatore irresistibile con il gentil sesso. Per quanto potesse essere scherzosa (o sarcastica), quella descrizione lo aveva condizionato, costringendolo a procedere lentamente, quasi contro la sua volontà. Un insuccesso sarebbe apparso doppiamente negativo agli occhi di qualcuno che lo riteneva, anche se in modo insincero, un seduttore. Quando Fisher si fu sistemato nella Colonia, trascorsero due settimane prima che riuscisse a vedere la Wendel. Era sorprendente come su una Colonia si riuscisse sempre a vedere chiunque. Malgrado la sua esperienza, Fisher non si era mai abituato alla piccolezza di una Colonia, alla popolazione così poco numerosa, al fatto che tutti gli individui appartenenti a una data cerchia sociale si conoscessero tra loro, e conoscessero quasi tutti anche al di fuori del loro ambiente. Comunque, quando finalmente la vide, Fisher rimase colpito da Tessa Wendel. Tanayama aveva parlato di una donna di mezza età, divorziata due volte (e nel dirlo aveva contratto le vecchie labbra in un accenno di smorfia, come se sapesse di assegnargli un compito spiacevole), e Fisher nella mente si era formato l’immagine di una donna aspra, dal volto duro, con qualche tic nervoso, forse, e un atteggiamento cinico o famelico nei confronti degli uomini. Tessa non corrispondeva affatto a quell’immagine, la prima volta che la vide tenendosi a media distanza. Era alta quasi come lui, bruna, coi capelli lisci. Sembrava sveglia e vivace, e sorrideva con naturalezza. Vestiva in modo molto semplice, come se volesse evitare ad ogni costo i fronzoli inutili. Si era mantenuta snella, e aveva una figura sorprendentemente giovanile. Chissà perché aveva divorziato due volte? Probabilmente era stata lei a stancarsi dei compagni, e non viceversa, rifletté Fisher… anche se il buon senso gli diceva che l’incompatibilità poteva manifestarsi nei casi più impensati. A questo punto era necessario partecipare a qualche avvenimento sociale dove fosse presente anche Tessa Wendel. Il fatto che Fisher fosse terrestre creava qualche difficoltà, ma su ogni Colonia c’erano delle persone al soldo della Terra. Una di queste persone sicuramente avrebbe fatto in modo che Fisher venisse «lanciato», per usare il termine con cui sulla maggior parte delle Colonie si definiva il rituale. E un giorno Fisher e la Wendel si trovarono faccia a faccia. Lei lo fissò pensierosa, squadrandolo lentamente da capo a piedi, poi, inevitabilmente, disse: «Lei è terrestre, vero, signor Fisher?» «Sì, dottoressa Wendel. E mi dispiace moltissimo… se questo la offende.» «Non mi offende. Immagino sia stato decontaminato.» «Eccome. Decontaminato a morte, quasi.» «E perché ha affrontato una cosa così spiacevole pur di venire qui?» E Fisher, senza fissarla in modo troppo diretto, ma attento alla sua reazione, rispose: «Perché mi avevano detto che le donne adeliane erano particolarmente belle». «E adesso suppongo che tornerà a casa e smentirà questa voce.» «Al contrario, ho appena avuto la conferma che è vero.» «Lei è un lisciatore, lo sa?» Fisher non sapeva cosa volesse dire «lisciatore» in gergo adeliano, comunque la Wendel stava sorridendo, e Fisher decise che il primo approccio aveva avuto un esito positivo. Perché era irresistibile? Di colpo, ricordò che non aveva mai cercato di essere irresistibile con Eugenia. Aveva solo cercato un modo di inserirsi nella difficile società rotoriana. La società adeliana non era così difficile, decise Fisher, ma avrebbe fatto meglio a lasciar stare la sua irresistibilità. Tuttavia, tra sé, sorrise mesto. XXXIII Un mese dopo, Fisher e la Wendel erano sufficientemente affiatati da trascorrere un po’ di tempo insieme in una palestra a bassa gravità. Gli esercizi ginnici erano stati quasi divertenti per Fisher… quasi, perché non si era mai abituato abbastanza alla ginnastica in condizioni di bassa gravità e non riusciva a evitare qualche attacco di nausea dovuto al mal di spazio. Su Rotor, si prestava minore attenzione a cose del genere, e lui di solito veniva escluso perché non era un rotoriano autentico. (Non era legale, ma spesso la consuetudine era più forte della legalità.) In ascensore, raggiunsero un livello a gravità più elevata, e Fisher sentì che il suo stomaco si calmava. Sia lui sia la Wendel indossavano il minimo indispensabile, e Fisher aveva la sensazione che Tessa avvertisse la presenza del suo corpo, come lui avvertiva quello di lei. Dopo una doccia, si vestirono e si ritirarono in un Privacy, dove ordinarono un pasto leggero. «Per essere un terrestre, Crile, non te la cavi male in condizioni di bassa gravità. Ti stai divertendo su Adelia?» chiese lei. «Lo sai che mi sto divertendo, Tessa. Un terrestre non riesce mai ad abituarsi del tutto a un mondo piccolo, però la tua presenza annullerebbe moltissimi svantaggi.» «Già. Proprio quello che direbbe un lisciatore. Com’è Adelia rispetto a Rotor?» «A Rotor?» «O alle altre Colonie su cui sei stato? Posso elencartele tutte, Crile.» Fisher si sentì confuso. «Cos’hai fatto? Hai indagato sul mio conto?» «Naturalmente.» «Sono così interessante?» «Trovo interessante chiunque faccia di tutto per interessarsi a me. Voglio sapere perché. Escludendo la possibilità del sesso, ovvio. Questo è implicito.» «Perché mi interessi?» «Prova a dirmelo. Perché eri su Rotor? Sei stato là abbastanza a lungo da sposarti e avere un figlio, poi te ne sei andato in fretta e furia prima che Rotor si dileguasse. Avevi paura di rimanere bloccato su Rotor per tutta la vita? Non ti piaceva il posto?» Fisher adesso si sentiva angustiato. «In effetti, Rotor non mi piaceva molto, perché ai rotoriani io non piacevo… o meglio, i terrestri non erano graditi su Rotor. E hai ragione… non volevo rimanere bloccato là come cittadino di categoria inferiore per tutta la vita. Le altre Colonie non sono così dure con noi. Adelia, per esempio.» «Però, Rotor aveva un segreto e cercava di nasconderlo alla Terra, vero?» Gli occhi di Tessa Wendel sembravano luccicare divertiti. «Un segreto? Ti riferisci all’iperassistenza, immagino.» «Già, credo proprio di sì. E immagino che tu stessi cercando proprio quello.» «Io?» «Sì, tu, certo. Be’, hai trovato quel che cercavi? Voglio dire, è per questo che hai sposato una scienziata rotoriana, no?» Tessa appoggiò il mento sui pugni, i gomiti sul tavolo, e si sporse in avanti. Fisher scosse la testa e rispose guardingo: «Lei non mi ha mai detto nemmeno una parola riguardo l’iperassistenza. Ti sbagli completamente sul mio conto». La Wendel ignorò la risposta. «E adesso vuoi ottenerlo da me, quel che cerchi. Come pensi di riuscirci? Hai intenzione di sposarmi?» «Lo otterrei, se ti sposassi?» «No.» «Allora il matrimonio sembra fuori discussione, giusto?» «Peccato» disse Tessa Wendel, sorridendo. «Mi stai facendo queste domande perché sei un’esperta iperspaziale?» chiese Fisher. «E questo chi te l’ha detto? Te l’hanno detto sulla Terra, prima che tu venissi qui?» «Sei nell’Albo Adeliano.» «Ah, anche tu hai indagato sul mio conto. Che strana coppia siamo. Non hai notato che figuro come fisica teorica?» «L’Albo Adeliano elenca anche i tuoi studi, e dal momento che parecchi titoli contengono la parola «iperspaziale» mi sembra logico considerarti un’esperta iperspaziale.» «Già, però io rimango ugualmente una fisica teorica, quindi il mio approccio allo studio dell’iperspazio è teorico. Non ho mai cercato di metterlo in pratica.» «Ma Rotor lo ha fatto. Mi chiedo… Non ti ha dato fastidio? Dopo tutto, qualcuno su Rotor ti ha superato.» «Perché dovrebbe darmi fastidio? La teoria è interessante, l’applicazione no. Se non ti limitassi a leggere solo il titolo dei miei studi, scopriresti che dico senza mezzi termini che l’iperassistenza non merita lo sforzo che richiede.» «I rotoriani sono riusciti a inviare una navicella nello spazio profondo e hanno studiato le stelle.» «Stai parlando della Sonda Remota. Ha permesso a Rotor di compiere dei rilevamenti parallattici osservando un certo numero di stelle relativamente lontane, ma valeva la pena di sobbarcarsi una spesa del genere? A che distanza si è spinta la Sonda Remota? Solo a qualche mese luce. Non è certo una distanza notevole. Rispetto alla Galassia, la posizione estrema della Sonda Remota e quella della Terra e la linea immaginaria che le unisce non è altro che un punto nello spazio.» «Non si sono limitati a lanciare la Sonda Remota» precisò Fisher. «L’intera Colonia è partita.» «Oh, certo. È successo nel ‘22, quindi sono partiti da sei anni. E cosa sappiamo? Soltanto che sono partiti.» «Non basta?» «Non direi proprio. Dove sono andati? Sono ancora vivi? Possono essere ancora vivi? Gli esseri umani non sono mai stati isolati su una Colonia. Hanno sempre avuto la Terra nelle vicinanze, e altre Colonie. Poche decine di migliaia di esseri umani possono sopravvivere soli nell’universo su una piccola Colonia? Non sappiamo se sia possibile psicologicamente. Secondo me, no.» «Saranno partiti con l’intenzione di trovare un mondo su cui vivere, non di rimanere su una Colonia, immagino.» «Via, e che mondo troveranno? Sono partiti da sei anni. Sono due le stelle che avrebbero potuto raggiungere in questo periodo di tempo, dato che l’iperassistenza consente solo di viaggiare a una velocità media pari a quella della luce. Alfa Centauri, un sistema triplo, a quattro virgola tre anni luce, che comprende una nana rossa. Poi c’è la stella di Barnard, una nana rossa, a cinque virgola nove anni luce. Dunque, quattro stelle: una di tipo G, come il Sole, una quasi di tipo G, e due nane rosse. Le due stelle di tipo G fanno parte di un sistema binario abbastanza stretto, per cui è improbabile che abbiano un pianeta tipo Terra in orbita stabile attorno a sé. Dopo di che, dove andranno i rotoriani? Non ce la faranno, Crile. Mi dispiace. So che su Rotor c’erano tua moglie e tua figlia… ma non ce la faranno.» Fisher rimase calmo. Sapeva qualcosa che lei ignorava. Sapeva della Stella Vicina… ma anche quella era una nana rossa. Disse: «Dunque, secondo te il volo interstellare è impossibile?» «In pratica, sì… se l’iperassistenza è il limite massimo a cui possiamo arrivare.» «Da come lo dici, sembra che l’iperassistenza non sia il limite massimo, Tessa.» «Può darsi che lo sia. Non molto tempo fa pensavamo che perfino questo fosse impossibile… Però, possiamo almeno sognare il vero volo iperspaziale e le vere velocità ultraluce. Se potessimo spostarci alla velocità che vogliamo per tutto il tempo desiderato, la Galassia, forse l’universo, diventerebbe un grande Sistema Solare, per così dire, e sarebbe alla nostra portata.» «Un bel sogno, ma è possibile?» «Dopo la partenza di Rotor, ci sono stati tre Congressi Intercoloniali sull’argomento.» «Solo Intercoloniali? E la Terra?» «Erano presenti degli osservatori terrestri, ma la Terra non è un paradiso della fisica, oggigiorno.» «E quali sono state le conclusioni di questi congressi?» La Wendel sorrise. «Non sei un fisico.» «Lascia perdere le parti difficili. Sono curioso.» Lei continuò a sorridere. Fisher serrò i pugni sul tavolo. «Smettila di pensare che io sia una specie di agente segreto a caccia di informazioni. Ho una figlia, là nello spazio, Tessa. Tu dici che probabilmente è morta. Ma se fosse viva? È possibile…» Il sorriso della Wendel scomparve. «Scusa. Non ci avevo pensato. Ma sii pratico. Localizzare una Colonia che si trova chissà dove in un volume di spazio rappresentato da una sfera che, adesso, ha un raggio di sei anni luce e continua a ingrandirsi è un’impresa impossibile. Abbiamo impiegato oltre un secolo per scoprire il decimo pianeta, e quello era enormemente più grande di Rotor e lo abbiamo cercato in un volume di spazio molto più piccolo.» «La speranza non muore mai» ribatté Fisher. «Il vero volo iperspaziale è possibile? Puoi rispondere sì o no.» «Molti, la maggior parte, dicono di no… se proprio ti interessa la verità. Alcuni forse dicono che non sono in grado di dirlo, però tendono a borbottare tra i denti.» «Non c’è nessuno che dica sì, chiaro e tondo?» «Una persona, che io sappia. Io.» «Tu pensi che sia possibile?» chiese Fisher, sinceramente sorpreso. «Lo dici apertamente, o è qualcosa che dici a te stessa nel cuore della notte?» «Ho pubblicato uno studio in proposito. Uno di quegli articoli di cui hai letto solo il titolo. Nessuno osa essere d’accordo con me, naturalmente, e mi è capitato di sbagliarmi in passato, però questa volta credo di avere ragione.» «Perché tutti gli altri pensano che ti sbagli?» «Questa è la parte difficile. È questione di interpretazione. L’iperassistenza di tipo rotoriano, una tecnica che, tra parentesi, ormai viene compresa sulle Colonie in generale, dipende dal fatto che il prodotto del rapporto velocità della nave/velocità della luce, moltiplicato per il tempo, è una costante, dove il rapporto velocità della nave/velocità della luce è maggiore di uno.» «Che significa?» «Significa che quando superi la velocità della luce, maggiore è la velocità, minore è il periodo di tempo in cui puoi mantenere tale velocità, e maggiore è il periodo di tempo in cui devi procedere al di sotto della velocità della luce prima di riuscire ad avere la spinta necessaria per superarla di nuovo. Di conseguenza, alla fine, la tua velocità media su una data distanza non è molto superiore a quella della luce.» «Be’?» «Così sembra che c’entri il principio di indeterminazione, e col principio di indeterminazione non si può scherzare, di questo siamo tutti convinti. Se c’entra il principio di indeterminazione, il vero volo iperspaziale sembrerebbe teoricamente impossibile, e la maggior parte dei fisici si è schierata a favore di questa tesi, mentre il resto parla a vanvera. Secondo me, invece, sembra soltanto che entri in gioco il principio di indeterminazione, ma in realtà non è così, per cui la possibilità del vero volo iperspaziale non è da scartare.» «Non si può risolvere la questione?» «Probabilmente, no» rispose Tessa Wendel, scuotendo la testa. «Alle Colonie non interessa affatto vagabondare per lo spazio disponendo soltanto dell’iperassistenza. Nessuno ha intenzione di ripetere l’esperimento rotoriano e di viaggiare per anni andando incontro a una morte probabile. D’altra parte, le Colonie non investiranno nemmeno una quantità incredibile di denaro e di risorse per cercare di elaborare una tecnica che la grande maggioranza degli esperti del settore ritiene teoricamente impossibile.» Fisher si sporse in avanti. «Non ti irrita, questo?» «Certo che mi irrita. Sono una scienziata, e mi piacerebbe dimostrare che la mia visione dell’universo è quella giusta. Comunque, devo accettare i limiti del possibile. Ci vorrebbero somme enormi, e le Colonie non mi daranno nulla.» «Ma, Tessa, anche se alle Colonie non interessa, alla Terra importa… e moltissimo, a qualsiasi costo.» «Davvero?» Tessa sorrise, l’aria abbastanza divertita, almeno apparentemente. Poi allungò la mano e accarezzò i capelli di Fisher, lentamente, in modo sensuale. «Lo immaginavo che saremmo arrivati alla Terra prima o poi.» XXXIV Fisher le prese il polso e le scostò adagio la mano dalla testa. «Mi hai detto la verità riguardo le tue opinioni sul volo iperspaziale, vero?» «L’assoluta verità.» «Allora, la Terra ti vuole.» «Perché?» «Perché la Terra vuole il volo iperspaziale, e tu sei l’unico fisico importante a ritenerlo possibile.» «Se lo sapevi, perché questo controinterrogatorio?» «L’ho saputo solo quando me l’hai detto. Prima sapevo solo che eri il fisico più brillante esistente oggi.» «Oh, lo sono, lo sono» ammise Tessa Wendel in tono beffardo. «E ti hanno mandato a prendermi?» «A persuaderti.» «Persuadermi a fare che? A venire sulla Terra? Sovraffollata, sporca, impoverita, tormentata da un clima incontrollato. Che pensiero allettante.» «Ascolta, Tessa. La Terra non è tutta uguale. Avrà anche tutti questi difetti, però certe parti della Terra sono belle, tranquille, e tu vedresti solo quelle. Non sai com’è la Terra, in realtà. Non ci sei mai stata, vero?» «Mai. Sono adeliana, nata e cresciuta su Adelia. Sono stata su altre Colonie, ma mai sulla Terra, grazie.» «Quindi non puoi sapere com’è la Terra. Non hai idea di cosa sia un mondo grande, un mondo vero. Vivi in un ambiente ristretto, in una specie di giocattolo, con pochi chilometri quadri di superficie e con un gruppo striminzito di gente. Vivi in un mondo in miniatura che ormai ha perso qualsiasi attrattiva, che non ha più nulla da offrirti. La Terra, invece, ha oltre seicento milioni di chilometri quadrati di superficie, otto miliardi di abitanti. Questo significa varietà infinita… molti aspetti pessimi, ma molti altri ottimi.» «E povertà assoluta. E scienza inesistente.» «Perché gli scienziati, e con loro la scienza, si sono trasferiti sulle Colonie. Ecco perché abbiamo bisogno di te e di altri come te. Vieni sulla Terra. Venite.» «Continuo a non capire il motivo.» «Perché abbiamo degli obiettivi, delle ambizioni, dei desideri. Le Colonie provano solo autocompiacimento per se stesse.» «A che servono tutti quegli obiettivi, quelle ambizioni e quei desideri? La fisica è un’attività costosa.» «E la ricchezza pro capite della Terra è bassa, lo ammetto. Individualmente siamo poveri, però otto miliardi di persone, offrendo ognuna un modesto contributo, possono accumulare una somma ingentissima. Le nostre risorse, per quanto siano e siano state male utilizzate, sono ancora enormi, e possiamo trovare più soldi e più manodopera di tutte le Colonie messe insieme… se si tratta di realizzare qualcosa di cui abbiamo un bisogno assoluto. E ti assicuro che la Terra ha un bisogno assoluto del volo iperspaziale. Vieni sulla Terra, Tessa, e sarai trattata come la risorsa più rara… ci occorre una mente brillante, è l’unica cosa di cui non disponiamo.» «Non so se Adelia sarebbe disposta a lasciarmi venire, non ne sono affatto sicura. Sarà una Colonia compiaciuta di sé, però anche Adelia sa quanto siano preziose certe menti.» «Non potranno opporsi se parteciperai a un convegno scientifico sulla Terra.» «E una volta là, intendi dire, non ci sarà più bisogno che ritorni?» «Non avrai motivo di lamentarti del trattamento. Avrai un livello di vita migliore di quello che hai qui. Ogni tuo desiderio sarà soddisfatto… E non basta… Potrai dirigere il progetto iperspaziale e disporrai di fondi illimitati per qualsiasi test, esperimento, osservazione…» «Perbacco! Mi offrite un compenso principesco per corrompermi!» «Puoi chiedere di più?» chiese Fisher, serio. «Mi domando… Perché hanno mandato proprio te? Un uomo attraente come te? Si aspettavano che tu tornassi alla base con una scienziata anziana, influenzabile, frustrata, attratta dal tuo corpo come un pesce da un amo?» «Non so cosa avessero in mente quelli che mi hanno mandato, Tessa, ma io non ho pensato niente del genere. Non dopo averti vista. Non sei anziana, e lo sai. L’idea che tu sia influenzabile o frustrata non mi sfiora nemmeno. La Terra ti sta offrendo il sogno di ogni fisico. L’età e il sesso non c’entrano.» «Che peccato! E se fossi recalcitrante e non volessi venire sulla Terra? Cosa dovresti fare, come misura persuasiva estrema? Reprimere il tuo disgusto per l’atto e fare l’amore con me?» Tessa Wendel incrociò le braccia sullo splendido seno e lo guardò con aria interrogativa. Fisher rispose scegliendo le parole con cura. «Come ti ripeto, non so cosa avessero in mente quelli che mi hanno mandato. Fare l’amore non faceva parte delle istruzioni esplicite ricevute, né delle mie intenzioni, ma se fosse vero il contrario ti assicuro che la prospettiva non mi disgusterebbe affatto. Comunque, ho pensato che avresti visto i vantaggi della proposta nella tua qualità di scienziata, e mi è sembrato che sarebbe stato offensivo nei tuoi confronti presumere che potessi desiderare qualcos’altro.» «Come ti sbagli!» esclamò Tessa Wendel. «Mi rendo conto dei vantaggi da un punto di vista scientifico, e sono ansiosa di inseguire la farfalla del volo iperspaziale lungo i corridoi del possibile… ma non voglio nemmeno rinunciare a un’opera di persuasione completa da parte tua. Voglio tutto.» «Ma…» «In parole povere, se mi vuoi, devi pagarmi. Convincimi come se fossi recalcitrante, impegnati al massimo, o non verrò sulla Terra. Via, secondo te, perché siamo in un Privacy? Secondo te, a che servono i Privacy? Ci siamo sgranchiti in palestra, abbiamo fatto la doccia, abbiamo mangiato e bevuto un po’, abbiamo conversato, abbiamo gustato tutti questi piaceri, e adesso possiamo gustarne anche altri. Insisto. Convincimi a venire sulla Terra.» E a un tocco del dito di Tessa, la luce all’interno del Privacy si attenuò creando un’atmosfera seducente. 17 Al sicuro? XXXV Eugenia era inquieta. Era stato Siever Genarr a insistere perché venisse consultata Marlene. «Sei sua madre, Eugenia» le aveva detto «ed è inevitabile che tu la consideri una bambina. Ci vuole tempo prima che una madre si renda conto di non essere una sovrana assoluta, di non disporre della figlia come se fosse un oggetto di sua proprietà.» Eugenia aveva evitato il suo sguardo tenero. «Niente prediche, Siever. Tu non hai figli. È facile essere pomposo quando si tratta dei figli degli altri.» «Ti sembro pomposo? Mi spiace. Diciamo che, a differenza di te, io non sono legato emotivamente al ricordo di una bambina. Marlene mi piace, e molto, però non ho nessuna immagine mentale di lei, a parte quella di una giovane donna che sta sbocciando e che possiede una mente eccezionale. Marlene è importante, Eugenia. Ho la strana sensazione che sia molto più importante di te o di me. Bisogna consultarla…» «Bisogna tenerla al sicuro» aveva replicato Eugenia Insigna. «Sono d’accordo, però bisogna sentire anche lei per decidere quale sia il modo migliore di proteggerla. È giovane, inesperta, ma può darsi che sappia meglio di noi cosa dobbiamo fare. Parliamo tra noi come se fossimo tre adulti. Promettimi che non cercherai di usare la tua autorità materna, Eugenia.» «Come posso promettere una cosa del genere?» aveva risposto Eugenia, con amarezza. «Comunque, parleremo con lei.» Così, adesso, erano riuniti tutti e tre nell’ufficio di Genarr. La stanza era schermata. Marlene, lanciando una rapida occhiata ai due adulti, serrò le labbra ed esordì con aria infelice: «Non mi piacerà, quello che sto per sentire». «Già, cattive notizie, temo» confermò Eugenia. «Senza preamboli… Stiamo prendendo in considerazione l’idea di un ritorno su Rotor.» Marlene parve stupita. «Ma il tuo lavoro importante, mamma? Non puoi abbandonarlo. Ma vedo che non hai intenzione di abbandonarlo. Non capisco, allora.» «Marlene» disse Eugenia lentamente, scandendo bene le parole «stiamo pensando di farti tornare su Rotor. Il ritorno su Rotor riguarda solo te.» Seguirono alcuni attimi di silenzio. Marlene scrutò le loro facce poi, quasi in un sussurro, disse: «Non state scherzando. Non posso crederci. Io non voglio tornare su Rotor. Mai. Eritro è il mio mondo. Io voglio stare qui». «Marlene» iniziò Eugenia, la voce si era fatta stridula. Genarr alzò la mano rivolto a Eugenia e scosse leggermente la testa. Eugenia tacque, e Genarr chiese: «Perché desideri tanto rimanere qui, Marlene?» «Perché lo desidero, e basta» rispose asciutta Marlene. «A volte capita di avere fame di una cosa particolare… di avere voglia di mangiarla, senza sapere spiegare il perché. Si desidera una cosa, e basta. Ecco, io ho fame di Eritro. Non so perché, ma voglio Eritro. E non devo spiegarlo.» «Lascia che tua madre ti dica quello che sappiamo» fece Genarr. Eugenia prese la mano fredda e inerte della figlia. «Ricordi, Marlene, prima che partissimo per Eritro, quando mi hai parlato della tua conversazione con il Commissario Pitt…» «Sì?» «Stando al tuo racconto, quando ti ha detto che potevamo venire su Eritro, Pitt ha omesso qualcosa. Tu non sapevi cosa fosse, però hai detto che doveva essere qualcosa di spiacevole… di malvagio, in un certo senso.» «Sì, ricordo.» Eugenia esitò, e i grandi occhi penetranti di Marlene assunsero un’espressione dura. Quasi stesse parlando tra sé senza rendersi pienamene conto di esprimere a voce i propri pensieri, Marlene mormorò: «Tremolio oculare… Mano accanto alla tempia… Spostamento all’indietro…» Il suono si spense, anche se le sue labbra continuarono a muoversi. Poi, alzando la voce in tono risentito, Marlene sbottò: «Avete l’impressione che ci sia qualcosa che non va nella mia mente?» «No» si affrettò a rispondere la madre. «Al contrario, cara. Sappiamo che la tua mente è eccellente, e vogliamo che rimanga tale. Ecco i fatti…» Marlene ascoltò la storia del Morbo di Eritro con un’aria alquanto sospettosa, infine osservò: «Vedo che sei convinta di quello che dici, che ci credi, mamma… ma può darsi che qualcuno ti abbia mentito». «L’ha saputa da me, questa storia» intervenne Genarr. «E ti garantisco che è tutto vero, te lo dico per esperienza personale. Ora dimmi se sono sincero.» Quelle parole furono sufficienti per Marlene, che proseguì. «Perché mi trovo in una situazione particolarmente pericolosa, allora? Perché sono in pericolo più di te o di mia madre?» «Come ha detto tua madre, Marlene… Si pensa che il Morbo colpisca con maggiore facilità le persone più ricche di immaginazione, più fantasiose. Alcuni ritengono, in base alle osservazioni svolte, che le menti insolite siano più esposte al Morbo, e, dato che la tua è la mente più insolita che abbia mai incontrato, è possibile, a mio avviso che tu corra un grave rischio. Secondo le istruzioni del Commissario Pitt, dobbiamo concederti la massima libertà su Eritro, dobbiamo permetterti di vedere e di provare tutto quel che vuoi, dobbiamo permetterti perfino di uscire dalla Cupola a esplorare l’esterno se lo desideri. Molto gentile da parte sua, sembrerebbe… ma può darsi che Pitt voglia esporti all’esterno sperando che ci siano maggiori probabilità che tu contragga il Morbo, no?» Marlene rifletté, senza scomporsi. «Non capisci, Marlene?» disse Eugenia. «Il Commissario non vuole ucciderti. Non lo stiamo accusando di questo. Vuole solo neutralizzare la tua mente. Gli da fastidio. Tu puoi scoprire con facilità delle cose sul suo conto, intuire le sue intenzioni, e lui non è disposto a tollerarlo. Pitt ama la segretezza.» «Se il Commissario Pitt sta cercando di farmi del male» disse infine Marlene «perché state cercando di rimandarmi da lui?» Genarr aggrottò le ciglia. «Te l’abbiamo spiegato. Qui sei in pericolo.» «Sarei in pericolo là, con lui. Chissà cosa potrebbe fare… se vuole proprio danneggiarmi? Finché resto su Eritro, invece, il Commissario Pitt si dimenticherà di me, dal momento che è convinto che qui la mia mente sarà danneggiata. Mi lascerà in pace, no? Almeno, finché rimarrò qui…» «Ma c’è il Morbo, Marlene. Il Morbo.» Eugenia fece per stringere la figlia. Marlene si sottrasse all’abbraccio. «Il Morbo non mi preoccupa.» «Ma ti abbiamo spiegato…» «Quello che mi avete spiegato non ha importanza. Qui non sono in pericolo. Affatto. Conosco la mia mente. La conosco da una vita. La capisco. Be’, non corre nessun rischio.» «Sii ragionevole, Marlene» intervenne Genarr. «Per quanto possa sembrarti stabile, la tua mente è soggetta alle malattie e al deterioramento. Potresti essere colpita dalla meningite, dall’epilessia, da un tumore al cervello, o dalla senescenza, invecchiando. Non basta avere la certezza che non ti accadrà nulla per tenere a bada queste cose, no?» «Non sto parlando di queste cose. Sto parlando del Morbo. Non mi colpirà.» «Non puoi esserne certa, cara. Non sappiamo nemmeno cosa sia il Morbo.» «Di qualunque cosa si tratti, non mi colpirà.» «Come fai a esserne certa, Marlene?» chiese Genarr. «Lo so, e basta.» Eugenia perse la pazienza e afferrò la figlia per i gomiti. «Marlene, devi fare come ti dicono.» «No, mamma. Non capisci. Su Rotor, mi sono sentita attratta da Eritro. L’attrazione è ancora più forte adesso che sono qui. Voglio rimanere su Eritro. Qui sarò al sicuro. Non voglio tornare su Rotor. Là, i rischi per me sarebbero maggiori.» Genarr alzò la mano, impedendo a Eugenia di ribattere. «Io suggerisco un compromesso, Marlene. Tua madre è qui per compiere dei rilevamenti astronomici che richiederanno un certo tempo. Mentre sarà impegnata, prometti che ti accontenterai di restare nella Cupola, che prenderai le precauzioni che io riterrò opportune, e che ti sottoporrai a degli esami periodici. Se non riscontreremo alcuna alterazione delle tue funzioni mentali, potrai aspettare qui nella Cupola finché tua madre non avrà terminato il lavoro, dopo di che potremo tornare a discutere il problema. D’accordo?» Marlene piegò la testa, meditabonda. «D’accordo» ammise poi. «Ma, mamma, non pensare di far finta di avere terminato. Me ne accorgerò. E non ti venga in mente di fare un lavoro affrettato invece di procedere con l’accuratezza necessaria. Capirò anche questo.» Eugenia corrugò la fronte. «Non imbroglierò, Marlene. E sappi che non trascurerei mai volutamente la precisione del mio lavoro scientifico… nemmeno per amor tuo.» «Mi dispiace, mamma» disse Marlene. «Lo so che mi trovi irritante.» Eugenia sospirò. «Non lo nego. Comunque, irritante o no, tu sei mia figlia, Marlene. Ti voglio bene e voglio che tu sia al sicuro. Mento, su questo?» «No, mamma, non menti. Ma, per favore, credimi, se ti dico che sono al sicuro. Da quando mi trovo su Eritro, sono felice. Non sono mai stata felice su Rotor.» «E perché sei felice?» chiese Genarr. «Non lo so, zio Siever. Ma quando una persona è felice, le basta questo, anche se non sa perché è felice, no?» XXXVI «Sembri stanca, Eugenia» disse Genarr. «Non fisicamente, Siever. Sono solo stanca dentro, dopo due mesi di calcoli. Non so come facessero gli astronomi del periodo prespaziale a ottenere certi risultati servendosi soltanto di computer primitivi. E pensa che, Keplero ha elaborato le leggi del moto planetario servendosi soltanto dei logaritmi, che, per sua fortuna, erano appena stati inventati.» «Scusa la mia ignoranza in materia, ma io pensavo che oggigiorno gli astronomi si limitassero a dare delle istruzioni ai loro strumenti, si coricassero tranquillamente, e, dopo qualche ora, si svegliassero e trovassero i risultati stampati in modo chiaro e ordinato sulla scrivania.» «Magari. Ma questo lavoro era diverso. Ho dovuto calcolare con la massima precisione la velocità effettiva di Nemesis rispetto al Sole, e viceversa, per sapere esattamente quale sarà la distanza minima che li separerà e quando avverrà questo passaggio ravvicinato. Il minimo errore, e il passaggio di Nemesis sarebbe sembrato innocuo per la Terra anziché devastante… e viceversa. E la situazione si complica ulteriormente perché Nemesis e il Sole non sono gli unici due corpi celesti dell’universo. Ci sono delle stelle vicine, tutte in movimento. Almeno una dozzina di queste stelle sono abbastanza grandi da esercitare una piccola influenza su Nemesis o sul Sole o su entrambi. Una piccola influenza, ma sufficiente a produrre un errore di milioni di chilometri in un senso o nell’altro, se ignorata. E per fare un lavoro accurato, bisogna conoscere con notevole precisione la massa di ogni stella, la sua posizione, la sua velocità. "È un problema complicatissimo, Siever. Nemesis attraverserà il Sistema Solare e avrà un effetto percettibile su parecchi pianeti. Molto dipende dalla posizione effettiva di ogni pianeta al passaggio di Nemesis, naturalmente, e dall’entità dello spostamento provocato dall’influsso gravitazionale di Nemesis, e da come questo spostamento inciderà sull’attrazione esercitata dal pianeta sugli altri pianeti. E, tra parentesi, bisogna calcolare anche l’effetto di Megas.» Genarr ascoltò serissimo. «E, in sostanza, quale sarà il risultato finale, Eugenia?» «Io credo che l’orbita della Terra diventerà leggermente più eccentrica e che il semiasse maggiore diventerà un po’ più piccolo.» «Il che significa?» «Il che significa che la Terra diventerà troppo calda per essere abitabile.» «E cosa accadrà a Megas e a Eritro?» «Nulla di apprezzabile. Il Sistema Nemetico è molto più piccolo del Sistema Solare e quindi è tenuto assieme da una forza coesiva maggiore. Qui non ci saranno mutamenti degni di nota, ma per la Terra sarà diverso.» «Questo, quando accadrà?» «Tra 5024 anni, con un margine di errore di quindici, Nemesis toccherà il punto di massimo avvicinamento. L’effetto si distribuirà lungo un arco di tempo di venti o trent’anni, via via che Nemesis e il Sole si avvicineranno e si allontaneranno.» «Ci saranno collisioni o qualcosa del genere?» «Le probabilità di un incidente di questo tipo sono quasi zero. No, nessuna collisione tra corpi celesti di grandi dimensioni. Naturalmente, un asteroide solare potrebbe colpire Eritro, o un asteroide nemetico potrebbe colpire la Terra. È difficilissimo che succeda, ma se dovesse accadere sarebbe un evento catastrofico per la Terra. Comunque, è impossibile calcolarlo adesso. Bisogna aspettare che le due stelle siano molto vicine.» «Ma, in ogni caso, la Terra dovrà essere evacuata, vero?» «Oh, certo.» «Ma hanno cinquemila anni di tempo per farlo.» «Cinquemila anni non sono poi tanti per organizzare l’evacuazione di otto miliardi di persone. Bisognerebbe avvertirli.» «Anche se nessuno li avverte, non lo scopriranno da soli?» «Già, ma quando? E anche se dovessero scoprirlo presto, noi dovremmo fornirgli la tecnica dell’iperassistenza. Ne avranno bisogno.» «Sono certo che ci arriveranno da soli, e tra non molto, forse.» «E se non ci arriveranno?» «Entro un secolo o meno, sicuramente, Rotor riuscirà a comunicare con la Terra. In fin dei conti, se abbiamo l’iperassistenza per il trasporto, l’avremo anche per le comunicazioni, prima o poi. Oppure manderemo una Colonia nel Sistema Solare, e la Terra avrà ancora tutto il tempo necessario per salvarsi.» «Parli come Pitt.» Genarr ridacchiò. «Be’, sai, non può avere sempre torto.» «Non vorrà comunicare. Lo so.» «E non può nemmeno fare sempre a modo suo. C’è una Cupola qui su Eritro, nonostante lui fosse contrario. E anche se in questo caso riuscirà a spuntarla, non vivrà in eterno. Dammi retta, Eugenia, non darti troppo pensiero per la Terra in questo momento. Abbiamo problemi più immediati. Marlene sa che hai quasi finito?» «Vuoi che non lo sappia? A quanto pare, capisce a che punto sono da come mi pettino o da come mi aggiusto la manica.» «Sta diventando sempre più perspicace, vero?» «Sì. L’hai notato anche tu?» «Certo. Anche se la conosco da poco.» «Immagino che in parte sia dovuto alla crescita. Forse, le doti percettive si stanno sviluppando in lei, proprio come le si sta sviluppando il seno. E poi, per moltissimo tempo Marlene ha cercato di nascondere questa sua capacità perché non sapeva che farsene, la confondeva, le causava solo dei guai. Adesso che Marlene non ha più paura, questa capacità è affiorata completamente e si sta espandendo, per così dire.» «O forse c’entra Eritro. Come dice Marlene, le piace stare qui, per qualche motivo. Forse il piacere che prova acuisce le sue percezioni.» «Ci ho pensato, Siever» disse Eugenia. «Non voglio tormentarti con le mie idee folli. In effetti, tendo a preoccuparmi troppo, per Marlene, per la Terra, per tutto… Ma… Credi che Eritro la stia influenzando? Voglio dire, negativamente? Credi che questo aumento della percettività sìa una manifestazione del Morbo?» «Non so se sia possibile rispondere a questa domanda, Eugenia, ma se l’aumento della percettività di Marlene è un effetto del Morbo, pare che l’equilibro mentale della ragazza non ne risenta affatto. E posso dirti questo… da quando siamo su Eritro, nessuna delle persone colpite dal Morbo ha mai mostrato dei sintomi che ricordassero anche lontanamente il dono di Marlene.» Eugenia Insigna sospirò. «Grazie. Le tue parole mi confortano. E grazie per essere così buono e gentile con Marlene, anche.» Genarr piegò un angolo delle labbra, abbozzando un sorrisetto. «Non mi costa nulla. Marlene mi piace moltissimo.» «Detto da te, sembra una cosa perfettamente naturale. Marlene non è una ragazza simpatica. Lo so, anche se sono sua madre.» «Io la trovo simpatica. Ho sempre preferito il cervello alla bellezza nelle donne… a meno di non potere avere entrambe le cose, come nel tuo caso, Eugenia…» «Vent’anni fa, forse» disse lei, sospirando di nuovo. «I miei occhi sono invecchiati col tuo corpo, Eugenia. Non vedono nessun cambiamento. Ma a me non importa se Marlene non è bella. È intelligentissima, indipendentemente dalla sua dote.» «Già, è vero. E la cosa mi consola, anche quando Marlene è particolarmente fastidiosa.» «Be’, quanto a questo, temo che Marlene continuerà a essere un bel fastidio, Eugenia.» Lei alzò lo sguardo di scatto. «In che senso?» «Mi ha spiegato senza mezzi termini che non le basta stare nella Cupola. Vuole uscire, vuole camminare sul suolo di Eritro non appena avrai terminato il tuo lavoro. Insiste!» Eugenia lo fissò inorridita. 18 Ultraluce XXXVII Tre anni sulla Terra avevano invecchiato Tessa. La sua pelle era diventata leggermente ruvida. Era ingrassata un po’. Sotto gli occhi cominciava ad apparire un accenno di borse e di chiazze scure. Il suo seno non era più sodo ed eretto come un tempo, e i suoi fianchi si erano appesantiti. Crile Fisher sapeva che Tessa stava avvicinandosi ai cinquanta, che aveva cinque anni più di lui. Tuttavia Tessa non dimostrava più dei suoi anni. Era ancora un bell’esemplare di donna matura (come Fisher l’aveva sentita descrivere da qualcuno), ma non sembrava più una donna al di sotto dei quaranta, a differenza di quando Crile l’aveva incontrata per la prima volta su Adelia. Anche Tessa se ne rendeva conto, e gliene aveva parlato, con amarezza, solo la settimana prima. «Sei tu, Crile» aveva detto una notte, mentre erano a letto insieme (un momento in cui, apparentemente, avvertiva con particolare intensità il proprio invecchiamento.) «La colpa è tua. Mi hai convinta a venire sulla Terra. «Magnifica», hai detto. "Enorme… Una varietà infinita. Sempre qualcosa di nuovo. Inesauribile."» «E non è vero?» aveva replicato Crile. Sapeva di cosa si lamentasse soprattutto, ma era disposto a lasciarla sfogare un’altra volta. «Non per quanto riguarda la gravità. In qualsiasi parte di questo pianeta spropositato e impossibile, avete la stessa attrazione gravitazionale. Su in aria, giù in una miniera, qui, là, dappertutto, gravità uno… un G… un G. Dovreste morire tutti di noia.» «Non conosciamo nient’altro, Tessa.» «Tu, sì. Sei stato sulle Colonie, tu. Là, puoi scegliere l’attrazione gravitazionale che preferisci. Puoi fare ginnastica in condizioni di bassa gravità. Puoi alleviare lo sforzo e il logorio dei tessuti, di tanto in tanto. Come potete vivere senza?» «Facciamo ginnastica anche qui sulla Terra.» «Oh, per favore! Lo fate con questa attrazione continua che vi tira giù. Passate tutto il vostro tempo lottando contro la gravità invece di lasciare che i vostri muscoli interagiscano. Non potete saltare, non potete volare, non potete librarvi. Non potete lasciarvi cadere, catturare da un’attrazione maggiore, e nemmeno salire verso una gravità più bassa. E questa forza trascina verso il basso ogni parte del vostro corpo, così vi afflosciate, raggrinzite, invecchiate. Guardami! Guardami!» «Ti guardo il più spesso possibile» aveva replicato solenne Fisher. «Non guardarmi, allora. O mi abbandonerai. E se mi abbandonerai, io tornerò su Adelia.» «No, non tornerai su Adelia. Cosa farai là, dopo la ginnastica in condizioni di bassa gravità? Il tuo lavoro di ricerca, i tuoi laboratori, la tua equipe, sono qui.» «Ricomincerò da capo e creerò una nuova equipe.» «E Adelia ti darà il tipo di appoggio a cui ormai ti sei abituata? No, naturalmente. Devi ammettere che la Terra non ti nega nulla, soddisfa ogni tua richiesta. Non avevo ragione?» «Non avevi ragione? Traditore! Non mi hai detto che la Terra aveva l’iperassistenza. E non mi hai detto nemmeno che avevano scoperto la Stella Vicina. Infatti, hai lasciato che mi esprimessi in termini magniloquenti sull’inutilità della Sonda Remota di Rotor… mai una volta che tu mi abbia detto che la Sonda Remota non aveva rilevato solo qualche parallasse. Sei rimasto lì a ridere di me, da quel perfetto mascalzone senza cuore che sei.» «Te lo avrei detto, Tessa… ma se tu avessi deciso di non venire sulla Terra? Non stava a me rivelarti quel segreto.» «Ma dopo, quando sono venuta sulla Terra?» «Non appena hai cominciato a lavorare, a lavorare sul serio, te lo abbiamo detto.» «Loro me l’hanno detto, e io sono rimasta frastornata, mi sono sentita una sciocca. Avresti potuto accennarmi almeno qualcosa, un piccolo indizio, così avrei evitato quella figura idiota. Avrei dovuto ucciderti, ma che potevo fare? Dai assuefazione, tu. E lo sapevi quando mi hai sedotta senza alcuna pietà, convincendomi a venire sulla Terra.» Era un gioco a cui Tessa non sapeva rinunciare, e Fisher conosceva il proprio ruolo. «Ti ho sedotta? Sei stata tu a insistere. Non ho avuto scelta.» «Bugiardo. Ti sei imposto… me l’hai imposto. È stata violenza carnale… un atto disonesto e subdolo. E lo farai ancora. Lo leggo in quei tuoi occhi tremendi e libidinosi.» Erano trascorsi alcuni mesi da quando Tessa si era divertita con quel gioco particolare, e Fisher sapeva che lo faceva quando era soddisfatta professionalmente. «Qualche progresso?» le chiese poi. «Qualche progresso? Direi proprio di sì» rispose Tessa, ansimando. «Domani quel vecchio terrestre cadente di Tanayama assisterà a una dimostrazione che ho allestito per lui. Ha continuato a insistere, a martellarmi spietatamente.» «È un tipo spietato.» «È uno stupido. Anche se una società non conosce la scienza, in teoria dovrebbe almeno sapere qualcosa della scienza, di come funziona. Se ti danno un milione di crediti mondiali al mattino, non dovrebbero pretendere dei risultati concreti entro la sera dello stesso giorno. Come minimo, dovrebbero aspettare fino alla mattina dopo, concederti tutta la notte per lavorare. Sai cosa mi ha detto Tanayama l’ultima volta che abbiamo parlato, quando gli ho annunciato che forse avevo qualcosa da mostrargli?» «No. Sentiamo.» «A rigor di logica, avrebbe dovuto dire: "È sorprendente che in soli tre anni abbia elaborato una cosa così straordinaria e nuova. I suoi meriti sono enormi, e la nostra gratitudine è smisurata". Ecco cosa mi sarei aspettata da lui.» «Da Tanayama? Mai! Non direbbe mai una cosa simile. Comunque, che ha detto?» «Ha detto: "Ah, finalmente ha qualcosa, dopo tre anni. Era ora, lo speravo proprio. Crede che io possa vivere in eterno? Pensa che l’abbia finanziata e abbia mantenuto lei e il suo esercito di assistenti e di operai perché ottenesse dei risultati quando sarò morto e non potrò vedere nulla?". Ecco quel che ha detto, e ti confesso che mi piacerebbe rimandare la dimostrazione fino alla sua morte, per soddisfazione personale. Ma immagino che il lavoro abbia la precedenza.» «Hai davvero qualcosa di interessante per lui?» «Solo il volo ultraluce. Il vero volo ultraluce, non quella sciocchezza dell’iperassistenza. Adesso abbiamo qualcosa che ci aprirà la porta dell’universo.» XXXVIII Il luogo dove l’equipe di Tessa Wendel era al lavoro, decisa a scuotere l’universo, era stato preparato ancor prima che Tessa fosse reclutata e si trasferisse sulla Terra. Si trovava all’interno di una rocca montuosa inaccessibile alla brulicante popolazione terrestre; lì era stata costruita una vera e propria cittadella scientifica. Ora era sul posto anche Tanayama, seduto su una carrozzella motorizzata. Solo i suoi occhi, dietro le palpebre socchiuse, sembravano vivi… penetranti, mobilissimi. Tanayama non era assolutamente la più alta personalità del governo terrestre, e nemmeno la più alta personalità presente, ma era stato, ed era tuttora, la forza propulsiva alla base del progetto, e tutti automaticamente gli cedevano il passo. Solo Tessa Wendel non sembrava intimidita. La voce di Tanayama era un sussurro frusciante. «Cosa vedrò, dottoressa? Una nave?» Non si vedeva nessuna nave lì intorno, naturalmente. «Niente navi, Direttore» rispose Tessa. «Per le navi, bisognerà aspettare ancora qualche anno. Ho solo una dimostrazione, ma eccitante. Assisterà alla prima dimostrazione pubblica di vero volo ultraluce, qualcosa che supera di gran lunga l’iperassistenza.» «E come farò a vederlo?» «Credevo l’avessero informata, Direttore.» Tanayama ebbe un accesso violento di tosse e dovette riprendere fiato. «Hanno provato a parlarmi, ma io voglio sentirlo da lei» disse poi, fissandola con un’espressione dura e sinistra. «È lei che comanda qui. Il progetto è suo. Mi spieghi.» «Non posso spiegarle la teoria. Ci vorrebbe troppo tempo. La stancherei.» «Non m’interessa la teoria. Cosa vedrò?» «Vedrà due contenitori cubici di vetro. All’interno di entrambi c’è il vuoto spinto.» «Perché il vuoto?» «Il volo ultraluce può iniziare solo nel vuoto, Direttore. Altrimenti l’oggetto spinto a una velocità superiore a quella della luce trascina con sé della materia, i consumi energetici aumentano e diminuisce la controllabilità. E deve anche finire nel vuoto, altrimenti le conseguenze potrebbero essere catastrofiche perché…» «Lasci perdere il perché. Se questo suo volo ultraluce deve iniziare e terminare nel vuoto, come lo utilizziamo, noi?» «Prima è necessario raggiungere lo spazio esterno col volo normale, per poi passare nell’iperspazio e restarci. Si arriva vicino alla destinazione desiderata e si rientra nello spazio normale, quindi col volo normale si percorre l’ultimo tratto.» «Così ci vuole tempo.» «Nemmeno il volo ultraluce consente spostamenti istantanei. Ma se si può raggiungere una stella a quaranta anni luce dal Sistema Solare in quaranta giorni anziché in quarant’anni, be’, non mi pare giusto lamentarsi del tempo impiegato.» «D’accordo, d’accordo… Ci sono questi due contenitori cubici di vetro. E allora?» «Sono proiezioni olografiche. In realtà, i contenitori sono separati da una distanza di tremila chilometri, tremila chilometri di massa terrestre, si trovano ognuno in un posto sicuro e isolato tra i monti. Se la luce potesse viaggiare da un contenitore all’altro attraverso un vuoto senza ostacoli, impiegherebbe un millesimo di secondo, un millisecondo, per compiere il passaggio. Noi non useremo la luce, naturalmente. Sospesa al centro del cubo di sinistra, trattenuta da un potente campo magnetico, c’è una piccola sfera, che in realtà è un minuscolo motore iperatomico. Vede, Direttore?» «Vedo qualcosa, là» rispose Tanayama. «Be’, tutto qui?» «Se osserva attentamente, vedrà scomparire la sfera. Il conto alla rovescia sta procedendo.» Era un sussurro all’orecchio di tutti i presenti, e allo zero la sfera sparì da un cubo e apparve nell’altro. «Ricordi» disse la Wendel. «Tra quei cubi in realtà ci sono tremila chilometri di distanza. Il dispositivo di cronometraggio indica che, tra la partenza e l’arrivo, sono trascorsi poco più di dieci microsecondi, il che significa che il passaggio è avvenuto a una velocità quasi cento volte superiore a quella della luce.» Tanayama alzò lo sguardo. «E chi mi dice che sia così? Potrebbe essere tutto un trucco per imbrogliare quello che lei ritiene un vecchio ingenuo.» «Direttore» disse la Wendel severa. «Ci sono centinaia di scienziati qui, tutti famosi e stimati, e alcuni di loro sono terrestri. Le mostreranno qualsiasi cosa voglia vedere, le spiegheranno come funzionano gli strumenti. Qui non troverà altro che della scienza onesta e del lavoro scrupoloso.» «Anche se è come dice lei, che significa? Una pallina… una pallina da pingpong che percorre qualche migliaio di chilometri. È questo il risultato che ha ottenuto dopo tre anni?» «Forse quello che ha visto è più di quanto fosse lecito aspettarsi, Direttore, con rispetto parlando. Quello che ha visto avrà anche le dimensioni di una pallina da pingpong spostatasi di appena tremila chilometri, però è il vero volo ultraluce, proprio come se avessimo inviato un’astronave da qui ad Arturo a cento volte la velocità della luce. Lei ha assistito alla prima dimostrazione pubblica di volo ultraluce della storia umana.» «Ma è l’astronave che voglio vedere.» «Per quella dovrà aspettare.» «Non ho tempo. Non ho tempo» gracchiò Tanayama in un sussurro rauco, e fu scosso di nuovo da un accesso di tosse. «Nemmeno la tua volontà può muovere l’universo» disse Tessa Wendel sottovoce, e forse solo Tanayama sentì quelle parole. XXXIX A Iper City (nome non ufficiale del centro di ricerca) i tre giorni dedicati ai burocrati erano passati in modo opprimente, e adesso gli intrusi se n’erano andati. «In ogni caso, ci vorranno ancora due o tre giorni per riprendersi e tornare al lavoro a pieno ritmo» disse Tessa Wendel a Crile Fisher. E, l’aria disfatta e contrariata, aggiunse: «Che vecchio spregevole!» Fisher capì immediatamente che si riferiva a Tanayama. «È un vecchio ammalato.» Tessa gli lanciò un’occhiata rabbiosa. «Lo difendi?» «Sto solo affermando un dato di fatto.» Lei alzò un dito ammonitore. «Sicuramente quel miserabile relitto umano era irrazionale e irragionevole anche in passato, quando non era ammalato, o quando non era vecchio, se è per questo. Da quanto tempo è Direttore dell’Ufficio?» «Da oltre trent’anni. Tanayama è un’istituzione. E prima è stato Vicedirettore per un periodo di tempo quasi altrettanto lungo, e probabilmente anche allora era lui il vero capo e i tre o quattro Direttori che l’hanno preceduto avevano solo un potere simbolico. E per quanto possa invecchiare o ammalarsi in modo sempre più grave, rimarrà Direttore fino al giorno della sua morte… e forse ancora per qualche giorno, in seguito, mentre la gente aspetterà, per assicurarsi che non risorga.» «Mi pare di capire che lo trovi divertente.» «No, ma non si può far altro che ridere di fronte a uno spettacolo del genere… a un uomo che, senza gestire apertamente il potere, senza essere noto al grande pubblico, da quasi mezzo secolo tiene in soggezione i membri del governo, li fa vivere nella paura, solo perché controlla saldamente i segreti scomodi e compromettenti di ognuno e non esiterebbe a servirsene.» «E loro lo sopportano?» «Oh, certo. Nessun membro del governo è mai stato disposto a sacrificare con certezza la propria carriera senza avere alcuna garanzia di rovesciare Tanayama.» «Nemmeno adesso che la sua autorità sta diventando senza dubbio più debole?» «Ti sbagli. La sua autorità cesserà con la morte, magari, però fino a quel momento non sarà mai debole. Sarà l’ultima cosa che verrà a mancare, dopo che il suo cuore si sarà fermato.» «Cos’è che spinge la gente a certi estremi?» chiese Tessa disgustata. «Non sentono il desiderio di lasciar perdere tutto prima della fine, per avere la possibilità di morire in pace?» «Non Tanayama. Mai. Non dico di essere un suo intimo, però in una quindicina d’anni di tanto in tanto ho avuto dei contatti con lui, che immancabilmente si sono risolti in modo molto sgradevole e doloroso per il sottoscritto. L’ho conosciuto quand’era ancora pieno di vigore, e ho sempre saputo che non si sarebbe mai tirato indietro. Per rispondere alla tua domanda precedente, la gente è spinta da stimoli diversi, ma la molla di Tanayama è l’odio.» «Già, prevedibile» osservò Tessa Wendel. «Si vede. Una persona così odiosa non può non odiare. Ma chi odia, Tanayama?» «Le Colonie.» «Ah, davvero?» Evidentemente, Tessa stava ricordandosi di essere una colona di Adelia. «Neanch’io ho mai sentito una parola buona per la Terra da un colono. E sai cosa penso dei posti privi di gravità variabile.» «Non sto parlando di antipatia, o di disprezzo, o di disgusto, Tessa. Parlo di odio cieco, assoluto. Quasi tutti i terrestri detestano le Colonie. Hanno tutte le ultime novità. Sono tranquille, poco affollate, comode, borghesi. Hanno cibo e svaghi in abbondanza, non sanno cosa sia il maltempo, la povertà. Hanno i robot, che operano con discrezione, nascosti. È naturale che quelli che si sentono privati di tutto questo detestino chi invece ha tutto a disposizione. Ma nel caso di Tanayama, si tratta di un odio concreto, travolgente. Secondo me, gli piacerebbe vedere le Colonie distrutte, dalla prima all’ultima.» «Perché, Crile?» «Le cose che ho elencato prima non c’entrano, a mio avviso. Quello che Tanayama non sopporta è l’omogeneità culturale delle Colonie. Capisci?» «No.» «Gli abitanti delle Colonie si scelgono. Scelgono persone come loro. Su ogni Colonia c’è una cultura comune, perfino un aspetto fisico comune, in parte. Invece la Terra è sempre stata un miscuglio caotico di culture, che si integrano a vicenda, che competono tra loro, che diffidano l’una dell’altra. Tanayama e molti altri terrestri, me compreso, pensano che questa mescolanza sia una fonte di forza, e che la omogeneità culturale delle Colonie le indebolisca e, a lungo andare, riduca il loro arco di vita potenziale.» «Allora, perché odiare le Colonie per questo fatto? Lo considerate uno svantaggio, no? Tanayama ci odia perché stiamo meglio e perché stiamo peggio? Non ha senso.» «Non è necessario che abbia senso. Nessuno si prenderebbe la briga di odiare se prima si dovesse fare un ragionamento logico per giustificare l’odio. Forse, e dico forse, Tanayama ha paura che le Colonie riescano troppo bene e dimostrino che l’omogeneità culturale è un fattore positivo in fin dei conti. O forse pensa che le Colonie siano ansiose di distruggere la Terra, come lui è ansioso di distruggere le Colonie. La faccenda della Stella Vicina lo ha reso furioso.» «Il fatto che Rotor abbia scoperto la stella e non abbia informato nessuno?» «I rotoriani non si sono limitati a questo. Non si sono scomodati ad avvertirci che la stella stava dirigendosi verso il Sistema Solare, soprattutto.» «Può darsi che non lo sapessero.» «Tanayama non ci crederà mai. Secondo me, lui è convinto che lo sapessero e che non ci abbiano avvisati apposta, perché speravano che così saremmo stati colti alla sprovvista, e la Terra, o almeno la civiltà terrestre, sarebbe stata distrutta.» «Sono sicuri che la stella si avvicinerà abbastanza da danneggiarci? Io non ho sentito niente del genere. A quanto mi risulta, la maggior parte degli astronomi ritengono che passerà abbastanza lontano e che a noi in pratica non accadrà nulla. Tu hai sentito qualche altra ipotesi?» «No. Ma penso che a Tanayama faccia comodo credere che esista una situazione di pericolo… serve ad alimentare il suo odio. E a questo punto, si passa logicamente all’idea del volo ultraluce come mezzo indispensabile per individuare in qualche altro angolo dello spazio un pianeta di tipo terrestre. Una volta trovato il nuovo mondo, potremo trasferire là il maggior numero possibile di abitanti della Terra… nel peggiore dei casi. Devi ammettere che in questo non c’è nulla di insensato.» «D’accordo. Però non c’è bisogno di immaginare un’eventuale catastrofe. È del tutto naturale pensare all’espansione dell’umanità, anche se la Terra non correrà alcun rischio. Ci siamo staccati dalla Terra creando le Colonie, e le stelle rappresentano la tappa successiva, l’obiettivo logico, e per raggiungerlo ci occorre il volo ultraluce.» «Già, ma in questi termini la cosa sarebbe poco entusiasmante per Tanayama. La colonizzazione della Galassia non gli interessa, ne sono sicuro… la lascia volentieri alle generazioni future. Lui vuole trovare Rotor e punirlo per avere abbandonato il Sistema Solare infischiandosene del resto del genere umano. E vuole essere ancora in vita quando arriverà il giorno fatidico, ed è per questo che ti tiene continuamente sotto pressione.» «Può tenermi sotto pressione finché gli pare, tanto non gli servirà a nulla. Sta morendo.» «Mah… La medicina moderna può fare miracoli, e sono certo che i dottori si impegneranno al massimo per Tanayama.» «Anche la medicina moderna ha dei limiti. Ho chiesto ai dottori…» «E ti hanno risposto? Credevo che le condizioni di salute di Tanayama fossero un segreto di stato.» «Non per me, date le circostanze, Crile. Sono andata dall’equipe medica che ha curato il Vecchio quand’era qui, e ho detto che ero ansiosa di costruire una nave che permettesse agli esseri umani di raggiungere le stelle, e che volevo farlo prima della morte di Tanayama. Ho chiesto quanto tempo mi rimanesse.» «E cos’hanno risposto?» «Un anno. Un anno, al massimo. Hanno detto di sbrigarmi.» «Puoi riuscirci in un anno?» «In un anno? No, assolutamente, Crile, e sono contenta. Mi fa piacere che quel perfido individuo non vivrà abbastanza da vedere realizzato il suo sogno. Perché quella smorfia, Crile? Ti da fastidio che io faccia un’osservazione così crudele?» «Un’osservazione meschina, ad ogni modo, Tessa. Quel Vecchio, per quanto perfido, è l’artefice di tutto questo. Ha reso possibile Iper City.» «Sì, ma l’ha fatto per i suoi scopi, non per i miei, e nemmeno per la Terra o per l’umanità. E poi ho diritto anch’io alla mia meschinità. Sicuramente Tanayama non ha mai avuto pietà di quelli che considerava suoi nemici, né ha mai ridotto di un grammo la pressione del piede che teneva sulla gola del nemico. E immagino che non si aspetti pietà o compassione da nessun altro. Probabilmente, se qualcuno lo compatisse o avesse pietà, Tanayama lo disprezzerebbe, considerandolo un debole.» Fisher aveva ancora un’aria infelice. «Quanto ci vorrà, Tessa?» «E chi può dirlo? Un’eternità, forse. Anche se tutto procederà discretamente, credo proprio che ci vorranno almeno cinque anni.» «Ma perché? Hai già il volo ultraluce.» Tessa Wendel si sedette bene, la schiena eretta. «No, Crile. Non essere ingenuo. Ho soltanto una dimostrazione di laboratorio. Posso prendere un oggetto leggero, come una pallina da pingpong, la cui massa è costituita al novanta per cento da un minuscolo motore iperatomico, e farlo muovere a velocità ultraluce. Ma una nave con degli esseri umani a bordo è un discorso completamente diverso. Dovremo essere sicuri di quel che facciamo, e per avere delle basi solide cinque anni sono un’ipotesi ottimistica. Se non avessimo questi computer moderni che consentono simulazioni di altissimo livello, cinque anni sarebbero un sogno irrealizzabile. Magari, anche cinquanta.» Crile Fisher scosse la testa e non disse nulla. Tessa Wendel lo osservò pensosa poi, in tono quasi stizzito, chiese: «Che ti prende? Hai tanta fretta anche tu?» Fisher rispose pacato: «Sicuramente sei ansiosa quanto gli altri di portare a termine il progetto, ma io non vedo l’ora che venga costruita una nave iperspaziale in grado di funzionare». «Tu, in modo particolare?» «Sì.» «Perché?» «Mi piacerebbe raggiungere la Stella Vicina.» Tessa lo fissò in cagnesco. «Perché? Sogni di riunirti alla moglie che hai abbandonato?» Fisher non aveva mai parlato di Eugenia con Tessa Wendel, a parte qualche accenno superficiale, e non aveva intenzione di lasciarsi attirare proprio adesso in una discussione del genere. «Ho una figlia, là» disse. «Penso che tu possa capire la situazione, Tessa. Hai un figlio.» Era vero. La Wendel aveva un figlio di poco più di vent’anni, che frequentava l’università su Adelia e di tanto in tanto scriveva alla madre. L’espressione di Tessa si addolcì. «Crile, non farti illusioni pericolose. D’accordo, i rotoriani sapevano della Stella Vicina, quindi è là che sono andati, te lo concedo. Però, solo con l’iperassistenza, il viaggio dev’essere durato oltre due anni. Non possiamo essere sicuri che siano sopravvissuti a un viaggio del genere. E anche se fossero sopravvissuti, le probabilità di trovare un pianeta adatto all’uomo attorno a una nana rossa sono praticamente nulle. Arrivati alla Stella Vicina, quindi, può darsi che abbiano continuato il viaggio, in cerca di un pianeta abitabile. Andando dove? E come faremmo a trovarli?» «Immagino che sapessero che non avrebbero trovato un pianeta adatto attorno alla Stella Vicina. Per cui, è probabile che intendessero semplicemente restare in orbita con Rotor attorno alla stella, no?» «Anche se fossero sopravvissuti al viaggio e fossero entrati in orbita attorno alla stella, sarebbe una vita sterile la loro, forse incompatibile con i modelli civili a lungo andare. Crile, devi prepararti al peggio. E se riuscissimo a organizzare la spedizione e una volta raggiunta la stella non trovassimo nulla, o trovassimo al massimo il relitto vuoto di Rotor?» «In tal caso, amen. Ma è senz’altro possibile che siano sopravvissuti.» «E che tu trovi tua figlia? Crile, caro, è prudente basare le tue speranze su così poco? Ammettiamo che Rotor sia sopravvissuto, che tua figlia sia sopravvissuta… lei aveva appena un anno quando l’hai lasciata, nel ‘22. Se apparisse di fronte a te adesso, avrebbe dieci anni, e se raggiungessimo la Stella Vicina al più presto, mettendo a punto la nave in cinque anni, tua figlia avrebbe quindici anni. Non ti riconoscerebbe. E tu non la riconosceresti.» «Dieci anni, o quindici, o cinquanta… non ha importanza. Se la vedessi, Tessa, la riconoscerei» disse Fisher. 19 Permanenza XL Marlene sorrise esitante a Siever Genarr. Si era abituata a entrare nel suo ufficio a proprio piacimento. «Disturbo? Sei impegnato, zio Siever?» «No, cara, in realtà questo non è un lavoro impegnativo. È stato ideato apposta perché Pitt potesse liberarsi di me, e io l’ho accettato e l’ho tenuto per liberarmi di Pitt. Non lo confesserei a nessuno, ma sono costretto a dirti la verità dal momento che tu riconosci sempre le bugie.» «Questo ti spaventa, zio Siever? Ha spaventato il Commissario Pitt, e avrebbe spaventato Aurinel… se gli avessi mostrato le mie capacità.» «No, non mi spaventa, Marlene, perché mi sono rassegnato. Ho deciso che sono fatto di vetro, per te. Se devo essere sincero, la cosa è riposante. A pensarci bene, mentire è faticoso. Se la gente fosse davvero pigra, non mentirebbe mai.» Marlene sorrise di nuovo. «È per questo che ti piaccio? Perché ti permetto di essere pigro?» «Non riesci a capirlo?» «No. Capisco che ti piaccio, però non sono in grado di comprendere il perché. Dal tuo comportamento, è chiaro che ti piaccio, ma il motivo è nascosto nella tua mente, e al massimo riesco ad avere qualche sensazione vaga, a volte. Lì dentro non posso penetrare.» Marlene rifletté un attimo. «A volte mi piacerebbe poterlo fare.» «No, è meglio così, dovresti essere contenta. Le menti sono posti sporchi, umidi, sgradevoli.» «Perché dici questo, zio Siever?» «Per esperienza. Non ho la tua dote naturale, però sto in mezzo alla gente da molto più tempo di te. Ti piace l’interno della tua mente, Marlene?» Marlene parve sorpresa. «Non so. Perché non dovrebbe piacermi?» «Ti piace tutto quello che pensi? Tutto quello che immagini? Ogni tuo impulso? Sii sincera. Anche se non posso leggerti in faccia, sii sincera.» «Be’, certe volte penso delle cose sciocche, o cattive. Certe volte mi arrabbio e penso di fare delle cose che in realtà non farei. Ma non capita spesso.» «Non capita spesso? Non dimenticare che sei abituata alla tua mente. Non l’avverti quasi. È come i vestiti che porti. Non senti il loro contatto, talmente sei abituata a indossarli. I capelli ti scendono sulla nuca, arricciandosi, ma non te ne accorgi. Se i capelli di qualcun altro ti toccassero la nuca, il prurito sarebbe insopportabile. La mente di qualcun altro potrebbe contenere dei pensieri per niente peggiori dei tuoi, ma sarebbero i pensieri di un altro e non ti piacerebbero. Per esempio, potrebbe non piacerti la simpatia che ho per te… se sapessi perché mi piaci. È molto meglio accettare il fatto che tu mi piaci così com’è, e basta, senza cercare le ragioni nella mia mente.» La domanda di Marlene fu inevitabile. «Perché? Quali sono le ragioni?» «Be’, mi piaci perché una volta ero come te.» «Cosa intendi dire?» «No, non ero una signorina con degli occhi splendidi e delle doti percettive insolite. Voglio dire che ero giovane, sentivo di non essere bello e sentivo che tutti mi detestavano per questo. E sapevo di essere intelligente, e non capivo perché gli altri non mi apprezzassero per la mia intelligenza. Mi sembrava ingiusto… mi disprezzavano per una qualità negativa e ignoravano una qualità positiva. Ero ferito, arrabbiato, Marlene, e ho deciso che non avrei mai trattato gli altri come gli altri trattavano me, ma non ho avuto molte occasioni per mettere in pratica i miei buoni propositi. Poi ho conosciuto te, e avevamo delle cose in comune. Io ero molto più brutto di te, e tu sei molto più intelligente, ma non mi dispiace che tu sia migliore di me.» Genarr fece un ampio sorriso. «È come se avesssi un’altra possibilità, una nuova opportunità… con dei vantaggi. Ma… basta. Non credo che tu sia venuta qui per parlarmi di questo. Non avrò la tua perspicacia, però fin qui ci arrivo.» «Ecco, si tratta di mia madre.» «Oh?» Genarr aggrottò le ciglia, e di colpo il suo interesse aumentò in modo evidente. «Sì?» «In pratica, ha ultimato il suo progetto, lo sai. Se tornerà su Rotor, vorrà che anch’io torni con lei. Devo proprio?» «Penso di sì. Non vuoi andare?» «No, zio Siever. Sento che è importante che io rimanga qui. Quindi dovresti fare una cosa: dire al Commissario Pitt che ti piacerebbe tenerci qui. Puoi inventare una scusa convincente. E il Commissario, ne sono certa, sarà felicissimo di lasciarci su Eritro, soprattutto se gli spiegherai che la mamma ha scoperto che Nemesis distruggerà la Terra.» «Ti ha detto questo, Marlene?» «No, non mi ha detto nulla, ma non era necessario. Puoi spiegare al Commissario che la mamma probabilmente lo seccherà in continuazione, insistendo che bisogna avvertire il Sistema Solare.» «Non hai pensato che Pitt non sarà tanto ansioso di accontentarmi? Se avrà l’impressione che io voglia tenere voi due qui nella Cupola, c’è il rischio che vi ordini di tornare su Rotor solo per contrariarmi.» «Sono sicurissima che il Commissario preferirà fare un favore a se stesso tenendoci qui, piuttosto che contrariarti richiamandoci su Rotor. E poi, tu vuoi che mia madre stia qui, perché… le vuoi bene.» «Molto. Da una vita, a quanto pare. Ma lei non vuole bene a me. Tempo fa mi hai detto che tuo padre occupa ancora i suoi pensieri.» «Le piaci sempre più, zio Siever. Le piaci moltissimo.» «Simpatia e amore sono due cose diverse, Marlene. Immagino che tu l’abbia già scoperto.» Marlene arrossì. «Sto parlando delle persone anziane.» «Come me.» Genarr piegò la testa all’indietro e rise. «Scusa, Marlene» disse poi. «Il fatto è che i vecchi pensano sempre che i giovani in realtà non sappiano nulla dell’amore; e i giovani pensano che i vecchi l’abbiano dimenticato; e, sai, si sbagliano entrambi. Perché pensi che sia importante restare nella Cupola di Eritro, Marlene? Non solo perché ti piaccio, sicuramente.» «Certo che mi piaci» fece seria Marlene. «Moltissimo. Ma voglio rimanere qui perché mi piace Eritro.» «Ti ho spiegato che è un mondo pericoloso.» «Non per me.» «Sei ancora sicura che il Morbo non ti colpirà?» «Certo che non mi colpirà.» «Ma come fai a saperlo?» «Lo so, e basta. L’ho sempre saputo, anche quando ero su Rotor. Non avevo alcun motivo di temere…» «Già, ma dopo avere saputo del Morbo?» «Non è cambiato nulla. Qui mi sento perfettamente al sicuro. Ancor più che su Rotor.» Genarr scosse la testa lentamente. «Devo ammettere che non capisco.» Studiò il volto solenne della ragazza, i suoi occhi scuri seminascosti da quelle splendide ciglia. «Comunque, vediamo se riesco a interpretare il tuo linguaggio corporeo, Marlene. Sei decisa a fare a modo tuo, a qualsiasi costo, e a rimanere su Eritro.» «Sì» rispose asciutta Marlene. «E conto sul tuo aiuto.» XLI Eugenia Insigna fremeva di rabbia. Non alzò la voce, ma il tono era veemente. «Non può farlo, Siever.» «Può, eccome, Eugenia» disse Genarr, pacato. «È il Commissario.» «Ma non è un sovrano assoluto. Ho i miei diritti civili, e tra questi c’è la libertà di movimento.» «Se il Commissario vuole dichiarare lo stato di emergenza, o generale, o limitato a un’unica persona, i diritti civili sono sospesi. Più o meno, è questo il succo della Legge Speciale del ‘24.» «Ma è una presa in giro delle leggi e delle tradizioni esistenti su Rotor fin dalla sua fondazione.» «Sono d’accordo.» «E se protesterò pubblicamente, Pitt si ritroverà…» «Eugenia, per favore, ascoltami. Lascia perdere. Per il momento, perché tu e Marlene non rimanete semplicemente qui? Siete le benvenute.» «Che stai dicendo? Questo equivale all’incarcerazione senza accusa, senza processo, senza verdetto. Siamo costrette a restare su Eritro per un periodo di tempo indeterminato in seguito alla decisione arbitraria e inappellabile di…» «Per favore, fallo senza protestare. Sarà meglio.» «Meglio, come?» disse Eugenia, sprezzante. «Perché tua figlia desidera moltissimo che tu lo faccia.» Eugenia rimase interdetta. «Marlene?» «La scorsa settimana è venuta da me suggerendomi di manovrare Pitt perché vi ordinasse di restare su Eritro.» Eugenia accennò ad alzarsi dalla sedia, colma di indignazione. «E tu l’hai fatto?» Genarr scosse energicamente la testa. «No. Adesso ascoltami. Io ho semplicemente comunicato a Pitt che il tuo lavoro qui era terminato e che non sapevo di preciso se intendesse farti tornare su Rotor con Marlene o se volesse farvi rimanere qui. Un messaggio assolutamente neutro. L’ho mostrato a Marlene prima di inviarglielo, e lei era soddisfatta. Ha detto, testuali parole: "Se gli darai la possibilità di scelta, ci terrà qui". E a quanto pare, Pitt lo sta facendo.» Eugenia si abbandonò sulla sedia. «Siever, stai seguendo davvero i consigli di una quindicenne?» «Per me Marlene non è solo una quindicenne. Ma dimmi… perché sei così ansiosa di tornare su Rotor?» «Il mio lavoro…» «Non esiste. Niente lavoro se Pitt non ti vuole. E anche se ti lasciasse tornare, verresti sostituita. Qui, invece, ci sono delle apparecchiature che puoi usare… che hai usato. In fin dei conti, sei venuta qui perché Rotor non ti consentiva un certo tipo di lavoro.» «Il lavoro non ha importanza!» strillò Eugenia, cominciando a contraddirsi. «Non capisci che voglio tornare su Rotor per lo stesso motivo per cui Pitt vuole tenermi qui? Vuole distruggere Marlene. Se prima di partire avessi saputo di questo Morbo di Eritro, non saremmo mai venute. Non posso mettere a repentaglio la mente di Marlene.» «La mente di Marlene è l’ultima cosa che metterei a repentaglio» disse Genarr. «Preferirei rischiare la vita.» «Ma la sua mente è in pericolo se stiamo qui.» «Marlene è convinta di no.» «Marlene! Marlene! Sembra che la consideri una dea. Che ne sa, lei?» «Ascolta, Eugenia. Ragioniamo. Se la situazione sembrasse davvero pericolosa per Marlene, in qualche modo vi farei tornare su Rotor. Ma ascoltami, prima. Marlene non ha tendenze megalomani, giusto?» Eugenia tremava. Non si era ancora calmata. «Non so di cosa parli.» «È incline alle affermazioni grandiose, alle asserzioni fantastiche, chiaramente assurde?» «Certo che no. È molto assennata… Perché queste domande? Lo sai che le sue affermazioni si basano sempre…» «Su un fondamento concreto. Lo so. Non si è mai vantata della sua percettività. Sono state le circostanze, più o meno, a farla emergere.» «Sì… ma dove vuoi arrivare?» Genarr proseguì tranquillo. «Non ha mai sostenuto di possedere strani poteri intuitivi? Non si è mai dichiarata certa che una data cosa sarebbe sicuramente successa, o non sarebbe successa, solo perché lei ne aveva la certezza?» «No, assolutamente. Marlene si attiene ai fatti, alle prove concrete. Non fa affermazioni campate in aria.» «Eppure in questo caso, forse solo in questo caso, lo fa. È sicura che il Morbo non possa danneggiarla. Sostiene di avere provato questa sicurezza assoluta, questa certezza che Eritro sia innocuo per lei, perfino su Rotor, e dice che è aumentata ora che si trova nella Cupola. È decisa, decisissima, a rimanere qui.» Eugenia spalancò gli occhi, portò una mano alla bocca ed emise un gemito inarticolato. «Ma… allora…» balbettò. E s’interruppe, rimanendo a fissare Genarr. «Sì?» chiese lui, di colpo allarmato. «Non capisci? È il Morbo che si sta manifestando, no? La sua personalità sta cambiando. La sua mente ne sta già risentendo.» Genarr restò impietrito per un attimo, paralizzato da quel pensiero. «No, impossibile» disse poi. «Nei casi di Morbo che abbiamo avuto, non si è mai riscontrato un fenomeno del genere.» «La sua mente è diversa da quelle degli altri. Saranno diversi anche i sintomi.» «No» ripeté Genarr, disperato. «Non posso crederci. Mi rifiuto di crederci. Secondo me, se Marlene dice di essere certa della propria immunità, vuol dire che è immune, e la sua immunità ci aiuterà a risolvere l’enigma del Morbo.» Eugenia impallidì. «È per questo che la vuoi qui su Eritro, Siever? Per usarla come uno strumento contro il Morbo?» «No. Non voglio che stia qui solo per servirmi di lei. Tuttavia, Marlene vuole rimanere, e potrebbe essere uno strumento utile, indipendentemente dalla nostra volontà.» «E solo perché lei vuole rimanere su Eritro, tu sei disposto a permetterglielo? Solo perché vuole restare per un desiderio perverso che non è in grado di spiegare, e in cui noi due non riusciamo a scorgere un briciolo di logica? Pensi seriamente che dovremmo permetterle di rimanere qui semplicemente perché lei lo desidera? Hai il coraggio di dirmelo?» «Se devo essere sincero, sono tentato in questo senso» ammise Genarr, con una certa difficoltà. «Facile, per te. Non è tua figlia. È mia figlia. È l’unica cosa…» «Lo so. È l’unica cosa che ti rimanga di… Crile. Non fissarmi così. So che non hai mai superato la tua perdita. Capisco quel che provi.» Genarr pronunciò l’ultima frase sottovoce, con dolcezza; sembrava che volesse tendere la mano e toccare la testa china di Eugenia. «Comunque, Eugenia, se Marlene desidera davvero esplorare Eritro, penso che nulla le impedirà di farlo, alla fine. E se è convintissima che il Morbo non le danneggerà la mente, forse questo atteggiamento mentale neutralizzerà il Morbo. Può darsi che l’equilibrio e la sicurezza aggressiva di Marlene siano il suo meccanismo immunitario mentale.» Eugenia drizzò il capo di scatto, lo sguardo acceso di rabbia repressa. «Stai dicendo delle sciocchezze, e non hai il diritto di cedere a questa vena improvvisa di romanticismo infantile. Marlene è un’estranea per te. Tu non l’ami.» «Non è un’estranea per me, e l’amo, invece. E soprattutto, l’ammiro. L’amore non mi darebbe la fiducia necessaria per accettare il rischio, l’ammirazione sì. Pensaci.» E rimasero seduti, fissandosi. 20 Prova XLII Kattimoro Tanayama, con la sua abituale tenacia, terminò l’anno concessogli, e continuò a resistere per qualche mese, prima che la sua lunga lotta si concludesse. Quando giunse il momento fatidico, lasciò il campo di battaglia senza una parola, senza un segno, e gli strumenti indicarono la morte avvenuta prima che i presenti si rendessero conto del decesso. L’evento destò poco scalpore sulla Terra, nessuno sulle Colonie, perché il Vecchio aveva sempre operato lontano dallo sguardo del pubblico, e, proprio per questo, la sua forza era stata così grande. Solo chi aveva a che fare con lui conosceva il suo potere, e le persone legate in modo particolare alla sua forza e alla sua politica furono quelle che accolsero la sua morte con maggior sollievo. Tessa Wendel ricevette presto la notizia, tramite il canale speciale allestito tra il suo quartier generale e World City. Anche se era preparata da mesi, fu uno shock. Cosa sarebbe successo, adesso? Chi avrebbe preso il posto di Tanayama, e che cambiamenti ci sarebbero stati? Tessa ci pensava da parecchio, ma solo ora sembrava che quegli interrogativi avessero un senso. Evidentemente, malgrado tutto, la Wendel (e forse tutti i diretti interessati) non si aspettava che il Vecchio morisse. Cercò conforto in Crile Fisher. Tessa era realista, e sapeva che non era il suo corpo, ora chiaramente anziano, (tra meno di due mesi, incredibile, avrebbe raggiunto i cinquanta) ad attirare Crile. Fisher aveva quarantatré anni, e, anche nel suo caso, il fiore della giovinezza era un po’ appassito, però in un uomo si notava meno. Comunque, Crile era attratto, e Tessa riusciva ancora a convincersi di essere lei ad attirarlo, soprattutto quando lo attirava a sé letteralmente e lo stringeva. «Be’, e adesso?» gli disse. «Nulla di sorprendente, Tessa. Sarebbe dovuto succedere prima.» «Già, ma è successo ora. Era la sua cieca determinazione a mandare avanti il progetto. E adesso?» «Quando Tanayama era vivo, eri ansiosa che morisse. Adesso sei preoccupata. Ma non credo che ce ne sia motivo. Il progetto continuerà. Una cosa di queste dimensioni ha una vita propria e non si può arrestare.» «Hai provato a calcolare quant’è costato tutto questo, Crile? Ci sarà un nuovo Direttore del Dipartimento Informazioni Terrestre, e i membri del Congresso Mondiale sceglieranno sicuramente qualcuno che potranno controllare. Non ci sarà un nuovo Tanayama capace di tenerli in soggezione… non nell’immediato futuro. Loro guarderanno il bilancio e, dato che non ci sarà più la mano nodosa del Vecchio a coprirlo, vedranno che il passivo è enorme, e vorranno tagliare le spese.» «Come possono farlo? Hanno già speso moltissimo. Devono smettere senza avere in mano nulla di concreto? Quello sì, sarebbe un fiasco.» «Possono dare la colpa a Tanayama. "Era un pazzo, un egotista guidato da un’ossessione", diranno… il che è vero in larga misura, come sappiamo entrambi… "Noi non siamo responsabili", diranno, e riporteranno l’equilibrio sulla Terra abbandonando qualcosa che in realtà il pianeta non può permettersi.» Fisher sorrise. «Tessa, tesoro, la tua comprensione del pensiero politico probabilmente è tipica di un genio iperspaziale di prim’ordine. Il Direttore dell’Ufficio è, in teoria e agli occhi del pubblico, un funzionario dai poteri limitati sottoposto all’autorità del Presidente Generale e del Congresso Mondiale. Questi funzionari eletti, teoricamente potenti, non possono far comprendere alla gente che Tanayama li dominava, che, di fronte al Vecchio, si accucciavano buoni buoni, che avevano perfino paura di respirare senza il suo permesso. Sarebbe come ammettere pubblicamente di essere dei vigliacchi, dei deboli, degli incapaci, e rischierebbero di perdere le loro cariche alle prossime elezioni. Dovranno continuare il progetto. Opereranno solo dei tagli simbolici.» «Come fai a essere tanto sicuro?» borbottò Tessa. «Lo so per esperienza. È da parecchio tempo che osservo il comportamento dei burocrati eletti. E poi, se ci fermiamo di colpo, consentiremo alle Colonie di precederci, di spingersi nello spazio profondo lasciandoci qua, esattamente come ha fatto Rotor.» «Oh? E come faranno?» «Data la loro conoscenza dell’iperassistenza, non credi che sia inevitabile fare un passo avanti e arrivare al volo ultraluce?» Tessa guardò Fisher, sardonica. «Crile, tesoro, la tua comprensione della fisica iperspaziale probabilmente è tipica di un seducente cacciatore di segreti di prim’ordine. È questo che pensi del mio lavoro? Che sia una conseguenza inevitabile dell’iperassistenza? Non hai capito che l’iperassistenza è una conseguenza naturale del pensiero relativistico? Tuttavia, non permette di viaggiare più velocemente della luce. Per passare alle velocità ultraluce è necessario un vero balzo in avanti, concettuale e pratico. Non è uno sviluppo spontaneo, naturale, e l’ho spiegato a diversi membri del governo. Si lamentavano della lentezza e delle spese, così ho dovuto spiegare le difficoltà. Adesso se lo ricorderanno, e non avranno paura di bloccare il progetto a questo punto. Non posso spronarli a proseguire dicendo tutt’a un tratto che la concorrenza potrebbe superarci.» Fisher scosse la testa. «Certo che puoi dirglielo. E ti crederanno, perché sarà la verità. Possono superarci facilmente.» «Non hai ascoltato quello che ho detto?» «Sì, ma stai tralasciando qualcosa. Concedimi un po’ di buon senso, soprattutto dal momento che mi hai appena definito un cacciatore di segreti di prim’ordine.» «Di che stai parlando, Crile?» «Questo grande balzo dall’iperassitenza al volo ultraluce è un grande balzo solo se si comincia dall’inizio, come hai fatto tu. Ma le Colonie non partono dall’inizio. Pensi davvero che non sappiano nulla del nostro progetto, di Iper City? Credi che io e i miei colleghi terrestri siamo gli unici cacciatori di segreti del Sistema Solare? Le Colonie hanno i loro agenti, che lavorano col nostro stesso impegno e la nostra stessa efficacia. In primo luogo, sanno che sei sulla Terra praticamente dal giorno del tuo arrivo.» «E con ciò?» «E con ciò! Pensi che non abbiano dei computer che gli dicano che hai scritto e pubblicato del materiale in questo campo? Pensi che non abbiano accesso a quelle relazioni scientifiche? Pensi che non le abbiano lette e rilette con la massima attenzione, e che non abbiano scoperto che secondo te le velocità ultraluce sono teoricamente possibili?» Tessa si morse un labbro. «Be’…» «Sì, pensaci. Quando hai scritto quegli articoli sulla velocità ultraluce, stavi solo facendo delle ipotesi. In pratica eri l’unica a ritenerla possibile. Nessuno ha considerato la cosa seriamente. Ma a un certo punto vieni sulla Terra e ci resti. All’improvviso sparisci e non ritorni su Adelia. Forse non conosceranno tutti i particolari di quello che stai facendo, perché questo progetto è stato coperto dalla massima sicurezza consentita dalla paranoia di Tanayama. Comunque, il semplice fatto che tu sia scomparsa è significativo e, visto il materiale che hai pubblicato, non possono esserci dubbi circa l’obiettivo del tuo lavoro. "Non si può tenere completamente segreta una cosa come Iper City. Le enormi somme di denaro investite lasciano per forza qualche traccia evidente. Quindi le Colonie stanno cercando a tentoni un po’ di tutto… ritagli di informazioni, scarti, da trasformare possibilmente in frammenti di conoscenza. E ogni frammento fornisce alle Colonie delle indicazioni utili, che permetteranno alle Colonie di progredire molto più rapidamente di quanto non abbia potuto fare tu. Dillo a quelli del governo, Tessa, se dovessero parlare di interrompere il progetto. Gli altri possono superarci nella corsa al volo ultraluce, e ci supereranno, se smetteremo di correre. Vedrai, questa prospettiva li spronerà a proseguire con lo stesso accanimento di Tanayama, e ha il pregio di essere assolutamente vera.» Tessa Wendel rimase a lungo in silenzio mentre Fisher la studiava. «Hai ragione, mio caro cacciatore di segreti» disse infine. «Sono stata avventata. Ho sbagliato a considerarti un amante piuttosto che un consigliere…» «Perché le due cose dovrebbero necessariamente escludersi a vicenda?» chiese Fisher. «Anche se so benissimo che a te la cosa interessa per motivi particolari, personali» precisò Tessa. «Anche se è così, che importa? Il fatto essenziale è che i miei motivi procedano paralleli ai tuoi, no?» XLIII Infine, arrivò una delegazione di rappresentanti del Congresso, insieme a Igor Koropatsky, il nuovo Direttore del Dipartimento Informazioni Terrestre. Per anni aveva occupato cariche minori nell’Ufficio, quindi non era un perfetto sconosciuto per Tessa Wendel. Era un uomo tranquillo, dai capelli grigi, lisci, ormai radi, il naso piuttosto bulboso, l’aria ben pasciuta e cordiale. Era senza dubbio astuto, scaltro, ma era evidente che gli mancava la veemenza quasi patologica di Tanayama. Si notava a un chilometro di distanza. Naturalmente, lo accompagnavano dei membri del Congresso, come se volessero dimostrare che il successore del Vecchio era proprietà loro, era sotto il loro controllo. Sicuramente, si auguravano che la situazione non mutasse, dopo la lunga e amara lezione di Tanayama. Nessuno accennò a una eventuale interruzione del progetto. Anzi, si parlò di stringere i tempi… se possibile. Quando Tessa Wendel provò a sottolineare con discrezione che le Colonie avrebbero potuto superare la Terra, o starle alle calcagna, le sue parole furono accolte senza obiezioni, furono quasi ignorate come qualcosa di ovvio. Koropatsky, al quale lasciarono il ruolo di portavoce e la relativa responsabilità, disse: «Dottoressa Wendel, non chiedo una visita minuziosa e formale di Iper City. Sono già stato qui, ed è più importante che dedichi un po’ di tempo alla riorganizzazione dell’Ufficio. Non intendo mancare di rispetto al mio illustre predecessore, ma quando la direzione di un importante apparato amministrativo passa da una persona a un’altra è necessaria un’opera di riorganizzazione notevole, soprattutto se il predecessore è rimasto in carica a lungo. Ora, io non sono un uomo formale. Quindi, parliamo liberamente e senza cerimonie. Le farò delle domande, e spero che lei risponda in modo comprensibile, tenendo conto delle mie modeste cognizioni scientifiche». Tessa annuì. «Farò del mio meglio, Direttore.» «Bene. A suo avviso, quando sarà pronta un’astronave ultraluce perfettamente a punto?» «Direttore, deve rendersi conto che fondamentalmente questa è una domanda alla quale non si può rispondere. Siamo in balia di difficoltà impreviste, di incidenti imprevisti.» «Supponiamo che ci siano solo normali difficoltà e nessun incidente.» «In questo caso, dato che abbiamo completato la parte scientifica e adesso è solo una questione di tecnologia e ingegneria, se saremo fortunati avremo la nave entro tre anni, forse.» «In altre parole, sarà pronta nel 2236.» «Non prima di allora, sicuramente.» «Quante persone trasporterà?» «Da cinque a sette, forse.» «A che distanza arriverà?» «Alla distanza che vorremo, Direttore. È questo il bello del volo ultraluce. Dato che si passa nell’iperspazio, dove le normali leggi della fisica non sono più valide, nemmeno la conservazione dell’energia, percorrere un anno luce o mille anni luce è indifferente, lo sforzo è lo stesso.» Il Direttore si agitò, a disagio. «Non sono un fisico, ma mi riesce difficile accettare un ambiente senza limitazioni. Non ci sono cose che non si possono fare?» «Ci sono delle limitazioni. Abbiamo bisogno del vuoto e di un’intensità gravitazionale al di sotto di un certo valore, se vogliamo compiere il passaggio nell’iperspazio e fuori dall’iperspazio. Con l’esperienza, troveremo senza dubbio ulteriori limitazioni che potrebbero rendere necessari dei voli di prova per valutare bene il problema. Il che potrebbe causare ulteriori rinvii.» «Una volta pronta la nave, quale sarà la destinazione del primo volo?» «La prudenza potrebbe suggerire di non spingersi oltre il pianeta Plutone la prima volta, per esempio, però la cosa potrebbe essere considerata una perdita di tempo insopportabile. Quando disporremo della tecnologia necessaria per visitare le stelle, la tentazione di visitarne una subito sarà fortissima.» «Per esempio, la Stella Vicina?» «Quella sarebbe la meta logica. L’ex Direttore Tanayama voleva che raggiungessimo quella stella, però devo farle notare che ci sono altre stelle molto più interessanti. Sirio è a una distanza appena quattro volte maggiore, e ci offrirebbe la possibilità di osservare da vicino una nana bianca.» «Dottoressa Wendel, penso che la Stella Vicina debba essere la nostra meta, anche se non necessariamente per le ragioni di Tanayama. Supponiamo che lei raggiunga un’altra stella, una qualsiasi, e che ritorni. Come farebbe a dimostrare di essere stata davvero in prossimità di un’altra stella?» La Wendel trasalì. «Dimostrare? Non capisco…» «Voglio dire, se mettessero in dubbio l’autenticità del volo, se lo considerassero un imbroglio, lei come respingerebbe le accuse?» «Un imbroglio?» Tessa Wendel si alzò, furiosa. «Questo è offensivo.» La voce di Koropatsky di colpo si fece perentoria. «Si sieda, dottoressa Wendel. Nessuno la sta accusando di nulla. Sto cercando di prevedere una situazione e di premunirmi per evitare che si verifichi. L’umanità è andata nello spazio quasi tre secoli fa. È un episodio storico non del tutto dimenticato, e il mio settore di globo lo ricorda particolarmente bene. In quei giorni remoti di confino terrestre, quando i primi satelliti hanno esplorato lo spazio, alcuni erano convinti che il materiale scientifico raccolto dai satelliti fosse tutto falso. Le prime fotografie dell’altra faccia della Luna erano finte, per loro. Ed erano false perfino le prime immagini della Terra vista dallo spazio, secondo certa gente che credeva che la Terra fosse piatta. Ora, se la Terra sostiene di avere il volo ultraluce, potremmo trovarci di fronte a un problema di questo tipo.» «Perché, Direttore? Perché dovremmo mentire riguardo una cosa del genere? Perché qualcuno dovrebbe pensarlo?» «Mia cara dottoressa Wendel, lei è ingenua. Da oltre tre secoli, Albert Einstein è il semidio inventore della cosmologia. La gente, generazione dopo generazione, si è abituata al concetto della velocità della luce come limite assoluto. Non rinuncerà facilmente a questo concetto. Perfino il principio di causalità sembra violato, e l’idea che la causa debba precedere l’effetto è la cosa più basilare che si possa concepire. E questo è il primo punto. "In secondo luogo, dottoressa Wendel, per le Colonie potrebbe essere utile, politicamente, convincere i loro abitanti, e anche i terrestri, che stiamo mentendo. Saremo disorientati, così. Ci ritroveremo coinvolti in discussioni e polemiche, perderemo tempo, e le Colonie avranno maggiori probabilità di guadagnare terreno e di raggiuncerci. Quindi le chiedo… Una volta compiuto questo viaggio spaziale, ci sarebbe il modo di dimostrarne l’effettiva autenticità? Esisterebbe una prova chiara e semplice?» «Direttore, permetteremmo agli scienziati di ispezionare la nave, al nostro ritorno» rispose gelida Tessa. «Ci impegneremo a spiegare le tecniche utilizzate…» «No, no. Per favore, non continui. Così convincerebbe solo gli scienziati esperti e informati come lei.» «Be’, allora quando torneremo avremo delle foto del cielo, e le stelle più vicine saranno in posizioni reciproche leggermente diverse. Dal cambiamento di queste posizioni, sarà possibile calcolare con esattezza il punto in cui ci trovavamo rispetto al Sole.» «Anche in questo caso, andrebbe bene solo per gli scienziati, ma non sarebbe affatto convincente per l’uomo medio.» «Avremo delle immagini ravvicinate della stella che visiteremo. Sarà diversissima dal nostro Sole.» «Ma questo genere di cose si fa in ogni programma olovisivo dozzinale imperniato sui viaggi interstellari. Banalità da epica fantascientifica. Sarebbe solo un altro programma alla "Capitan Galassia".» Tessa Wendel serrò i denti esasperata. «In tal caso, non conosco nessun altro tipo di prova. Se la gente non vorrà crederci, non ci crederà, e basta. È un problema che riguarda lei. Io sono solo una scienziata.» «Via, dottoressa, non si arrabbi, la prego. Quando Colombo è tornato dal suo primo viaggio oltre oceano sette secoli e mezzo fa, nessuno l’ha accusato di imbrogliare. Perché? Perché aveva portato con sé degli indigeni delle nuove terre che aveva visitato.» «Benissimo, ma le probabilità di trovare dei mondi con delle forme di vita e di portare sulla Terra degli esemplari sono scarsissime.» «Forse no. Come sa, si crede che Rotor abbia scoperto la Stella Vicina con la Sonda Remota e che abbia lasciato il Sistema Solare poco dopo quella scoperta. Dato che i rotoriani non sono più ritornati, è possibile che abbiano raggiunto la Stella Vicina, che siano rimasti là, e che si trovino ancora là.» «È quanto credeva il Direttore Tanayama. Comunque, con l’iperassistenza, il viaggio avrebbe richiesto più di due anni. Può darsi che per un incidente, o per dei problemi tecnici o psicologici, non siano mai arrivati a destinazione. Anche questo spiegherebbe la loro scomparsa.» «Tuttavia, può darsi che siano arrivati» insisté pacato Koropatsky. «Anche se sono arrivati, è probabile che siano semplicemente entrati in orbita attorno alla stella, dal momento che la presenza di un mondo abitabile è da escludersi nella maniera più assoluta. Il logorio psicologico dovuto all’isolamento, che non li avrà bloccati durante il viaggio, sarà diventato insostenibile in seguito, ed è probabile che adesso ci sia solo una Colonia morta in orbita perenne attorno alla Stella Vicina.» «Appunto, quindi si renderà conto che la nostra meta dev’essere quella, perché una volta là cercherà Rotor, vivo o morto. In entrambi i casi, dovrà portare sulla Terra qualcosa che sia inconfondibilmente rotoriano, così tutti le crederanno senza difficoltà quando affermerà di avere compiuto un viaggio interstellare.» Koropatsky fece un largo sorriso. «Anch’io ci crederò. E questa è la risposta al mio interrogativo di prima, dottoressa… la prova per dimostrare l’autenticità del volo ultraluce. Sarà questa la sua missione, dunque. E non abbia paura, la Terra continuerà a fornirle il denaro, la manodopera e i mezzi necessari.» Poi, dopo un pranzo durante il quale non si parlò di questioni tecniche, Koropatsky si rivolse a Tessa Wendel in un tono il più cordiale possibile ma che lasciava trasparire una sfumatura gelida. «Comunque, si ricordi che ha solo tre anni per ultimare il lavoro. Tre anni, al massimo.» XLIV «Dunque, il mio stratagemma non era necessario, in fondo» disse Crile Fisher con un’aria di lieve rammarico. «No. Erano decisi a continuare, anche senza prospettargli il pericolo di un sorpasso da parte delle Colonie. L’unica cosa che li preoccupava, e che a quanto pare non ha mai preoccupato Tanayama, era questa storia delle possibili accuse di imbroglio. A Tanayama interessava soltanto distruggere Rotor, immagino, e una volta centrato questo obiettivo, il mondo intero avrebbe anche potuto gridare "È un imbroglio", volendo.» «Non sarebbe successo. Tanayama avrebbe ordinato alla nave di portare sulla Terra una prova tangibile per dimostrargli la distruzione di Rotor. E anche il mondo sarebbe stato soddisfatto. Che tipo è il nuovo Direttore?» «L’opposto di Tanayama. Sembra mite, quasi umile, ma ho la sensazione che il Congresso Mondiale si accorgerà che è un osso duro come Tanayama. Deve solo ambientarsi, abituarsi al nuovo incarico.» «Stando a quanto mi hai detto della vostra conversazione, sembra più ragionevole di Tanayama.» «Sì, però mi fa ancora infuriare… quella faccenda dell’imbroglio. Come si può concepire un viaggio spaziale finto? È assurdo! Probabilmente dipende dal fatto che i terrestri non hanno il senso dello spazio. Nemmeno un po’. Avete questo mondo smisurato e non lo lasciate mai, a parte una percentuale microscopica.» Fisher sorrise. «Be’, io faccio parte della percentuale microscopica che lo ha lasciato. E spesso. E tu sei una colona. Quindi nessuno dei due ha questo attaccamento planetario, diciamo.» «Appunto.» Tessa gli lanciò un’occhiata di traverso. «A volte ho l’impressione che tu non ricordi che sono una colona.» «Credimi, non lo dimentico mai. Non è che vada in giro ripetendo tra me: "Tessa è una colona! Tessa è una colona!"… ma lo so, sempre.» «Lo sa qualcun altro, però?» Tessa fece un gesto con la mano, indicando un volume di spazio indeterminato. «Ecco… qui c’è Iper City, protetta da un apparato di sicurezza mostruoso, e perché? Perché i coloni non sappiano nulla. Dobbiamo mettere a punto il volo ultraluce come realizzazione pratica prima che le Colonie facciano i primi passi in questa direzione. E chi è che dirige il progetto? Una colona.» «Sono cinque anni che ti occupi del progetto. È la prima volta che ci pensi?» «No. Comunque, ci penso di tanto in tanto. Solo, non capisco. Non hanno paura di fidarsi di me?» Fisher scoppiò a ridere. «Non proprio. Sei una scienziata.» «E allora, gli scienziati sono considerati mercenari, che non hanno legami con nessuna società. Dai a uno scienziato un problema affascinante e tutti i fondi e le attrezzature e l’aiuto di cui ha bisogno per affrontare il problema, e lo scienziato se ne infischierà della provenienza dell’appoggio ricevuto. Sii sincera… A te non importa nulla della Terra, né di Adelia, né delle Colonie in generale, e nemmeno dell’umanità. Tu vuoi solo mettere a punto il volo ultraluce, e il lavoro è l’unica cosa che ti stia a cuore.» La Wendel replicò altera: «Questo è uno stereotipo, e non si adatta a tutti gli scienziati. Può darsi che a me non si adatti». «Oh, sicuramente se ne rendono conto anche loro, quindi è probabile che ti sorveglino in continuazione, Tessa. Probabilmente, alcuni dei tuoi più stretti collaboratori tra le altre mansioni hanno quella importantissima di controllare senza sosta le tue attività e di riferire al governo.» «Spero che tu non ti riferisca a te stesso.» «Non dirmi che non hai mai pensato che potessi starti accanto soltanto nel mio ruolo di cacciatore di segreti.» «A dire il vero, ci ho pensato… qualche volta.» «Ma non è il mio compito. Ho l’impressione di essere troppo affezionato a te per essere affidabile. Infatti, sorvegliano anche me, ne sono sicuro, e valutano attentamente la mia attività. Finché ti rendo felice…» «Sei un individuo insensibile, Crile. Come puoi trovare divertente una cosa del genere?» «Non c’è nulla di divertente. Sto cercando di essere realista. Se dovessi stancarti di me, io perderei la mia funzione. Una Tessa infelice potrebbe essere una Tessa improduttiva, così mi toglierebbero subito di torno e spianerebbero la strada al mio successore. Dopo tutto, per loro la tua felicità è molto più preziosa della mia, ed è logico che sia così, lo riconosco. Vedi il mio realismo?» Al che, Tessa Wendel allungò improvvisamente la mano verso Crile e gli accarezzò una guancia. «Stai tranquillo. Ormai mi sono troppo abituata a te per stancarmi. Quando ero giovane, focosa, passionale, potevo stancarmi dei miei compagni e abbandonarli, ma adesso…» «Troppa fatica, eh?» «Se preferisci metterla in questi termini… Può anche darsi che finalmente sia innamorata… a modo mio.» «Capisco cosa intendi dire. L’amore può essere riposante quando si è tranquilli, a mente fredda. Ma ho l’impressione che non sia il momento migliore per dimostrarlo. Prima dovrai riflettere sulla conversazione con Koropatsky e digerire quella storia antipatica dell’imbroglio.» «La digerirò, prima o poi. Ma c’è un’altra cosa… Poco fa ti ho detto che i terrestri non hanno il senso dello spazio.» «Sì, ricordo.» «Be’, ecco un esempio. Koropatsky non ha la più pallida idea delle dimensioni effettive dello spazio. Ha parlato di raggiungere la Stella Vicina e di trovare Rotor. Già, ma come? Ogni tanto, avvistiamo un asteroide e lo perdiamo prima di riuscire a calcolarne l’orbita. Lo sai quanto tempo ci vuole per localizzare di nuovo l’asteroide, anche con tutte le nostre apparecchiature e strumentazioni moderne? Anni interi, a volte. Lo spazio è vastissimo, perfino nelle immediate vicinanze di una stella, e Rotor è piccolo.» «Sì, ma noi cerchiamo un asteroide tra migliaia di asteroidi. Rotor, invece, sarà l’unico oggetto del suo genere in prossimità della Stella Vicina.» «Chi te l’ha detto? Anche se la Stella Vicina non ha un sistema planetario nel senso che intendiamo normalmente, molto probabilmente sarà circondata da frammenti e detriti di qualche tipo.» «Detriti morti, però, come i nostri asteroidi. Dal momento che Rotor sarà una Colonia viva, attiva, emetterà un’ampia gamma di radiazioni, che dovrebbero essere facilmente individuabili.» «Sempre che Rotor sia davvero una Colonia viva… E se non lo fosse? Sarebbe solo un asteroide come tanti, e trovarlo potrebbe essere un’impresa immane, irrealizzabile, almeno entro un arco di tempo ragionevole.» Inevitabilmente, la faccia di Fisher si contrasse in un’espressione infelice. Tessa Wendel si lasciò sfuggire un’esclamazione sommessa e gli si avvicinò, cingendo con un braccio le sue spalle inerti. «Oh, caro… conosci la situazione. Devi affrontarla.» Con voce strozzata, Crile disse: «Lo so. Però può darsi che siano sopravvissuti. Non è vero?». «Può darsi» rispose Tessa, il tono non troppo convinto e privo di spontaneità. «E se sono sopravvissuti, tanto meglio per noi. Come hai fatto notare, in questo caso sarebbe facile individuarli tramite la loro emissione di radiazioni. E soprattutto…» «Sì?» «Koropatsky vuole che portiamo sulla Terra qualcosa che dimostri che abbiamo incontrato Rotor, che abbiamo compiuto veramente un viaggio di andata e ritorno nello spazio profondo, coprendo parecchi anni luce in qualche mese al massimo. Per luì, sarebbe la prova migliore. Solo che… Cosa potremmo portare di convincente? Supponiamo di trovare alla deriva nello spazio dei frammenti di metallo o di cemento. Un frammento qualsiasi non andrà bene. Un pezzo di metallo non identificabile come rotoriano sarebbe inutile, perché avremmo potuto benissimo portarlo con noi alla partenza. Anche se riuscissimo a trovare un oggetto tipico di Rotor, qualche manufatto che potrebbe provenire solo da una Colonia, potrebbero considerarlo un falso. "Però, se Rotor fosse una Colonia viva e attiva, potremmo convincere un rotoriano a venire con noi. È possibile stabilire se un individuo è rotoriano… Ci sono le impronte digitali, lo schema retinico, l’analisi del DNA… Può darsi addirittura che sulle altre Colonie o sulla Terra ci siano delle persone in grado di riconoscere il rotoriano che porteremo con noi. Koropatsky vuole che facciamo così, l’ha fatto capire chiaramente. Ha sottolineato che Colombo, tornando dal suo primo viaggio, aveva portato con sé degli indigeni americani.» Tessa sospirò a fondo prima di proseguire. «Naturalmente, non potremo portare sulla Terra tutto quello che vorremo, sia si tratti di persone, sia di oggetti. Forse un giorno avremo astronavi grandi come Colonie, ma la nostra prima nave sarà piccola, piuttosto primitiva, questo è certo. Al massimo saremo in grado di portare con noi un rotoriano, quindi dovremo scegliere la persona giusta.» «Mia figlia Marlene» disse Fisher. «Potrebbe rifiutarsi di venire. Possiamo prendere con noi solo qualcuno che sia disposto a tornare sulla Terra. Uno ci sarà tra tante migliaia di persone, magari più di uno… ma se tua figlia non…» «Accetterà, verrà. Lascia che le parli. In qualche modo, la convincerò.» «Sua madre potrebbe opporsi.» «Convincerò anche lei» disse Fisher, ostinato. «In un modo o nell’altro, ci riuscirò.» Tessa sospirò di nuovo. «Non posso permettere che tu ti illuda, Crile. Non capisci? Non possiamo portare con noi tua figlia, anche se fosse disposta a seguirci.» «Perché? Perché no?» «Aveva un anno quando se n’è andata. Non ha alcun ricordo del Sistema Solare. Nel Sistema Solare, nessuno potrebbe identificarla. È difficilissimo che ci siano dei documenti o dei dati d’archivio da esaminare, se non su Rotor. No, a noi serve una persona di mezza età come minimo, una persona che sia stata su qualche altra Colonia o, meglio ancora, sulla Terra.» Tessa Wendel s’interruppe un istante poi, la voce tesa, proseguì. «Tua moglie potrebbe essere la persona adatta. Una volta mi hai detto che ha completato i suoi studi sulla Terra, no? Quindi ci saranno dei documenti, sarà possibile identificarla… Anche se, onestamente, preferirei di gran lunga scegliere qualcun altro.» Fisher rimase in silenzio. «Mi spiace, Crile» mormorò Tessa, l’aria quasi timida. «Non è come vorrei.» E Fisher disse aspro: «L’importante è che la mia Marlene sia viva. Poi vedremo cosa si può fare». 21 Analisi cerebrale XLV «Mi dispiace» disse Siever Genarr, guardando madre e figlia con un’espressione che già di per sé era di scusa. «Avevo detto a Marlene che il mio lavoro non era molto impegnativo, e subito dopo, in pratica, c’è stata una specie di piccola crisi della nostra rete energetica, e ho dovuto rimandare questo colloquio. Comunque, la crisi è finita, e adesso sappiamo che non era nulla di serio. Sono perdonato?» «Certo, Siever» rispose Eugenia Insigna, chiaramente agitata. «Non dico che siano stati tre giorni tranquilli, però. Sento che più stiamo qui più aumenta il pericolo per Marlene.» «Io non ho affatto paura di Eritro, zio Siever» intervenne Marlene. «E io penso che Pitt non possa fare nulla contro di noi su Rotor» disse la madre. «Lo sa, altrimenti non ci avrebbe mandate qui.» «E io cercherò di fare il mediatore onesto e di soddisfare tutte e due» disse Genarr. «Anche se Pitt non può fare quello che gli pare apertamente, indirettamente può fare parecchie cose, quindi, Eugenia, non devi permettere che questa tua paura di Eritro ti porti a sottovalutare la determinazione e l’ingegnosità di Pitt, perché è pericoloso. Tanto per cominciare, se ritorni su Rotor, violerai la sua ordinanza, e Pitt può farti imprigionare o mandarti in esilio su Nuova Rotor, o perfino rispedirti qui. "In quanto a Eritro, certo, non bisogna neppure sottovalutare il pericolo del Morbo, anche se sembra che sia cessato nella sua forma virulenta iniziale. Non sei l’unica a non volere esporre Marlene a dei rischi, Eugenia. Sono riluttante quanto te.» E Marlene mormorò esasperata: «Non c’è nessun rischio». Sua madre disse: «Siever, non credo che dovremmo continuare questa discussione in presenza di Marlene». «Ti sbagli. Voglio che sia presente anche lei, invece. Ho la sensazione che Marlene sappia meglio di noi cosa dovrebbe fare. È lei la custode della sua mente, e noi dobbiamo interferire il meno possibile.» Eugenia si lasciò sfuggire una specie di gemito gutturale, ma Genarr proseguì, con una sfumatura quasi spietata nella voce. «Voglio che partecipi a questa discussione perché può fornire elementi preziosi. Voglio la sua opinione.» «Ma la conosci la sua opinione. Lei vuole uscire all’esterno, e tu stai dicendo che dobbiamo lasciarle fare quello che vuole perché in qualche modo lei è magica» replicò Eugenia. «Nessuno ha parlato di magia, o di lasciarla uscire tranquillamente. Io proporrei di fare degli esperimenti, con tutte le debite precauzioni.» «In che modo?» «Tanto per cominciare, vorrei un’analisi cerebrale.» Genarr si rivolse alla ragazza. «Capisci che è necessario, Marlene? Hai qualche obiezione?» Marlene corrugò leggermente la fronte. «Ho fatto delle analisi cerebrali. Tutti le hanno fatte. Senza analisi cerebrale non puoi iniziare la scuola. Ogni volta che si fa una visita medica…» «Lo so» l’interruppe garbato Genarr. «In questi ultimi tre giorni sono riuscito a combinare qualcosa, nonostante tutto. E ho qui» e posò la mano su un fascio di tabulati sulla sinistra della scrivania «la computerizzazione di tutte le analisi cerebrali che hai fatto.» «Ma non stai dicendo tutto, zio Siever» osservò Marlene, calma. «Ah!» esclamò Eugenia, con un accenno di esultanza. «Cosa nasconde, Marlene?» «È un po’ agitato per me. Non crede fino in fondo nel mio senso di sicurezza, nella mia incolumità. È incerto.» «Com’è possibile, Marlene?» chiese Genarr. «Sono sicurissimo della tua incolumità.» Ma Marlene ebbe un’illuminazione improvvisa e disse raggiante: «Secondo me, è per questo che hai aspettato tre giorni, zio Siever. Hai provato a convincere te stesso, ti sei imposto una sicurezza fittizia, perché io non notassi la tua incertezza. Ma non ha funzionato. La vedo ugualmente». «Se si vede, Marlene, è soltanto perché sei molto importante per me, talmente importante che anche il minimo rischio mi disturba» spiegò Genarr. Eugenia intervenne rabbiosa. «Se anche il minimo rischio ti disturba, cosa credi che provi, io, che sono sua madre? Così, visto che eri incerto, ti sei procurato quelle analisi cerebrali, violando la privacy medica di Marlene.» «Dovevo informarmi. E l’ho fatto. Sono insufficienti.» «Insufficienti? In che senso?» «Poco dopo la nascita della Cupola, quando il Morbo imperversava, abbiamo messo a punto un analizzatore cerebrale più preciso e un programma più efficiente per l’interpretazione dei dati. Queste apparecchiature sono rimaste sempre su Eritro. Dal momento che intendeva nascondere a tutti i costi l’esistenza del Morbo, Pitt non ha voluto che su Rotor apparisse all’improvviso un nuovo analizzatore cerebrale perfezionato. Avrebbe potuto suscitare degli interrogativi inopportuni, delle dicerie imbarazzanti. Assurdo, secondo me, ma anche in questo caso Pitt ha ottenuto ciò che voleva. Quindi, Marlene, non sei mai stata esaminata in modo accurato, e io voglio un controllo col nostro analizzatore.» Marlene arretrò. «No.» Sul volto di Eugenia apparve un’espressione speranzosa. «Perché no, Marlene?» «Perché quando zio Siever l’ha detto… la sua incertezza è aumentata di colpo.» «No, non è…» Genarr s’interruppe, alzò le braccia, e le lasciò ricadere, rassegnato. «Bah, tanto, a che serve? Marlene, cara, se all’improvviso ti sono sembrato preoccupato, è perché abbiamo bisogno di un’analisi cerebrale della massima precisione da usare come modello di normalità mentale. Così, se il contatto con Eritro dovesse provocare la minima alterazione mentale, non riscontrabile altrimenti, né osservandoti né parlandoti, l’analisi cerebrale ci permetterà di individuarla ugualmente. Be’, non appena parlo di un’analisi cerebrale di precisione, penso alla possibilità di scoprire appunto qualche cambiamento impercettibile… e questa idea suscita automaticamente un senso di preoccupazione. Ecco cosa vedi. Sentiamo, Marlene, quant’è grande la mia incertezza?» «Non molto, però è presente. Il guaio è che so solo che sei incerto. Non sono in grado di cogliere il perché. Forse questa analisi cerebrale speciale è pericolosa.» «Impossibile. È stata usata tante… Marlene, tu sai che Eritro non ti danneggerà. Non sai anche che l’analisi cerebrale non ti danneggerà?» «No.» «Sai che ti danneggerà?» Una pausa, poi Marlene rispose riluttante: «No». «Sei sicura riguardo a Eritro, e non sei sicura riguardo all’analisi cerebrale… Com’è possibile?» «Non lo so. So solo che Eritro non mi danneggerà, ma non so se l’analisi cerebrale sia in grado di nuocermi.» Sul volto di Genarr apparve un sorriso. Non ci volevano doti particolari per capire che quel sorriso esprimeva un sollievo enorme. «Perché questo ti fa sentire meglio, zio Siever?» domandò Marlene. «Perché se tu stessi inventando questa tua capacità intuitiva, per darti importanza o per qualche illusione fantastica o per romanticismo, la sfoggeresti sempre, in qualsiasi circostanza. Invece, no. Fai delle scelte. Sai certe cose, e certe altre non le sai. Per questo, sono molto più propenso a crederti quando sostieni di essere certa che Eritro non ti danneggerà, e non ho più paura che l’analisi cerebrale possa rivelare qualcosa di allarmante.» Marlene si girò verso la madre. «Ha ragione, mamma. Si sente molto meglio, e anch’io. È evidente. Non capisci anche tu?» «Quello che capisco non ha importanza» rispose Eugenia. «Io non mi sento meglio.» «Oh, mamma» mormorò Marlene. Poi, alzando la voce, si rivolse a Genarr. «Farò l’analisi.» XLVI «Non mi sorprende» sussurrò Siever Genarr. Stava osservando i grafici intricati, quasi floreali, del computer che scorrevano lentamente, colorati. Eugenia Insigna, al suo fianco, fissava senza comprendere. «Non ti sorprende, cosa, Siever?» chiese. «Non sono in grado di darti una spiegazione precisa perché non conosco bene il linguaggio specialistico. E se dovesse spiegarlo Ranay D’Aubisson, la nostra esperta locale del settore, nessuno dei due capirebbe. Comunque, Ranay mi ha fatto notare questo…» «Sembra un guscio di chiocciola.» «Risalta grazie al colore. Stando a Ranay, è un indice di complessità, piuttosto che una indicazione diretta di forma fisica. Questa parte è atipica. In genere, non si trova nei cervelli.» Le labbra di Eugenia tremarono. «Intendi dire che Marlene è già stata colpita?» «No, assolutamente. Ho detto atipica, non anormale. Non credo sia il caso di spiegare la differenza a una scienziata come te. Devi ammettere che Marlene è diversa. In un certo senso, sono contento che ci sia la chiocciola. Se il suo cervello fosse completamente tipico, dovremmo chiederci: "Perché Marlene è così, allora? Da dove viene la sua percettività? È un’abile simulazione, o siamo degli sciocchi?".» «Ma come fai a sapere che non è qualcosa di… di…» «Patologico? Impossibile. Abbiamo tutte le sue analisi cerebrali, dall’infanzia in poi. Questa atipicità è sempre stata presente.» «Non mi hanno detto nulla. Non me ne hanno mai parlato…» «Naturale. Quelle vecchie analisi erano piuttosto primitive e non si vedeva, almeno non in maniera tale da balzare agli occhi. Ma adesso che abbiamo questa analisi dettagliata e siamo in grado di vedere chiaramente questo particolare, possiamo esaminare le analisi precedenti e individuarlo. Cosa che Ranay ha già fatto. Credimi, Eugenia, questa tecnica avanzata di analisi cerebrale dovrebbe essere usata anche su Rotor. Pitt ha fatto male a sopprimerla; è stata una delle sue mosse più stupide. È costosa, naturalmente.» «Pagherò» mormorò Eugenia. «Non essere sciocca. La spesa è a carico della Cupola. Dopo tutto, questo potrebbe aiutarci a risolvere il mistero del Morbo. Almeno, sarà la spiegazione che darò se dovessero fare domande. Bene, siamo a posto. Il cervello di Marlene è stato registrato con una precisione senza precedenti. Se dovesse subire qualche alterazione, anche minima, si vedrà subito sullo schermo.» «Non hai idea di quanto sia spaventoso, questo» disse Eugenia. «Sai, ti capisco. Ma Marlene è così fiduciosa che non posso fare a meno di essere d’accordo con lei. Sono convinto che questo forte senso di sicurezza abbia un fondamento logico.» «Com’è possibile?» Genarr indicò il guscio di chiocciola. «Tu non hai questo, e nemmeno io, quindi nessuno dei due è in grado di stabilire da dove provenga il senso di sicurezza di Marlene. Però lei è sicura, quindi dobbiamo lasciarla uscire sulla superficie.» «Perché dobbiamo esporla a questo rischio? Puoi spiegarmelo?» «Per due motivi. Primo, Marlene sembra molto decisa, e ho la sensazione che prima o poi otterrà quel che vuole, se è tanto decisa. In tal caso, tanto vale accogliere la sua richiesta di buon grado e mandarla fuori, dato che non riusciremo a trattenerla a lungo. Secondo, è possibile che in questo modo scopriamo qualcosa sul Morbo… non so cosa, però anche un piccolissimo indizio che consenta di ricavare altri dati sul Morbo sarà preziosissimo.» «Non quanto la mente di mia figlia.» «La mente di Marlene sarà al sicuro. Tanto per cominciare, anche se ho fiducia in Marlene e credo che non ci siano rischi, farò il possibile per ridurli al minimo, per amor tuo. Innanzitutto, non la lasceremo uscire per un po’. Posso sorvolare Eritro insieme a lei, per esempio. Vedrà laghi e pianure, colline, canyon. Potremmo arrivare addirittura fino al mare. È un mondo che possiede una bellezza spoglia, l’ho visto una volta, ma è brullo, sterile. Marlene non vedrà nessuna forma di vita. Ci sono solo i procarioti nell’acqua, che naturalmente sono invisibili. Può darsi che questa desolazione uniforme le ispiri un senso di ripugnanza, può darsi che Marlene perda completamente interesse per l’esterno. Comunque, se vorrà ancora uscire, se vorrà sentire ugualmente il suolo di Eritro sotto i piedi, faremo in modo che indossi una tutaE.» «Cosa sarebbe una tutaE?» «Una tuta protettiva adatta a Eritro. È semplice… è una specie di tuta spaziale, solo che non è pressurizzata perché all’esterno non c’è il vuoto. È fatta di plastica e di tessuto, è leggerissima e non intralcia i movimenti. Il casco con lo schermo protettivo per gli infrarossi è un po’ più massiccio, e ci sono una riserva d’aria artificiale e un dispositivo per la ventilazione. In conclusione, la persona che indossa una tutaE non è esposta all’ambiente esterno di Eritro. Inoltre, ci sarà qualcuno con Marlene.» «Chi? Non l’affiderei a nessuno, mi fiderei solo di me stessa.» Genarr sorrise. «Saresti la compagna meno adatta. Non sai nulla di Eritro, e hai paura del pianeta. Non ti permetterei mai di andare là fuori. Ascolta, l’unica persona affidabile non sei tu… sono io.» «Tu?» Eugenia lo fissò a bocca aperta. «Perché no? Qui non c’è nessuno che conosca Eritro meglio di me, e se Marlene è immune al Morbo, sono immune anch’io. In dieci anni su Eritro, non ho mai avvertito il minimo disturbo. E soprattutto, so pilotare un mezzo aereo, il che significa che non avremo bisogno di un pilota. Senza contare che, se uscirò con Marlene, potrò osservarla attentamente. Se noterò la minima traccia di anormalità nel suo comportamento, la riporterò nella Cupola perché venga esaminata con l’analizzatore cerebrale in un battibaleno.» «Quando sarà ormai troppo tardi, naturalmente.» «No. Non necessariamente. Se pensi che il Morbo colpisca sempre con la massima intensità quando si manifesta, ti sbagli. Non è così. Ci sono stati dei casi leggeri, anche molto leggeri, e le persone colpite in modo lieve possono condurre un’esistenza abbastanza normale. Ma a Marlene non accadrà nulla. Ne sono sicuro.» Eugenia rimase seduta in silenzio, l’aria sparuta e indifesa. Istintivamente, Genarr la cinse col braccio. «Su, Eugenia, dimentica tutto per una settimana. Ti prometto che Marlene non uscirà per almeno sette giorni… magari anche di più, se riuscirò a indebolire la sua determinazione mostrandole Eritro dall’aria. E durante il volo si troverà in un ambiente chiuso, a bordo dell’aereo, e sarà al sicuro come qui nella Cupola. E adesso sai che ti dico… sei un’astronoma, no?» Eugenia lo guardò e disse fiacca: «Certo, lo sai benissimo». «Il che significa che non guardi mai le stelle. Gli astronomi non lo fanno mai. Guardano solo i loro strumenti. Adesso è scesa la notte sulla Cupola; raggiungiamo la sala d’osservazione e ammiriamo il cielo. La notte è limpidissima, e guardare le stelle è l’ideale per sentirsi tranquilli e in pace. Fidati di me.» XLVII Era vero. Gli astronomi non guardavano le stelle. Non era necessario. Un astronomo, tramite il computer opportunamente programmato, dava istruzioni ai telescopi, agli obiettivi e allo spettroscopio. Gli strumenti svolgevano il lavoro, le analisi, le simulazioni grafiche. L’astronomo si limitava a fare le domande, poi studiava le risposte. Per questo, non c’era bisogno di guardare le stelle. Del resto, come si faceva a osservare le stelle rimanendo oziosi, passivi? rifletté Eugenia. Un astronomo poteva farlo? La vista delle stelle avrebbe dovuto provocare subito un senso di inquietudine nell’astronomo. C’era del lavoro che lo attendeva, c’erano delle domande da porre, dei misteri da risolvere, e dopo un po’, sicuramente, l’astronomo sarebbe tornato in laboratorio e avrebbe messo in funzione qualche apparecchiatura, distraendosi con la lettura di un romanzo o guardando uno spettacolo olovisivo. Eugenia disse queste cose all’amico, mentre Genarr girava per l’ufficio assicurandosi di non avere lasciato nulla in sospeso prima di uscire. (Siever controllava sempre che tutto fosse a posto, ricordò Eugenia, pensando alla loro gioventù. Una caratteristica che lei aveva trovato irritante allora, ma forse avrebbe dovuto ammirarla. Siever aveva tante virtù, rifletté, e Crile d’altra parte…) Eugenia bloccò spietatamente i propri pensieri e li deviò in un’altra direzione. Genarr stava dicendo: «Se devo essere sincero, nemmeno io uso molto spesso la sala d’osservazione. Sembra sempre che ci sia qualcos’altro da fare. E quando vado là, quasi sempre mi ritrovo solo. Sarà piacevole andarci in compagnia. Su, vieni!». La guidò fino a un piccolo ascensore. Era la prima volta che Eugenia prendeva un ascensore nella Cupola, e per un attimo le parve di essere di nuovo su Rotor… solo che non avvertì alcun cambiamento dell’attrazione pseudogravitazionale, e non si sentì spingere leggermente contro una parete per l’effetto Coriolis, cosa che sarebbe successa su Rotor. «Eccoci» annunciò Genarr, invitandola con un cenno a uscire. Eugenia lasciò la cabina, incuriosita, entrando in una sala vuota, e quasi subito arretrò. «Siamo esposti?» chiese. «Esposti?» ripeté Genarr, perplesso. «Ah, intendi dire, siamo a contatto con l’atmosfera di Eritro? No, no. Non temere. Ci troviamo in una semisfera di vetro diamantato antigraffio. Un meteorite lo sfonderebbe, naturalmente, ma i cieli di Eritro sono praticamente privi di meteoriti. Questo tipo di vetro esiste anche su Rotor, però» e a questo punto nella sua voce affiorò una nota di orgoglio «il nostro è di qualità migliore, e là non hanno vetrate di queste dimensioni.» «Vi trattano bene quaggiù» commentò Eugenia, toccando adagio il vetro per assicurarsi che ci fosse davvero. «Devono trattarci bene, se vogliono che la gente continui a venire qui» disse Genarr. Poi tornò a parlare della semisfera. «Certo, a volte piove, ma quando piove la visibilità è limitata comunque dalle nubi. E quando il cielo schiarisce, la bolla si asciuga in fretta. Rimane un residuo, e durante il giorno, una miscela detergente speciale pulisce la bolla. Siediti, Eugenia.» Eugenia prese posto su una sedia morbida, comoda, che si inclinò quasi spontaneamente e le permise di ritrovarsi con lo sguardo rivolto verso l’alto. Sentì il lieve sibilo di un’altra sedia che si spostava sotto il peso di Genarr. Poi le piccole luci di servizio, che proiettavano un chiarore sufficiente a rivelare la presenza e la posizione delle sedie e dei tavolini della sala, si spensero. Nell’oscurità di un mondo disabitato, il cielo, sereno e scuro come velluto nero, si riempì di scintille. Eugenia soffocò un’esclamazione. Sapeva com’era il cielo in teoria. L’aveva visto in tanti modi… mappe, carte, simulazioni, fotografie… ma mai nel suo aspetto reale. Senza accorgersene, non cercò di invividuare le cose interessanti, le particolarità sconcertanti, non si concentrò sui lati misteriosi che l’avrebbero spinta a mettersi subito al lavoro. Non guardò nessun corpo celeste, bensì i disegni che formavano. Nella preistoria, pensò, era stato lo studio di quei disegni, di quelle strutture composte, non lo studio delle stelle in sé, a dare agli antichi le costellazioni, a segnare la nascita dell’astronomia. Genarr aveva ragione. Un senso di pace l’avvolse, come un velo impalpabile. Dopo un po’, quasi trasognata, disse: «Grazie, Siever». «Perché mi ringrazi?» «Per esserti offerto di accompagnare Marlene. Perché rischi la tua mente per mia figlia.» «Non rischio la mente. Non ci accadrà nulla. E poi, provo un… un sentimento paterno per lei. In fin dei conti, Eugenia, ci conosciamo da parecchio tempo, e io ho… ho sempre avuto… molta stima di te.» «Lo so» disse Eugenia, cominciando ad avvertire un senso di colpa. Aveva sempre saputo cosa provasse Genarr… lui non riusciva a nasconderlo. Prima di conoscere Crile, la reazione di Eugenia era stata di rassegnazione, in seguito era subentrata l’irritazione. «Se qualche volta dovessi aver ferito i tuoi sentimenti, Siever, mi spiace davvero.» «Oh, non dirlo nemmeno» fece Genarr sottovoce. Poi seguì un lungo silenzio, la pace era sempre più intensa, ed Eugenia si augurò di cuore che non arrivasse nessuno a infrangere quella strana parentesi di serenità che l’avvinceva. A un certo punto, Genarr disse: «Ho una mia teoria, sai? Credo di sapere perché la gente non frequenta la sala d’osservazione, qui… o su Rotor. Non hai mai notato che anche quella di Rotor non è molto frequentata?». «A Marlene piaceva andare lassù ogni tanto» rispose Eugenia. «Mi ha spiegato che di solito era sola. Nell’ultimo anno, più o meno, diceva che le piaceva osservare Eritro. Avrei dovuto ascoltarla con maggiore attenzione…» «Marlene è insolita… Secondo me, la cosa che da fastidio alla maggior parte della gente e le impedisce di venire quassù è quella.» «Cosa?» domandò Eugenia. «Là… Guarda.» Genarr stava indicando un punto del cielo, ma nell’oscurità Eugenia non vedeva il suo braccio. «Quella stella molto luminosa… la più luminosa.» «Vuoi dire il Sole… il nostro Sole… il Sole del Sistema Solare…» «Sì. È un intruso. Se non fosse per quella stella così luminosa, questo cielo sarebbe quasi identico al cielo visto dalla Terra. Alfa Centauri è in una posizione piuttosto anomala e Sirio è leggermente spostata, ma non ci faremmo caso. A parte queste cose, il cielo che vedi sarebbe quello osservato dai Sumeri cinquemila anni fa. Se non fosse per il Sole.» «E tu pensi che il Sole tenga lontane le persone dalla sala d’osservazione?» «Sì, può darsi che sia un fenomeno inconscio, però la vista del Sole le turba, secondo me. Si tende a pensare che il Sole sia lontano, lontanissimo, irraggiungibile, che appartenga quasi a un altro universo. Invece, eccolo là, in cielo, luminoso, che si impone alla nostra attenzione, che suscita in noi sensi di colpa per averlo abbandonato.» «Ma allora, perché i bambini e gli adolescenti non frequentano la sala d’osservazione? In pratica, loro non sanno nulla del Sole e del Sistema Solare.» «Noi adulti diamo un esempio negativo. Quando saremo morti noi, quando per tutti i rotoriani che verranno dopo il Sistema Solare sarà soltanto un’espressione, nient’altro che parole, Rotor si sentirà di nuovo padrone di questo cielo, e questo posto sarà affollato… se esisterà ancora.» «Pensi che non esisterà più?» «Non possiamo prevedere il futuro, Eugenia.» «Finora, sembra che prosperiamo, che ci stiamo sviluppando.» «Già, è vero… Ma è quella stella luminosa, l’intruso, che mi preoccupa.» «Il nostro vecchio Sole. Che può farci? Non può raggiungerci.» «Certo che può» replicò Genarr, fissando l’astro scintillante nella parte occidentale del cielo. «Quelli che abbiamo lasciato alle nostre spalle, sulla Terra e sulle Colonie, scopriranno Nemesis prima o poi. Forse l’hanno già scoperta. E forse hanno l’iperassistenza. Secondo me, devono aver messo a punto l’iperassistenza poco dopo la nostra partenza. La nostra scomparsa improvvisa deve averli stimolati parecchio.» «Siamo partiti quattordici anni fa. Perché non sono già qui?» «Forse li spaventa il pensiero di un viaggio di due anni. Sanno che Rotor ha tentato, ma non sanno che il tentativo ha avuto successo. Forse pensano che i resti di Rotor siano sparsi nello spazio dal Sole a Nemesis.» «A noi il coraggio di tentare non è mancato.» «No, non lo avevamo il coraggio. Credi che Rotor avrebbe tentato se non ci fosse stato Pitt? È stato Pitt a trascinarci, e dubito che ci sia un altro Pitt sulle Colonie o sulla Terra. Lo sai che Pitt non mi piace. Non approvo i suoi metodi, la sua morale, o la sua mancanza di senso morale, la sua tortuosità, non approvo la sua capacità di essere freddo e spietato, che ha dimostrato di possedere mandando qui una ragazza come Marlene nella speranza di danneggiarla seriamente… eppure, se guardiamo i risultati, può darsi che Pitt passi alla storia come un grand’uomo.» «Un grande capo» lo corresse Eugenia. «Tu sei un grand’uomo, Siever. C’è una differenza netta.» Seguirono altri attimi di silenzio, finché Genarr non disse sottovoce: «Aspetto sempre che ci seguano, che arrivino qui. È questa la mia più grande paura, e sembra che si accentui quando vedo l’intruso che brilla in cielo. Ormai sono quattordici anni che abbiamo lasciato il Sistema Solare. Cos’hanno fatto loro in questi quattordici anni? Non te lo sei mai chiesto, Eugenia?». «Mai» rispose lei, semiaddormentata. «Le mie preoccupazioni sono più immediate.» 22 Asteroide XLVIII 22 agosto 2235! Significava qualcosa per Crile Fisher, perché era il compleanno di Tessa Wendel. Per la precisione, era il suo cinquantatreesimo compleanno. Tessa non fece alcun accenno al giorno, né al suo significato… forse perché su Adelia era così orgogliosa del proprio aspetto giovanile, o forse perché era fin troppo consapevole dei cinque anni di vantaggio di Fisher. Ma a Crile non importava la loro relativa differenza di età. Anche se Crile non fosse stato attratto dalla sua intelligenza e dal suo vigore sessuale, Tessa deteneva la chiave di Rotor, e lui lo sapeva. Ora attorno agli occhi di Tessa c’erano delle minuscole grinze, e la parte superiore delle sue braccia era piuttosto flaccida, ma quel compleanno passato sotto silenzio fu un giorno trionfale per la scienziata. Tessa Wendel arrivò spedita nell’appartamento, che nel corso degli anni era diventato sempre più lussuoso, e si abbandonò sulla solida poltrona (dal fondo a campo d’energia) con un sorriso soddisfatto. «È andato tutto liscio come lo spazio interstellare. Perfezione assoluta.» «Mi sarebbe piaciuto assistere» disse Crile. «Anche a me sarebbe piaciuto che fossi presente, Crile, ma adesso i non addetti ai lavori non sono ammessi, e ti coinvolgo già in fin troppo.» L’obiettivo era stato Ipermnestra, un asteroide anonimo che si trovava in una posizione adatta allo scopo, non troppo vicino ad altri asteroidi in quel momento, e soprattutto non troppo vicino a Giove. Inoltre, non interessava a nessuna Colonia ed era abbandonato a se stesso. E, per concludere, c’erano le prime due sillabe del nome, un particolare senza dubbio insignificante, ma che sembrava indicare un obiettivo adeguato per un volo ultraluce nell’iperspazio. «Dunque, la nave è arrivata a destinazione senza problemi…» «A diecimila chilometri dall’asteroide. Avremmo potuto farla avvicinare di più senza difficoltà, ma non volevamo rischiare un’intensificazione del suo campo gravitazionale, anche se era debole. E naturalmente l’abbiamo riportata nel punto prestabilito. Adesso sta rientrando scortata da due navi normali.» «Le Colonie saranno state all’erta, immagino.» «Oh, certo, ma un conto è vedere la nave che sparisce improvvisamente, un conto è sapere dov’è andata, se è partita alla velocità della luce o a una velocità inferiore o a una molto superiore… e soprattutto, che sistema è stato usato. Quindi, quello che vedono le Colonie non significa proprio nulla.» «Non avevano nulla nelle vicinanze di Ipermnestra, vero?» «Non potevano conoscere la destinazione scelta, a meno che il nostro apparato di sicurezza non avesse funzionato, cosa che a quanto pare non si è verificata. E anche se lo avessero saputo o avessero indovinato qualcosa, sarebbe stato comunque troppo poco per aiutarli a capire. Considerando tutto, è andata in modo molto soddisfacente, Crile.» «Un passo da gigante, allora.» «Con altri passi da gigante ancora da compiere. Era la prima nave, in grado di trasportare un essere umano, di raggiungere una velocità ultraluce, però, come sai, il personale di bordo, se questa è l’espresione giusta, era costituito da un robot.» «Il robot ha funzionato bene?» «Benissimo, ma non è un dato molto significativo… dimostra solo che possiamo trasferire una massa abbastanza grande avanti e indietro senza danni… almeno senza danni a livello macroscopico. Ci vorranno parecchie settimane di controlli per assicurarsi che non ci siano stati danni pericolosi a livello microscopico. E, naturalmente, dobbiamo sempre costruire navi più grandi, mettere a punto i sistemi di sopravvivenza e collaudarli, aumentare i dispositivi di sicurezza. Un robot è più resistente di un essere umano.» «E tutto procede secondo i programmi iniziali?» «Finora. Finora, sì. Ancora un anno o un anno e mezzo, se non ci saranno disastri o incidenti inaspettati, e dovremmo riuscire a sorprendere i rotoriani, sempre che esistano ancora.» Fisher sussultò e Tessa Wendel, l’aria abbattuta, si scusò: «Mi spiace. Continuo a ripromettermi di non dire cose del genere, ma ogni tanto mi sfuggono». «Non importa» fece Fisher. «Hanno stabilito in modo definitivo che parteciperò alla prima spedizione su Rotor?» «Ammesso che sia possibile prendere una decisione definitiva con un anno o più di anticipo. Potremmo trovarci di fronte all’improvviso a esigenze diverse.» «Ma finora?» «A quanto pare, Tanayama aveva lasciato un messaggio dicendo che ti era stato promesso un posto a bordo… Un gesto nobile… non me lo sarei mai aspettato da lui. Koropatsky è stato così gentile da accennare a quel messaggio, oggi, quando ho affrontato l’argomento. Sai, visto il successo del volo, mi è sembrato il momento giusto per parlargliene.» «Bene! Tanayama me lo aveva promesso a voce. Sono contento che abbia lasciato una testimonianza concreta.» «Come mai quella promessa? Ti spiace dirmelo? Secondo me, Tanayama era il classico tipo che non fa niente per niente.» «È vero. Avrei partecipato al viaggio solo se ti avessi portata sulla Terra perché lavorassi al volo ultraluce. Come senz’altro ricorderai, la mia missione si è conclusa felicemente.» Tessa sbuffò. «Dubito che il tuo governo si sia impegnato solo per questo motivo. Koropatsky ha detto che in circostanze normali non si sentirebbe obbligato a mantenere le promesse di Tanayama… però, tu sei stato su Rotor qualche anno, quindi questa tua conoscenza particolare potrebbe rivelarsi utile, secondo lui. Per me, può darsi che dopo tredici anni tu non conosca più tanto bene Rotor, comunque non ho detto nulla, perché dopo il volo sperimentale ero di ottimo umore, e ho deciso che, per il momento, ti amavo.» Fisher sorrise. «Mi sento sollevato, Tessa. Spero che anche tu parteciperai al primo viaggio. Hai messo bene in chiaro questo punto?» Tessa Wendel spostò la testa all’indietro di alcuni centimetri, quasi volesse mettere a fuoco meglio Crile Fisher. «È stata la parte più difficile, mio caro. Erano dispostissimi a mandarti incontro al pericolo, ma hanno spiegato che non potevano fare a meno di me. "Chi porterebbe avanti il progetto se dovesse succederle qualcosa?" hanno detto. E io ho risposto: "Uno qualsiasi dei miei venti assistenti, che sanno esattamente quello che so io sul volo ultraluce, e che hanno menti più giovani e pronte della mia". Una bugia, naturalmente, dato che in realtà nessuno è al mio livello, ma ha funzionato.» «Sai, non hanno tutti i torti. Devi proprio rischiare?» «Sì. Innanzitutto, voglio essere io a comandare la prima nave ultraluce, voglio questo riconoscimento. In secondo luogo, sono curiosa di vedere un’altra stella, e mi irrita che i rotoriani siano arrivati là prima di noi, sempre che…» Tessa si trattenne. «Infine, cosa più importante, credo, voglio andarmene dalla Terra» concluse, il tono quasi ringhioso. Più tardi, mentre erano a letto insieme, disse: «E quando verrà il momento, quando finalmente arriveremo là, sarà una sensazione meravigliosa!». Fisher non aprì bocca. Stava pensando a una bambina dai grandi occhi strani, e alla sorella, e via via che il torpore del sonno lo avvolgeva le due immagini sembrarono fondersi. 23 Volo aereo XLIV I lunghi viaggi attraverso un’atmosfera planetaria erano qualcosa di estraneo alla società delle Colonie. Su una Colonia, le distanze erano abbastanza brevi, e per gli spostamenti bastavano gli ascensori, le gambe, e occasionalmente le vetture elettriche. E per i viaggi interColonie c’erano i razzi. Molti coloni (almeno, nel Sistema Solare) erano stati nello spazio varie volte, e per loro muoversi nello spazio era una cosa normale, quasi come camminare. Tuttavia, solo pochissimi di loro erano stati sulla Terra, patria esclusiva dei viaggi atmosferici, e avevano sperimentato il volo aereo. I coloni, capaci di affrontare il vuoto quasi fosse un ambiente amico, provavano un terrore indicibile al pensiero di dover sentire il sibilo dell’aria all’esterno di un veicolo staccato dal suolo. Eppure gli spostamenti aerei, di tanto in tanto, erano necessari su Eritro. Come la Terra, Eritro era un mondo grande e, come la Terra, aveva un’atmosfera abbastanza densa (e respirabile). C’erano dei libri di consultazione sul volo aereo su Rotor, e perfino parecchi immigranti terrestri con esperienza in campo aeronautico. Così, la Cupola disponeva di due piccoli velivoli, piuttosto sgraziati, alquanto primitivi, incapaci di grandi accelerazioni e grandi velocità, che non consentivano evoluzioni particolari data la manovrabilità non eccessiva… ma tuttavia pratici. L’ignoranza di Rotor in fatto di ingegneria aeronautica presentava un lato positivo. I velivoli della Cupola erano molto più computerizzati dei loro equivalenti terrestri. Infatti, Siever Genarr li considerava dei robot complessi dalla forma di aeroplano. I fenomeni atmosferici su Eritro erano molto più lievi rispetto alla Terra, dato che la bassa intensità d’irradiazione di Nemesis non era sufficiente a provocare bufere e temporali di una certa violenza, quindi era meno probabile che un aereorobot dovesse affrontare un’emergenza. Molto meno probabile. Per cui, chiunque, in pratica, era in grado di pilotare i velivoli rozzi e grossolani della Cupola. Bastava dire all’aereo cosa si voleva che facesse. Se il messaggio non era chiaro, o se sembrava pericoloso, il cervello robotico del velivolo chiedeva un chiarimento. Mentre Marlene saliva in cabina, Genarr la osservò con una certa preoccupazione naturale, se non con l’aria terrorizzata di Eugenia, che assisteva alla scena tenendosi in disparte. («Non avvicinarti» le aveva ordinato Genarr, severo. «Soprattutto se hai intenzione di salutarci come se stessimo andando incontro a una catastrofe. Trasmetterai il panico alla ragazza.») Panico comprensibile, secondo Eugenia Insigna. Marlene era troppo giovane per ricordare un mondo dove il volo aereo era comune. Era rimasta abbastanza calma quando si era imbarcata sul razzo che le aveva portate su Eritro, ma come avrebbe reagito a quel volo senza precedenti attraverso l’aria? Invece, Marlene salì a bordo con un’espressione perfettamente tranquilla. Possibile che non afferrasse la situazione? Genarr chiese: «Marlene, cara, sai cosa faremo, vero?». «Sì, zio Siever. Mi mostrerai Eritro.» «Dall’aria. Volerai attraverso l’aria.» «Sì. Me l’hai già detto.» «E l’idea non ti preoccupa?» «No, zio Siever. Però tu sei preoccupato, parecchio.» «Sono solo preoccupato per te, cara.» «Starò benissimo.» Marlene lo osservò calma, mentre Genarr saliva a sua volta e prendeva posto. «Posso capire la preoccupazione di mia madre, ma tu sei più preoccupato di lei. Riesci a nasconderlo abbastanza, ma se vedessi il modo in cui continui a leccarti le labbra saresti imbarazzato. Stai pensando che se succederà qualcosa di brutto sarà colpa tua, e non sopporti l’idea. Comunque, non succederà nulla.» «Sei sicura, Marlene?» «Sicurissima. Su Eritro, nulla mi danneggerà.» «L’hai detto a proposito del Morbo, ma adesso non stiamo parlando del Morbo.» «Non importa. Nulla mi danneggerà, su Eritro.» Genarr scosse leggermente la testa, incredulo, incerto, e subito dopo si pentì di quel gesto, perché sapeva che Marlene leggeva quei segni con la massima facilità, quasi fossero lettere cubitali sullo schermo di un computer. Del resto, cosa cambiava? Se si fosse trattenuto e avesse assunto la rigidezza e l’impassibilità di una statua, Marlene se ne sarebbe accorta ugualmente. «Ora entreremo in un compartimento stagno e ci rimarremo per un po’, così potrò controllare la reattività del cervello dell’aereo» spiegò Genarr. «Poi supereremo un’altra porta, e l’aereo si alzerà nell’aria. Ci sarà un effetto di accelerazione, e verrai spinta indietro contro lo schienale, e ci muoveremo nell’aria. Lo capisci, spero…» «Non ho paura» disse Marlene, tranquilla. L L’aereo manteneva la sua rotta costante sorvolando un paesaggio arido di colline ondulate. Genarr sapeva che Eritro era geologicamente vivo, e sapeva anche che, stando ai pochi studi geologici compiuti, in alcuni periodi della sua storia quel mondo era stato montuoso. C’erano ancora delle montagne qui e là nell’emisfero cismegano, l’emisfero in cui il cerchio congestionato del pianeta Megas, attorno al quale orbitava Eritro, galleggiava quasi immobile nel cielo. Lì nell’emisfero transmegano, comunque, pianure e colline erano la principale caratteristica geografica dei due grandi continenti. Per Marlene, che non aveva mai visto una montagna in vita sua, anche le basse colline erano uno spettacolo eccitante. Su Rotor c’erano dei rigagnoli, naturalmente, e osservando Eritro da lassù i suoi fiumi sembravano identici ai ruscelletti rotoriani. "Marlene rimarrà sorpresa quando li vedrà più da vicino" rifletté Genarr. Marlene guardò incuriosita Nemesis, che aveva oltrepassato il punto meridiano calando verso ovest. «Non si muove, vero, zio Siever?» «Si muove» rispose Genarr. «O almeno, Eritro gira rispetto a Nemesis, ma gira solo una volta al giorno, mentre Rotor gira una volta ogni due minuti. Facendo un confronto tra Eritro e Rotor, Nemesis, vista da Eritro, si muove a una velocità circa settecento volte minore. Quindi sembra immobile, ma non è completamente immobile.» Poi, lanciando una rapida occhiata a Nemesis, disse: «Non hai mai visto il Sole della Terra, il Sole del Sistema Solare… o se lo hai visto, non lo ricordi, dal momento che eri una bambina allora. Il Sole era molto più piccolo visto dalla posizione in cui si trovava Rotor nel Sistema Solare…». «Più piccolo?» fece Marlene, sorpresa. «Secondo il computer, è Nemesis la stella più piccola.» «In realtà, sì. Però la distanza tra Rotor e Nemesis è molto minore della distanza che un tempo separava Rotor dal Sole, quindi Nemesis sembra più grande.» «Siamo a quattro milioni di chilometri da Nemesis, vero?» «Ma eravamo a centocinquanta milioni di chilometri dal Sole. Se fossimo così lontani da Nemesis, riceveremmo meno dell’uno per cento della luce e del calore che riceviamo ora. E se fossimo ad appena quattro milioni di chilometri dal Sole, ci volatilizzeremmo. Il Sole è molto più grande, molto più luminoso e molto più caldo di Nemesis.» Marlene non stava guardando Genarr, ma a quanto pareva il suo tono di voce era sufficiente. «Da come parli, zio Siever, ho l’impressione che ti piacerebbe essere ancora accanto al Sole.» «Sono nato là, quindi a volte soffro di nostalgia.» «Ma il Sole è così caldo e luminoso. Dev’essere pericoloso.» «Non lo guardavamo. E non dovresti guardare nemmeno Nemesis troppo a lungo. Basta guardare, cara.» Genarr lanciò un’altra rapida occhiata a Nemesis, comunque. Era sospesa nel cielo occidentale, rossa e immensa, diametro apparente quattro gradi di arco, o otto volte quello del Sole visto dalla vecchia posizione di Rotor. Era un cerchio di luce rossa tranquillo, ma Genarr sapeva che di tanto in tanto, raramente, s’infiammava e per pochi minuti su quella faccia serena appariva una chiazza bianca dolorosa per gli occhi di chi osservava. Le macchie solari di lieve entità, rosso scuro, erano più comuni, ma non così evidenti. Sottovoce, Genarr diede un ordine all’aereo, che virò in maniera tale da volgere a Nemesis la parte posteriore. Marlene, pensosa, guardò un’ultima volta la stella, poi si girò, concentrandosi sul panorama di Eritro che scorreva sotto di loro. «Ci si abitua a questa distesa ininterrotta color rosa» disse. «Dopo un po’, non sembra più così rosa.» Anche Genarr l’aveva notato. I suoi occhi cominciavano a cogliere tonalità e sfumature diverse, e adesso quel mondo sembrava meno monocromatico. I fiumi e i laghetti erano più rossastri e più scuri del terreno, e il cielo era scuro. L’atmosfera di Eritro diffondeva in minima parte la luce rossa di Nemesis. L’aspetto più scoraggiante di Eritro, comunque, era la sterilità del suolo. Rotor, per quanto su scala ridotta, aveva campi verdi, grano giallo, frutta multicolore, animali rumorosi… tutti i colori e i suoni caratteristici di un luogo abitato dall’uomo. Lì, solo silenzio e cose inanimate. Marlene aggrottò le ciglia. «C’è vita su Eritro, zio Siever…» Genarr non capì se Marlene stesse facendo un’affermazione, gli stesse rivolgendo una domanda, o stesse rispondendo al pensiero rivelato dal suo linguaggio corporeo. Stava sottolineando qualcosa, o voleva essere rassicurata? «Certo. Parecchia» spiegò Genarr. «E diffusa ovunque. Non è solo nell’acqua. Ci sono procarioti anche nel sottilissimo strato di acqua attorno ai granelli di terreno.» Poco dopo, all’orizzonte apparve l’oceano; dapprima era semplicemente una linea scura, che si trasformò in una fascia sempre più ampia via via che il velivolo si avvicinava. Genarr guardò Marlene con la coda dell’occhio, osservando le sue reazioni. Naturalmente, la ragazza aveva letto degli oceani terrestri, e doveva avere visto delle immagini olovisive, ma non c’era nulla che potesse preparare all’esperienza diretta. Genarr, che una volta (una volta!) era stato sulla Terra come turista, aveva visto la sponda di un oceano. Però non aveva mai sorvolato un oceano, non si era mai allontanato dalla terraferma, e non era sicuro delle proprie reazioni. L’oceano scorse sotto di loro, e la sponda diventò una linea più chiara alle loro spalle, e rimpicciolì sempre più, fino a scomparire. Genarr guardò giù provando una strana sensazione alla bocca dello stomaco. Ricordò le parole di un poema arcaico che parlava del "mare scuro come vino". Sotto di loro, l’oceano assomigliava in effetti a una massa ondeggiante di vino rosso, con chiazze di schiuma rosa qui e là. Non c’erano punti di riferimento in quella distesa d’acqua smisurata, e nemmeno punti dove atterrare. Il concetto stesso di «ubicazione» non significava più nulla. Eppure Genarr sapeva che per ritornare bastava ordinare all’aereo di riportarli a terra. Il computer di bordo controllava sempre la posizione in base alla velocità e alla direzione seguita, e sapeva dov’era la terraferma… conosceva perfino la posizione della Cupola. Passarono sotto a uno spesso banco di nubi, e l’oceano diventò nero. Una parola di Genarr, e l’aereo salì, portandosi al di sopra delle nuvole. Nemesis tornò a brillare, mentre in basso l’oceano non era più visibile. C’era invece un mare di goccioline rosa che fluttuavano e si sollevavano qui e là, e di tanto in tanto all’esterno dei finestrini scorrevano brandelli di nebbia. Poi le nubi si aprirono e nello squarcio si scorse di nuovo il mare rosso vino. Marlene osservò la scena a bocca aperta, respirando piano. «È tutta acqua, vero, zio Siever?» mormorò. «Migliaia di chilometri, in ogni direzione, Marlene… e profonda dieci chilometri in alcuni punti.» «Se si cade lì dentro, si annega, immagino…» «Non preoccuparti. Questo aereo non cadrà nell’oceano.» «Lo so» disse Marlene, sbrigativa. C’era un altro spettacolo da mostrarle, pensò Genarr. Marlene interruppe il flusso dei suoi pensieri. «Ti stai agitando di nuovo, zio Siever.» Stava abituandosi a dare per scontata la capacità di penetrazione di Marlene, rifletté Genarr divertito. «Non hai mai visto Megas, e mi stavo chiedendo se fosse il caso di mostrartelo. Sai, Eritro presenta sempre la stessa faccia a Megas, e la Cupola è stata costruita nell’emisfero opposto, quindi Megas non è mai nel nostro cielo. Continuando a volare in questa direzione, però, entreremo nell’emisfero cismegano, e vedremo sorgere Megas all’orizzonte.» «Mi piacerebbe vederlo.» «Allora lo vedrai, ma ti avviso… Megas è grande, molto grande, quasi il doppio di Nemesis, e sembra quasi che stia per caderci addosso. È una vista che certe persone non riescono a sopportare. Non cadrà, però. È impossibile. Cerca di ricordarlo.» Proseguirono, salendo più in alto e aumentando la velocità. L’oceano sotto di loro era una distesa increspata ininterrotta, oscurata di tanto in tanto dalle nubi. A un certo punto, Genarr disse: «Se guardi di fronte a te, un po’ a destra, comincerai a scorgere Megas all’orizzonte. Andremo in quella direzione». All’inizio sembrava solo una piccola chiazza di luce lungo l’orizzonte, ma crebbe lentamente, espandendosi. Poi, d’un tratto, l’arco sempre più ampio di un cerchio rosso cupo si innalzò sopra l’orizzonte. Era nettamente più scuro di Nemesis, ancora visibile sulla destra alle loro spalle, un po’ più bassa nel cielo. Mentre Megas ingrandiva, ben presto apparve evidente che non si trattava di un cerchio luminoso intero, ma di un semicerchio, piuttosto. «Ecco… questo è quello che chiamano «fasi», vero?» fece Marlene, con interesse. «Esatto. Vediamo solo la parte illuminata da Nemesis. Man mano che Eritro gira attorno a Megas, sembra che Nemesis si avvicini sempre più a Megas, e noi vediamo una percentuale sempre più piccola della metà illuminata del pianeta. Poi quando Nemesis si trova appena sopra Megas, o appena sotto, vediamo soltanto una sottile curva luminosa che segna il bordo di Megas, l’unica parte visibile del suo emisfero illuminato. A volte Nemesis si sposta dietro Megas, e abbiamo un eclisse. Allora compaiono tutte le stelle fioche, non solo le più luminose che si vedono anche quando Nemesis è nel cielo. Durante l’eclisse, si vede un grande cerchio di oscurità che non contiene nemmeno una stella, e quel cerchio indica la posizione di Megas. Quando Nemesis riappare sull’altro lato, a poco a poco si scorge di nuovo una sottile curva luminosa.» «Meraviglioso!» esclamò Marlene. «È come uno spettacolo in cielo. E guarda Megas… tutte quelle strisce che si muovono…» Attraversavano la parte illuminata del globo, spesse, rossobruno, venate di arancione, e si contorcevano lentamente. «Sono fasce di perturbazione, con venti terribili che soffiano in tutte le direzioni» spiegò Genarr. «Se guardi attentamente, vedrai delle macchie che si formano, si espandono, si spostano un po’ e poi spariscono.» «È proprio come uno spettacolo olovisivo» commentò Marlene, estasiata. «Perché la gente non lo guarda in continuazione?» «Gli astronomi lo fanno. Lo osservano tramite degli strumenti computerizzati situati in questo emisfero. Anch’io l’ho visto nel nostro Osservatorio. Sai, avevamo un pianeta come questo nel Sistema Solare. Si chiama Giove, ed è ancor più grande di Megas.» Ormai, il pianeta si stagliava completamente sopra l’orizzonte, simile a un pallone parzialmente sgonfio, afflosciato lungo la parte sinistra. «È bellissimo» disse Marlene. «Se la Cupola fosse in questo emisfero di Eritro, tutti potrebbero guardarlo.» «Be’, no, Marlene. C’è un problema. Alla maggior parte della gente Megas non piace. Te l’ho detto… certi hanno l’impressione che Megas stia per cadergli addosso, e questo li spaventa.» Marlene sbottò spazientita: «Solo poche persone avranno in testa un’idea così sciocca». «Solo poche persone, all’inizio… ma le idee sciocche possono essere contagiose. La paura si diffonde, e le persone che di per sé non avrebbero paura alla fine si lasciano condizionare dai vicini che invece hanno paura. Non hai mai notato questo fenomeno?» «Oh, sì, certo» rispose Marlene, con una punta di amarezza. «Se un ragazzo pensa che una ragazza sia carina, lo pensano tutti. Cominciano a competere…» S’interruppe, come imbarazzata. «Bene, questa paura contagiosa è uno dei motivi per cui abbiamo costruito la Cupola nell’altro emisfero. Inoltre, dato che Megas è sempre presente nel cielo, in questo emisfero le osservazioni astronomiche sono più difficili. Ma… penso sia ora di rientrare. La conosci, tua madre. Sarà in preda al panico.» «Chiamala e dille che stiamo bene.» «Non è necessario. Questo aereo invia dei segnali in continuazione. Eugenia sa che stiamo bene… fisicamente. Ma non è di questo che si preoccupa» soggiunse Genarr, e si batté sulla tempia in modo eloquente. Marlene si afflosciò sul sedile assumendo un’espressione contrariata. «Che seccatura! Lo so che tutti diranno: "Fa così solo perché ti vuole bene", però è una bella seccatura. Perché non si fida di me quando le dico che non mi accadrà nulla?» «Perché ti vuole bene, proprio come tu vuoi bene a Eritro» rispose Genarr, dando istruzioni all’aereo per il ritorno. Il viso di Marlene si illuminò subito. «Oh, certo che voglio bene a Eritro.» «Già. Si vede benissimo dalle tue reazioni.» E Genarr si chiese come avrebbe reagito Eugenia Insigna a quella notizia. LI Eugenia ebbe una reazione furiosa. «Come sarebbe a dire… Marlene ama Eritro? Come può amare un mondo morto? Le hai fatto il lavaggio del cervello, per caso? L’hai convinta ad amare Eritro per qualche motivo?» «Eugenia, ragiona. Credi davvero che sia possibile fare il lavaggio del cervello a Marlene? Sei mai riuscita a condizionarla, tu?» «Allora, cos’è successo?» «A dire il vero, io ho cercato di mostrarle gli aspetti sgradevoli o spaventosi. Se mai, ho provato a condizionarla negativamente perché detestasse Eritro. So per esperienza che i rotoriani, cresciuti nello spazio limitato di una Colonia, detestano le dimensioni smisurate di Eritro… detestano la sua luce rossa, l’oceano enorme, le nubi cupe, Nemesis, e soprattutto Megas. Tutte queste cose tendono a deprimerli e a spaventarli. E io ho mostrato tutte queste cose a Marlene. L’ho portata sull’oceano, poi ci siamo spinti abbastanza in là da vedere bene Megas sopra l’orizzonte.» «E…?» «E Marlene è rimasta imperterrita. Ha detto che si era abituata alla luce rossa, che a un certo punto non le sembrava più così orribile. L’oceano non l’ha spaventata affatto, e soprattutto ha trovato Megas interessante, divertente.» «Non posso crederci.» «Devi crederci. È la verità.» Eugenia rifletté alcuni istanti poi, riluttante, disse: «Forse è un sintomo… forse significa che Marlene è già stata contagiata dal… dal…». «Dal Morbo. Non appena siamo rientrati l’ho fatta sottoporre a un’altra analisi cerebrale. Non abbiamo ancora i risultati completi, ma stando all’esame preliminare non c’è nessun cambiamento. La struttura mentale cambia in modo netto anche in presenza di un caso leggero. No, Marlene non ha proprio nulla. Comunque, mi è appena venuta in mente una cosa interessante. Sappiamo che Marlene è perspicace, che riesce a cogliere tutti i piccoli particolari. Capta i sentimenti degli altri. Ma non hai mai notato il contrario, o qualcosa che possa far pensare al fenomeno opposto? Trasmette anche i suoi sentimenti agli altri?» «Dove vuoi arrivare? Non capisco.» «Marlene sa quando sono incerto e un po’ apprensivo, per quanto io cerchi di nasconderlo… o sa che sono calmo e tranquillo. Ma se fosse lei a costringermi o a condizionarmi trasmettendomi l’incertezza e l’apprensione… o la calma e la tranquillità? È possibile? Se capta, può anche imporre?» Eugenia lo fissò incredula. «Questa è un’assurdità bella e buona!» sbottò con voce strozzata. «Può darsi. Ma non hai mai notato un comportamento di questo tipo, un’influenza di questo tipo, da parte di Marlene? Pensaci.» «Non c’è bisogno che ci pensi. Non ho mai notato niente del genere.» «No…» borbottò Genarr. «Immagino di no. Sicuramente, le piacerebbe fare in modo che tu ti preoccupassi meno per lei, e mi pare proprio che non ci riesca. Be’… Però, se ci limitiamo a considerare la sua capacità percettiva, senza dubbio questa capacità si è acuita da quando Marlene è arrivata su Eritro. Sei d’accordo?» «Sì.» «E non è solo questo. Adesso Marlene è particolarmente intuitiva. Sa di essere immune al Morbo. È sicura che su Eritro non le accadrà nulla di spiacevole. Ha fissato l’oceano con la massima tranquillità, sicurissima che l’aereo non sarebbe precipitato e lei non sarebbe annegata. Aveva questo atteggiamento su Rotor? In certe circostanze è normale che un giovane si senta incerto e insicuro… L’hai mai vista incerta, insicura, su Rotor?» «Sì! Naturalmente!» «Però qui è cambiata, è un’altra. È completamente sicura di sé. Perché?» «Non lo so.» «Eritro la sta influenzando? No, no, non mi riferisco al Morbo. Ci sarà qualche altro effetto? Qualcosa di completamente diverso? Se me lo domando, è perché l’ho provato di persona.» «Provato, cosa?» «Un certo ottimismo riguardo Eritro. La desolazione non mi ha disturbato, e nemmeno tutto il resto. Certo, Eritro non ha mai suscitato in me un senso di ripugnanza o di disagio particolarmente intenso, però non mi è mai piaciuto. Ma durante questo viaggio con Marlene, per la prima volta in dieci anni, mi è quasi piaciuto, ecco. Forse il piacere di Marlene era contagioso, ho pensato… o forse era lei che riusciva a trasmettermelo in qualche modo. O può darsi che l’influenza che Eritro esercita su di lei, quale che sia, influenzi anche me… in presenza di Marlene.» «Siever, credo che faresti meglio a sottoporti a un’analisi cerebrale come Marlene» disse Eugenia, sarcastica. Genarr aggrottò le ciglia. «Pensi che non l’abbia fatto? Da quando mi trovo su Eritro, mi sottopongo a dei controlli periodici. Non c’è stata nessuna alterazione, a parte quelle inevitabili provocate dal processo di invecchiamento.» «Ma hai controllato la tua struttura mentale dopo essere rientrato dal viaggio in aereo?» «Certo. Subito. Non sono stupido. L’analisi completa non è ancora pronta, però dall’esame preliminare non risulta nessun cambiamento.» «Allora, cos’hai intenzione di fare a questo punto?» «La cosa logica. Marlene ed io lasceremo la Cupola, usciremo sulla superficie di Eritro.» «No!» «Prenderemo delle precauzioni. Sono già stato all’esterno.» «Tu, forse» disse Eugenia, ostinata. «Marlene, mai.» Genarr sospirò. Girandosi, fissò la finestra finta nella parete dell’ufficio, quasi stesse cercando di penetrare con lo sguardo quella barriera e di vedere il paesaggio rossastro che si nascondeva là dietro. Poi tornò a voltarsi verso Eugenia. «Là fuori c’è un mondo nuovo e immenso, che appartiene solo a noi» disse. «Possiamo prenderlo e trasformarlo tenendo conto della lezione del passato, evitando di commettere gli errori sciocchi commessi col nostro mondo originario. Questa volta possiamo costruire un mondo valido, pulito, decente. Possiamo abituarci alla sua luce rossa. Possiamo renderlo vivo con le nostre piante e i nostri animali. Possiamo far prosperare la terra e il mare e imprimere al pianeta una spinta evolutiva.» «E il Morbo?» «Potremmo eliminarlo, e fare di Eritro un luogo ideale per noi.» «Se eliminiamo il calore e la gravità e modifichiamo la composizione chimica, anche Megas può trasformarsi in un luogo ideale.» «Sì, Eugenia, però devi ammettere che il Morbo rientra in una categoria diversa rispetto al calore, alla gravità, e alla chimica planetaria.» «Ma è altrettanto letale.» «Eugenia, mi pare di averti detto che Marlene è la persona più importante che abbiamo.» «Per me, certamente.» «Per te, è importante solo perché è tua figlia. Per noi altri, è importante per quello che può fare.» «E cosa può fare? Interpretare il nostro linguaggio corporeo? Giocarci qualche scherzetto?» «È convinta di essere immune al Morbo. Se è immune, potremmo scoprire…» «Se è immune. No, è una fantasia infantile, e lo sai. Non aggrapparti a qualcosa di così inconsistente.» «C’è un mondo là fuori, e io lo voglio.» «Mi sembra di sentire parlare Pitt. Per avere quel mondo, vuoi mettere a repentaglio mia figlia?» «Nella storia umana, si è messo in gioco molto di più per molto meno.» «Ah, bell’esempio la storia umana, allora. In ogni caso, sta a me decidere. È mia figlia.» E Genarr, la voce bassa e colma di rammarico, disse: «Ti amo, Eugenia, ma ti ho persa una volta. Ho sognato di provare a cancellare questa perdita, magari… ma adesso temo che dovrò perderti di nuovo, e per sempre. Perché, vedi, sono costretto a dirti che non sta a te decidere. E non sta nemmeno a me. Sta a Marlene decidere. E qualsiasi decisione prenda, la metterà in pratica, in qualche modo. E dato che può darsi benissimo che Marlene abbia la capacità di conquistare un mondo e di offrirlo al genere umano, io l’aiuterò fino in fondo, anche se tu sei contraria. Devi accettarlo, Eugenia… ti prego». 24 Rivelatore LII Orile Fisher studiò l’Ultraluce, impassibile. Era la prima volta che la vedeva, e lanciando una rapida occhiata a Tessa Wendel notò che la scienziata stava sorridendo, senza dubbio orgogliosa della propria creazione. L’Ultraluce si trovava in una enorme caverna, all’interno di una tripla rete di sicurezza. C’erano degli esseri umani presenti, ma la maggior parte della manodopera era costituita da robot computerizzati (nonumanoidi). Fisher aveva visto molte astronavi, modelli diversi destinati agli impieghi più disparati, però non ne aveva mai vista una come l’Ultraluce… una dall’aspetto così ripugnante. Se l’avesse vista senza sapere cos’era, forse non avrebbe nemmeno intuito che si trattava di un’astronave. Cosa poteva dire, allora? Non voleva fare arrabbiare Tessa. E d’altra parte, era chiaro che Tessa voleva la sua opinione e si aspettava degli elogi. Così, il tono piuttosto spento, Crile Fisher disse: «Ha una grazia strana, misteriosa… ricorda abbastanza una vespa…». Tessa aveva sorriso all’espressione "una grazia strana, misteriosa", e Fisher si era reso conto di avere scelto le parole giuste. Poi però la scienziata sbottò: «Che significa, "ricorda abbastanza una vespa"?» «Mi riferisco a un insetto» spiegò Crile. «Lo so che su Adelia non siete molto pratici di insetti.» «Li conosciamo, gli insetti» replicò Tessa. «Non avremo l’abbondanza caotica della Terra…» «Probabilmente non avete le vespe. Sono insetti che pungono, piuttosto simili a…» Crile indicò L’Ultraluce. «Anche le vespe hanno un grosso rigonfiamento anteriore, un altro rigonfiamento dietro, e un raccordo centrale stretto.» «Davvero?» Tessa guardò l’Ultraluce e nei suoi occhi brillò una scintilla improvvisa di interesse. «Quando puoi, trovami l’immagine di una vespa. Può darsi che capisca meglio la struttura della nave vedendo l’insetto… o viceversa.» «Ma allora, come mai ha questa forma, se non è stata ispirata dalla vespa?» «Ci serviva una geometria che massimizzasse la possibilità di spostamento dell’intera nave come blocco compatto. L’ipercampo, in realtà, tende a estendersi verso l’esterno cilindricamente, all’infinito, e noi lo lasciamo libero, entro certi limiti. D’altra parte, bisogna pur controllarlo, non si può cedere completamente, e infatti si deve isolarlo nei rigonfiamenti. L’ipercampo è appena all’interno dello scafo, alimentato e racchiuso da un intenso campo elettromagnetico alternato, e… Ma a te non interessano tutte queste cose, vero?» «Non credo» disse Fisher, abbozzando un sorriso. «Ho sentito abbastanza. Ma dato che finalmente ho avuto il permesso di vedere questa…» «Su, non fare l’offeso, adesso.» Tessa gli cinse la vita con il braccio. «Potevano entrare solo gli addetti ai lavori. Certe volte non sopportavano neppure la mia presenza. Secondo me, continuavano a brontolare, a lamentarsi di avere tra i piedi una colona sospetta e troppo ficcanaso per i loro gusti, e scommetto che se non fossi stata io a inventare l’ipercampo mi avrebbero subito sbattuta fuori. Adesso, però, la situazione si è normalizzata abbastanza, e ho potuto fare in modo che tu venissi qui a vedere la nave. In fin dei conti, un giorno anche tu sarai a bordo di questa nave, e volevo che l’ammirassi.» Tessa esitò, quindi aggiunse: «E che mi ammirassi». Crile la guardò. «Lo sai che ti ammiro, Tessa, indipendentemente da tutto questo.» E le cinse le spalle. «Continuo a invecchiare, Crile… è un processo inarrestabile. E sono anche soddisfattissima di te… incredibile. Sono con te da quasi otto anni, e non ho più sentito il desiderio di conoscere altri uomini, di fare nuove esperienze in questo campo.» «È tanto grave la cosa? Forse è dipeso solo dal progetto, sei stata troppo impegnata. Adesso che la nave è ultimata, probabilmente proverai un senso di liberazione, e avrai abbastanza tempo per riprendere la caccia.» «No. Non avverto più quello stimolo, non l’avverto proprio. Ma… e tu? So che ti trascuro a volte…» «Nessun problema. Quando mi trascuri per il tuo lavoro, mi va benissimo. Desidero la nave quanto te, cara, e c’è un incubo che mi perseguita… la paura che quando la nave sarà finalmente pronta, noi saremo troppo vecchi e non ci lasceranno partire.» Fisher sorrise, ma era un sorriso mesto. «Tieni presente, Tessa, che non sei l’unica a invecchiare, che anch’io ho superato da un pezzo la gioventù. Tra meno di due anni, ne compirò cinquanta. Ma devo chiederti una cosa… e te la chiederò, anche se sono un po’ riluttante perché ho paura di rimanere deluso.» «Sentiamo.» «Sei riuscita a mostrarmi la nave, a farmi entrare in questo sancta sanctorum. Ecco, non penso che Koropatsky l’avrebbe permesso se il progetto non fosse ormai ultimato. Anche lui è un maniaco della sicurezza, quasi come Tanayama.» «Sì, per quanto riguarda l’ipercampo, la nave è pronta.» «Ha volato?» «Non ancora. Bisogna ancora sistemare alcune cose, ma non riguardano direttamente l’ipercampo.» «Saranno necessari dei voli di prova, immagino.» «Con un equipaggio a bordo, naturalmente. Senza equipaggio sarebbe inutile, perché non avremmo la certezza del perfetto funzionamento dei sistemi di sopravvivenza… non l’avremmo nemmeno usando degli animali.» «Chi parteciperà al primo viaggio?» «Dei volontari scelti tra i membri qualificati del progetto.» «E tu?» «Io sarò l’unica persona a non offrirsi volontaria. Io devo andare. Se dovesse verificarsi un’emergenza, voglio essere io a decidere il da farsi… non mi fiderei di nessun altro.» «Allora… vengo anch’io?» chiese Crile. «No.» L’espressione di Fisher si fece subito cupa di rabbia. «Ma gli accordi…» «Non parlavano dei voli di prova, Crile.» «E quando finiranno?» «Difficile dirlo. Dipende dai problemi che potrebbero sorgere. Se non ci sarà nessun intoppo, può darsi che due o tre voli bastino, che tutto si risolva nel giro di qualche mese» «Quando si farà il primo volo di prova?» «Non lo so, Crile. Stiamo ancora lavorando alla nave.» «Avevi detto che era pronta.» «Sì, per quel che riguarda l’ipercampo, è pronta. Ma stiamo installando i rivelatori neuronici.» «Cosa sono? Non me ne hai mai parlato.» Tessa Wendel non rispose. Si guardò attorno, pensierosa, poi disse: «Stiamo attirando l’attenzione, Crile, e ho il sospetto che certa gente qui non gradisca la tua presenza. Andiamo a casa». Fisher non si mosse. «Ah, dunque ti rifiuti di parlare. Anche se è una questione della massima importanza per me.» «Ne parliamo a casa.» LIII Crile Fisher era agitato, furibondo. Non aveva voluto sedersi e adesso sovrastava Tessa Wendel, che lo stava guardando accigliata dopo essersi accomodata scrollando le spalle sul divano bianco componibile. «Perché sei arrabbiato, Crile?» A Fisher tremavano le labbra. Le strinse, e attese un po’ prima di rispondere, quasi stesse cercando di imporsi la calma ricorrendo a un semplice sforzo muscolare. Infine disse: «Formando un equipaggio senza di me, si creerà un precedente. E io non partirò mai. C’è una cosa che va chiarita subito… tutti devono capire che io faccio parte dell’equipaggio della nave, sempre… sia adesso, sia durante il viaggio verso la Stella Vicina… e Rotor. Non voglio essere escluso». «Le tue sono conclusioni avventate. Non verrai escluso quando arriverà il momento cruciale. E poi la nave non è nemmeno pronta, per ora.» «Avevi detto che era pronta. Cosa sono questi rivelatori neuronici che tiri in ballo all’improvviso? È tutto un trucco per farmi star buono, per distrarmi, e filare con la nave prima che mi accorga di essere stato escluso. Ecco a cosa mirano. E tu fai il loro gioco.» «Crile, tu sei pazzo. L’idea del rivelatore neuronico è stata mia. Sono stata io a volerlo, a insistere.» Tessa lo fissò impassibile, sfidandolo con lo sguardo. «L’idea è stata tua?» esplose Crile. «Ma…» Tessa lo zittì alzando la mano. «È un progetto che abbiamo portato avanti di pari passo con la costruzione della nave. È una cosa che non rientra nel mio campo, ma per averla non ho dato un attimo di tregua ai neurofisici. Il motivo? Proprio perché voglio che tu sia a bordo della nave quando partirà per la Stella Vicina. Non capisci?» Crile scosse la testa. «Rifletti, Crile. Capiresti subito, se non fossi accecato da questa rabbia immotivata. È chiarissimo… Si tratta di un "rivelatore neuronico". Individua l’attività nervosa a distanza… l’attività nervosa complessa. In parole povere, individua la presenza dell ‘intelligenza.» Fisher la fissò. «Parli dello strumento che usano i medici negli ospedali…» «Certo. È uno strumento che viene impiegato abitualmente in medicina e in psicologia per individuare i disturbi mentali nella fase iniziale… ma a una distanza di metri. Io ho bisogno di un rivelatore utilizzabile a distanze astronomiche. Non è una nuova invenzione. È un vecchio strumento con un raggio d’azione ampliato enormemente. Crile, se Marlene è viva, sarà su Rotor… una Colonia in orbita chissà dove attorno alla stella. Non sarà facile localizzarlo, te l’ho detto. Se non lo troveremo in fretta, saremo sicuri che non sia là… o ci rimarrà il dubbio di essercelo lasciato sfuggire come un’isola nell’oceano o un asteroide nello spazio? E cosa faremo, allora? Continueremo a cercare per mesi, o anni, per controllare che non ci sia semplicemente sfuggito?» «E il rivelatore neuronico…» «Troverà Rotor.» «Ma non sarà ugualmente un’impresa ardua localizzare…» «No. L’universo è invaso da onde radio e onde luminose e radiazioni di ogni genere, e noi dovremo distinguere una fonte in mezzo a migliaia di altre. Si può fare, ma non è facile, e forse sarà un lavoro lungo. Comunque, la radiazione elettromagnetica tipica dell’attività neuronica complessa è un fenomeno unico. È improbabile che ci sia un’altra sorgente identica a quella che cerchiamo… o se ci sarà, sarà perché Rotor avrà costruito un’altra Colonia. Capito, adesso? Anch’io sono decisa a trovare tua figlia, ad aiutarti. Se non ti volessi sulla nave con noi, non farei tutto questo, no? Stai tranquillo, partirai.» Fisher parve confuso. «E hai costretto tutti quanti ad accontentarti?» «Ho un potere considerevole, Crile. E c’è dell’altro. È una cosa riservatissima… ecco perché non ho potuto parlartene là alla nave.» «Oh? Di che si tratta?» Il tono di Tessa Wendel si addolcì. «Crile, io penso spesso a te, più di quel che credi. Non immagini quanto desideri evitarti una delusione. E se non trovassimo nulla attorno alla Stella Vicina? E se il rivelatore ci dicesse che nei pressi della stella non c’è nessuna forma di vita intelligente? Dovremmo tornare subito a casa, a comunicare che non abbiamo trovato la minima traccia di Rotor? Su, Crile, adesso non abbatterti… La mancanza di radiazioni neuroniche nelle vicinanze della stella non dimostrerebbe nulla, non significherebbe necessariamente la morte di Rotor.» «Ah, no? E cosa significherebbe?» «Be’, può darsi che i rotoriani non siano stati soddisfatti della stella e abbiano deciso di proseguire… o che si siano fermati solamente per estrarre dagli asteroidi dei minerali di cui avevano bisogno, del materiale da costruzione, o per rinnovare i loro motori a microfusione.» «In questo caso, come faremo a trovarli?» «Sono partiti da quasi quattordici anni. Con l’iperassistenza, possono viaggiare solo alla velocità della luce. Se hanno raggiunto qualche stella e si sono insediati nelle sue vicinanze, la stella deve trovarsi entro un raggio di quattordici anni luce dalla Terra. Non sono molte le stelle comprese in questa distanza. Con la velocità ultraluce, possiamo raggiungerle tutte. Coi rivelatori neuronici, possiamo stabilire in breve tempo se Rotor si trova nelle vicinanze di una di queste stelle.» «Ma se stessero viaggiando nello spazio interstellare in questo momento? Come faremmo a individuarli?» «Non li individueremmo. Ma almeno le nostre probabilità di successo aumenteranno un po’ se in sei mesi esploreremo una dozzina di stelle usando il rivelatore neuronico, invece di dedicare lo stesso tempo a una ricerca inutile attorno a una sola stella. E se falliremo… perché, sì, dobbiamo renderci conto che possiamo fallire… almeno torneremo con parecchi dati su una dozzina di stelle… una nana bianca, una stella biancazzurra, una gemella del Sole, una binaria e via dicendo. Difficilmente faremo più di un viaggio in vita nostra, quindi tanto vale approfittarne e passare alla storia con un’impresa in grande stile, no, Crile?» «Credo che tu abbia ragione, Tessa» disse Fisher, pensieroso. «Perlustrare una dozzina di stelle senza trovare nulla sarà un duro colpo, certo, ma sarebbe molto peggio esplorare i dintorni di un’unica stella e rientrare tormentati dal dubbio, dal pensiero che Rotor avrebbe potuto essere altrove, in un punto che avremmo potuto raggiungere se avessimo continuato a esplorare senza problemi di tempo.» «Esattamente.» «Cercherò di ricordarlo» annuì mesto Crile. «Un’altra cosa… Il rivelatore neuronico potrebbe individuare la presenza di una intelligenza di origine extraterrestre. Sarebbe una scoperta sensazionale, da non lasciarsi sfuggire.» Fisher parve sorpreso. «Ma è improbabile, vero?» «Molto improbabile. Però, se questa intelligenza dovesse esistere, è importante che lo sappiamo, soprattutto se si trova entro un raggio di quattordici anni luce dalla Terra. Nell’universo non può esserci nulla di più interessante di un’altra forma di vita intelligente… o di più pericoloso.» «Che probabilità ci saranno di individuarla, se sarà di origine extraterrestre? I rilevatori neuronici sono stati costruiti per captare solo l’intelligenza umana. Secondo me, non solo non riconosceremo una forma di vita aliena intelligente, non capiremo nemmeno di trovarci di fronte a un organismo vivente.» «Forse non riusciremo a riconoscere la vita, ma non possiamo non riconoscere l’intelligenza, a mio avviso, ed è l’intelligenza che stiamo cercando. Per quanto aliena, per quanto irriconoscibile, l’intelligenza deve comportare la presenza di una struttura complessa, molto complessa… complessa almeno quanto il cervello umano. E soprattutto, deve comportare l’interazione elettromagnetica. L’attrazione gravitazionale è troppo debole; le interazioni nucleari forte e debole hanno un raggio troppo breve. E questo nuovo ipercampo ci cui ci serviamo per il volo ultraluce, non esiste in natura per quel che ne sappiamo, ma esiste solo quando è creato dall’intelligenza. "Il rivelatore neuronico è in grado di individuare il campo elettromagnetico altamente complesso che caratterizza l’intelligenza, indipendentemente dalla forma o dalla struttura chimica dell’organismo intelligente. E noi saremo pronti ad apprendere o a fuggire. Per quanto riguarda le forme di vita non intelligenti, è difficilissimo che possano essere pericolose per una civiltà tecnologica come la nostra… anche se qualsiasi forma di vita aliena, perfino allo stadio di virus, sarebbe senza dubbio interessante.» «E perché tutto questo deve rimanere segreto?» «Perché ho il sospetto… no, anzi, lo so… perché so che i membri del Congresso Mondiale vorranno che torniamo al più presto, così saranno sicuri della riuscita del progetto e potranno iniziare a costruire modelli più perfezionati di nave ultraluce basandosi sulla nostra esperienza col prototipo. Io vorrei vedere l’universo e farli aspettare, invece, se le cose andranno bene. Non dico che lo farò, però voglio essere io a decidere, voglio avere la possibilità di scelta. Se conoscessero le mie intenzioni, ho il sospetto che cercherebbero di equipaggiare la nave con delle persone più docili, più disposte ad obbedire agli ordini.» Fisher sorrise debolmente. «Che c’è, Crile?» chiese Tessa. «E se non ci fosse traccia di Rotor? Cosa faresti? Vorresti tornare sulla Terra deluso? Avresti l’universo a portata di mano, ma rinunceresti?» «No. Sto solo chiedendomi quanto ci vorrà per installare i rivelatori e tutti gli altri marchingegni che potrebbero venirti in mente. Tra un paio d’anni raggiungerò i cinquanta. A cinquant’anni, gli agenti dell’Ufficio devono abbandonare il servizio attivo. Ricevono incarichi amministrativi e rimangono sulla Terra dietro una scrivania, e non possono più viaggiare nello spazio.» «Be’?» «Tra un paio d’anni, non avrò più i requisiti necessari per il viaggio. Diranno che sono troppo vecchio, e non avrò l’universo a portata di mano, in conclusione.» «Sciocchezze! Io partirò, e ho già superato i cinquanta.» «Tu sei un caso speciale. È la tua nave, no?» «Anche tu sei un caso speciale, dal momento che insisterò per averti a bordo. E poi, non sarà facile trovare le persone adatte per l’Ultraluce. Sarà già un problema convincere qualcuno a offrirsi volontario. E dovranno essere volontari… perché non possiamo rischiare di affidare la nave a delle reclute maldisposte e spaventate.» «Perché non dovrebbero offrirsi volontari?» «Perché sono terrestri, mio caro Crile, e per quasi tutti i terrestri lo spazio è sinonimo di orrore. L’iperspazio è qualcosa di ancor più orribile, quindi la gente si tirerà indietro. Ci saremo noi due, e ci serviranno altri tre volontari e, credimi, non sarà facile trovarli. Ho tastato il terreno, ho sentito parecchie persone, e per il momento ho solo due elementi validi che hanno fatto una mezza promessa: ChaoLi e Henry Jarlow. La terza persona deve ancora saltar fuori. E anche se per caso i volontari poi fossero una dozzina, tu non sarai escluso perché io insisterò e ti vorrò al mio fianco come ambasciatore in previsione di un incontro con i rotoriani… se sarà necessario. E comunque ti prometto che la nave partirà prima che tu compia cinquant’anni.» Finalmente, Crile Fisher sorrise, risollevato. «Tessa, ti amo. Sai, ti amo davvero.» «No… non so se mi ami davvero, soprattutto quando lo dici con quel tono, come se fosse un’ammissione sorprendente per te. È strano, Crile, molto strano… sono quasi otto anni che ci conosciamo, che viviamo insieme, che facciamo l’amore, ma non l’hai mai detto una sola volta.» «No?» «Credimi, ho ascoltato. E sai cos’è strano, poi? Non ho mai detto che ti amo, eppure ti amo. Non era iniziata così, questa storia. Secondo te, cos’è successo?» Fisher rispose sottovoce: «Forse ci siamo innamorati a poco a poco e non ce ne siamo mai accorti. A volte può succedere, non credi?». E si sorrisero timidamente, quasi stessero chiedendosi che fare a questo punto. 25 Superficie LIV Eugenia Insigna era in ansia. Un’ansia profonda. «Credimi, Siever, non ho più dormito bene da quando l’hai portata fuori in aereo.» La sua voce degenerò in quello che, in una donna dal carattere meno fermo, avrebbe potuto essere descritto quasi come un piagnucolio. «Ha fatto un volo attraverso lo spazio aperto, è arrivata fino all’oceano, è rientrata dopo il crepuscolo… non le è bastato? Perché non la fermi?» «Perché io non la fermo?» disse Siever Genarr lentamente, quasi stesse assaporando la domanda. «Perché non la fermo? Eugenia, ormai non siamo più in grado di fermare Marlene.» «Questo è assurdo, Siever. È vigliaccheria, quasi. Ti nascondi dietro Marlene… vorresti farmi credere che è onnipotente.» «Non è vero, forse? Sei sua madre. Ordinale di stare nella Cupola.» Eugenia serrò le labbra. «Ha quindici anni. Non mi piace essere tirannica con lei.» «Al contrario. Ti piacerebbe moltissimo. Ma se proverai a comportarti in modo dispotico, Marlene ti guarderà con quei suoi occhi straordinari e dirà qualcosa tipo: "Mamma, ti senti in colpa per avermi privata di mio padre, quindi hai l’impressione che l’universo stia cospirando contro di te per punirti privandoti di tua figlia, e questa non è altro che sciocca superstizione".» Eugenia corrugò la fronte. «Siever, è la cosa più stupida che abbia mai sentito. Non penso e non provo niente del genere, nella maniera più assoluta.» «Certo, lo so. Stavo solo inventando qualcosa. Ma Marlene non inventerà nulla. Noterà le contrazioni del tuo pollice o il movimento della tua scapola o qualcos’altro, e capirà cos’è che ti disturba, che ti preoccupa, e te lo dirà, e sarà così vero, così vergognoso, che tu cercherai di difenderti in qualche modo, e alla fine cederai, l’accontenterai, piuttosto che permetterle di continuare a mettere a nudo la tua psiche strato dopo strato.» «Non dirmi che è quello che è successo a te.» «Non proprio. In fondo è affezionata a me, e io ho cercato di essere molto diplomatico con lei. Ma se dovessi contrariarla, tremo al pensiero di quello che mi accadrà, so già che sarà un’esperienza orribile. Senti, sono riuscito a guadagnare tempo, a trattenerla momentaneamente. Non negarmi questo merito. Voleva uscire subito dopo il viaggio in aereo. E io l’ho convinta ad aspettare fino alla fine del mese.» «Come hai fatto?» «Ricorrendo a un ragionamento estremamente cavilioso, te l’assicuro. È dicembre. Le ho detto che tra tre settimane inizierà il nuovo anno, almeno se ci basiamo sul calendario standard terrestre, e le ho chiesto: "E se festeggiassimo il 2237 facendolo coincidere con l’inizio della nuova era di esplorazione e colonizzazione di Eritro? Sarebbe il modo migliore per festeggiarlo, non credi?" Perché sai, Marlene vede la sua uscita sul pianeta sotto questa luce… come l’inizio di una nuova era. Il che peggiora la situazione.» «Perché?» «Perché non lo considera un capriccio personale, bensì qualcosa di importanza vitale per Rotor, o addirittura per l’umanità, forse. Soddisfare un piacere personale e definirlo un nobile contributo al benessere generale è il massimo per un essere umano. Giustifica qualsiasi cosa. Io l’ho fatto, e anche tu, e tutti quanti. Pitt lo fa, più di chiunque altro. Probabilmente si è convinto di respirare solo per fornire anidride carbonica alla flora rotoriana.» «Così, sfruttando la megalomania di Marlene, l’hai fatta aspettare.» «Sì, e abbiamo ancora un settimana di tempo per vedere se qualcosa le farà cambiare idea. Comunque, non si è lasciata ingannare dalle mie argomentazioni. Ha accettato di aspettare, però ha detto: "Trattenendomi, pensi di conquistarti almeno in piccola parte l’affetto di mia madre, vero, zio Siever? Per te l’arrivo dell’anno nuovo non ha nessuna importanza, si vede benissimo".» «È stata sgarbata e crudele, Siever.» «Ha solo detto la verità, Eugenia. Anche la verità è crudele, a volte.» Eugenia distolse lo sguardo. «Il mio affetto? Che posso dire…» Genarr si affrettò a intervenire. «No, non c’è bisogno di parlare. In passato ti ho detto che ti amavo, e mi accorgo che invecchiando non è cambiato nulla, in pratica. Ma è un problema mio. Non mi hai mai trattato in modo ingiusto, scorretto. Non mi hai mai illuso. E se sono così sciocco da non riuscire ad accettare un no come risposta, la cosa non ti riguarda, no?» «La tua felicità mi riguarda, in ogni caso.» «Questo è molto importante.» Genarr abbozzò un sorriso. «Molto meglio di niente.» Eugenia abbassò gli occhi e preferì cambiare argomento, riprendendo a parlare della figlia. «Ma, Siever, se Marlene ha capito il tuo scopo, perché ha accettato di rimandare l’uscita?» «Non ti piacerà, Eugenia, ma è meglio che ti dica la verità. Marlene ha detto: "Aspetterò fino al nuovo anno, zio Siever, perché forse questo farà piacere alla mamma, e io sono dalla tua parte".» «Ha detto questo?» «Non tenerne conto, non prendertela con lei, ti prego. Evidentemente, l’ho incantata col mio fascino e il mio comportamento brillante, e Marlene pensa di farti un favore.» «È una paraninfa» osservò Eugenia, incerta se essere seccata o divertita. «In effetti ho pensato che se tu riuscissi a mostrare un certo interesse nei miei confronti, potremmo approfittarne per convincerla a fare qualsiasi cosa perché Marlene crederebbe di appoggiare ulteriormente la mia causa in questo modo… Solo che dovrebbe essere un interesse autentico altrimenti se ne accorgerebbe. E se fosse un interesse autentico, non sarebbe necessario per lei sacrificarsi… Capisci?» «Capisco che se non fosse per la perspicacia di Marlene, dovrei guardarmi dalla tua mente machiavellica» rispose Eugenia. «Colto in flagrante, Eugenia.» «Be’, perché non facciamo la cosa più ovvia? La teniamo rinchiusa e alla fine la riportiamo su Rotor col razzonavetta.» «Legandole mani e piedi, immagino. A parte il fatto che secondo me non saremmo capaci di fare una cosa simile, diciamo che adesso capisco il punto di vista di Marlene. Comincio a pensare alla colonizzazione di Eritro… un mondo intero a nostra disposizione.» «E pieno di batteri che respireremo e che entreranno nel nostro cibo e nella nostra acqua.» Eugenia fece una smorfia. «E allora? In parte, li respiriamo, li beviamo e li mangiamo anche qui. Non possiamo isolare completamente la Cupola. E se è per questo, anche su Rotor respiriamo dei batteri, li beviamo e li mangiamo.» «Sì, però ci siamo adattati ai microorganismi di Rotor. Questi sono alieni.» «E meno pericolosi, quindi. La mancanza di adattamento è reciproca, se vale per noi vale anche per loro. A quanto pare, non possono assolutamente parassitare l’uomo. Saranno innocui come granelli di polvere.» «Non dimenticare il Morbo.» «Certo, quello è il vero problema, che esiste in ogni caso… anche in una situazione semplice come l’uscita di Marlene dalla Cupola. Naturalmente, prenderemo delle precauzioni.» «Che genere di precauzioni?» «Marlene indosserà una tuta protettiva, innanzitutto. Poi, io la seguirò. Fungerò da canarino.» «Da «canarino»? Che significa?» «Era un metodo che usavano sulla Terra alcuni secoli fa. I minatori scendevano nelle miniere portando con sé dei canarini… sai, quei piccoli uccelli gialli. Se l’aria diventava tossica, il canarino ne risentiva prima degli uomini e moriva, e gli uomini capivano che c’era pericolo e uscivano dalla miniera. In altre parole, se comincerò a comportarmi in modo strano, ci riporteranno dentro tutti e due senza perdere un attimo.» «Ma se Marlene dovesse essere colpita prima di te?» «No, non penso che accadrà. Marlene si sente immune. Lo ha detto tante volte che ho cominciato a crederle.» LV Eugenia Insigna non aveva mai atteso l’arrivo del nuovo anno concentrandosi in modo così penoso sul calendario. Non aveva avuto motivo di farlo, prima. Del resto, il calendario era una reliquia del passato, qualcosa di estraneo. Sulla Terra, l’anno iniziava segnando le stagioni, e le festività collegate alle stagioni… mezza estate, il solstizio d’inverno, la semina, il raccolto… coi loro nomi particolari. Crile le aveva spiegato gli aspetti complicati e oscuri del calendario col suo fare cupo e solenne; era un argomento che gli piaceva moltissimo, come tutte le cose che gli ricordavano la Terra. Eugenia lo aveva ascoltato con un misto di entusiasmo e di apprensione; con entusiasmo, perché voleva essere partecipe del suo interesse, dato che avrebbe potuto rafforzare la loro unione; con apprensione, perché temeva che il suo interesse per la Terra potesse allontanarlo da lei… come poi era successo. Strano che avvertisse ancora quella fitta dolorosa… ma, era più tenue adesso? In realtà, le sembrava di non ricordare la faccia di Crile, di rammentare solo il ricordo ormai. Permaneva solo il ricordo di un ricordo, adesso, tra lei e Siever Genarr? Eppure, era il ricordo di un ricordo a tenere legato Rotor al calendario. Rotor non aveva mai avuto stagioni. Aveva l’anno, naturalmente, perché (come tutte le Colonie del sistema TerraLuna, escludendo quindi solo quelle poche Colonie che ruotavano attorno a Marte o che erano in fase di costruzione nella fascia degli asteroidi) accompagnava la Terra nel suo viaggio intorno al Sole. Ma senza stagioni, l’anno non aveva nessun significato. E tuttavia, continuava a esistere, coi mesi e le settimane che lo formavano. Rotor aveva anche il giorno, un giorno artificiale di ventiquattr’ore, durante il quale la luce solare veniva lasciata entrare per dodici ore e bloccata per le altre dodici. Rotor avrebbe potuto scegliere una durata diversa, ma aveva adottato il giorno terrestre diviso in ventiquattr’ore di sessanta minuti, coi minuti di sessanta secondi. (I giorni e le notti almeno avevano una durata uniforme di dodici ore.) Occasionalmente sulle Colonie si era parlato di adottare un sistema diverso: numerare semplicemente i giorni e raggrupparli in decine e multipli di dieci. Quindi: decagiorni, ettogiorni, chilogiorni. E come sottomultipli: decigiorni, centigiorni, milligiorni. Ma in realtà era impossibile. Le Colonie non potevano introdurre ognuna un proprio sistema, perché per le comunicazioni e i commerci sarebbe stato il caos. E l’unico sistema unificato possibile era quello della Terra, dove viveva ancora il novantanove per cento dell’umanità, e, alla quale, la tradizione legava tuttora il restante un per cento. Il ricordo faceva sì che Rotor e tutte le Colonie seguissero un calendario che per loro non aveva alcun valore intrinseco. Ma adesso Rotor aveva lasciato il Sistema Solare, era un mondo isolato, solo. Non esistevano più il giorno o il mese o l’anno in senso terrestre. Non era nemmeno la luce del sole a separare il giorno dalla notte, perché la luce diurna di Rotor era artificiale, splendeva per dodici ore, poi si spegneva per altre dodici. La brusca precisione del passaggio non era interrotta neppure dall’oscuramento e dallo schiarimento graduale che avrebbe potuto simulare il crepuscolo e l’alba. Sembrava un particolare superfluo. E nell’ambito di quella divisione gli individui tenevano accesa la luce e la spegnevano a seconda dei loro capricci e delle loro esigenze, ma contavano i giorni in base al tempo della Colonia… che era quello della Terra. Perfino nella Cupola di Eritro, dove c’erano un giorno e una notte naturali che venivano usati indifferentemente come riferimento dalla gente che si trovava lì, nei calcoli e nei conteggi ufficiali si adottava il giorno della Colonia, che non corrispondeva a quello locale, che era ancora legato a quello della Terra (il ricordo di un ricordo). Adesso il movimento per l’abbandono del giorno come unità di misura fondamentale del tempo si stava rafforzando. Eugenia sapeva che Pitt era favorevole all’adozione del sistema decimale, eppure perfino Pitt esitava a proporla, temendo di suscitare un’opposizione accanita. Ma forse le cose erano destinate a cambiare. L’insieme disordinato e tradizionale delle settimane e dei mesi sembrava meno importante. Le festività tradizionali venivano ignorate con maggior frequenza. Eugenia, nel suo lavoro di astronoma, usava i giorni come unica unità significativa. Un giorno il vecchio calendario sarebbe morto, e nel futuro remoto sarebbero stati introdotti sicuramente nuovi metodi per misurare il tempo… un calendario galattico standard, forse. Ma adesso Eugenia si ritrovava a guardare quanto tempo mancava all’inizio del nuovo anno, un anno che iniziava arbitrariamente. Sulla Terra, almeno, l’anno nuovo iniziava nel periodo di un solstizio… solstizio d’inverno nell’emisfero settentrionale, solstizio d’estate in quello meridionale. Esisteva un rapporto con l’orbita della Terra attorno al Sole, rapporto che solo gli astronomi ricordavano in modo chiaro su Rotor. Ma adesso, anche se Eugenia era un’astronoma, l’unica cosa che caratterizzasse l’anno nuovo era l’imminente impresa di Marlene che si accingeva a uscire sulla superficie di Eritro… e quella data era stata scelta da Siever Genarr solo perché comportava un rinvio plausibile, ed Eugenia l’aveva accettata solo perché si stava interessando con uno zelo eccessivo dei sogni avventurosi di un’adolescente. Eugenia smise di seguire il corso involuto dei propri pensieri, tornando al presente, e si accorse che Marlene la stava fissando con aria solenne. (Quando era entrata così piano? O Eugenia era talmente immersa nelle proprie riflessioni da non avere sentito i passi?) «Ciao, Marlene» disse Eugenia, quasi in un sussurro. «Non sei felice, mamma» fece la ragazza con serietà. «Non c’è bisogno di essere un mostro di perspicacia per capirlo. Sei sempre decisa a uscire?» «Sì. Decisissima.» «Perché, Marlene? Perché? Non puoi spiegarmi in modo che capisca?» «No, perché tu non vuoi capire. Mi sta chiamando.» «Ti sta chiamando, cosa?» «Eritro. Vuole che vada là fuori.» Il viso solitamente cupo di Marlene sembrò illuminarsi di una felicità furtiva. Eugenia esplose. «Quando parli così, Marlene, ho proprio l’impressione che tu sia già stata contagiata da… da…» «Dal Morbo? No. Zio Siever mi ha appena fatto fare un’altra analisi cerebrale. Gli ho detto che non era necessario, ma lui ha risposto che ci servivano questi dati prima di uscire. Sono perfettamente normale.» «Non ci si può fidare completamente delle analisi cerebrali» commentò Eugenia accigliata. «Nemmeno delle paure di una madre» replicò Marlene. Poi, in tono più concilinate: «Mamma, ti prego… Lo so che vuoi guadagnare tempo, ma non sono disposta a rimandare. Zio Siever ha promesso. Anche se pioverà, anche se ci sarà cattivo tempo, io uscirò. In questo periodo dell’anno, non ci sono mai perturbazioni violente o temperature proibitive. Non ci sono quasi mai, qui. È un mondo meraviglioso». «Ma è desolato… morto. A parte i germi» ribatté astiosa Eugenia. «Ma un giorno diffonderemo la vita su questo mondo.» Marlene distolse lo sguardo, l’espressione sognante. «Ne sono sicura.» LVI «La tutaE è una tuta normalissima» spiegò Siever Genarr. «Non è pressurizzata. Non è una tuta da immersione né una tuta spaziale. Ha un casco, una riserva d’aria compressa che può essere rigenerata, e un piccolo scambiatore di calore che mantiene la temperatura a un livello piacevole. Ed è ermetica, naturalmente.» «Mi andrà bene?» chiese Marlene, guardando con una smorfia di disgusto l’involucro di pseudotessuto piuttosto spesso. «Be’, non sarai elegante» rispose Genarr, gli occhi raggianti. «Non è un indumento elegante, è pratico.» «Non mi interessa la bellezza, zio Siever» disse Marlene, il tono leggermente esasperato. «Ma non voglio sguazzarci dentro. Se intralcia i movimenti, non vale la pena di metterla.» Eugenia, che stava osservando la scena un po’ pallida, intervenne. «La tuta è necessaria per proteggerti, Marlene. Non m’importa se è troppo larga.» «Ma non deve essere scomoda, no, mamma? Se per caso mi andasse bene, mi proteggerebbe ugualmente.» «Questa ti andrà abbastanza bene» disse Genarr. «È la migliore che siamo riusciti a trovare. Sai, abbiamo solo tute di taglia grande, per adulti.» Si girò verso Eugenia. «Non le usiamo molto oggigiorno. Per un certo periodo, dopo che il Morbo è cessato, abbiamo compiuto delle esplorazioni, però ormai conosciamo abbastanza i dintorni della Cupola e, le rare volte che usciamo, di solito usiamo i veicoliE, mezzi di trasporto chiusi.» «Vorrei che usaste un veicoloE anche adesso.» «No!» esclamò Marlene, mostrando di non gradire il suggerimento. «Sono già uscita su un veicolo. Questa volta voglio camminare. Voglio… sentire il terreno sotto i piedi.» «Sei pazza» disse Eugenia, contrariata. Marlene replicò immediatamente. «Dovresti smetterla di insinuare…» «Dov’è finito il tuo acume intuitivo? Non mi riferivo al Morbo. Intendevo dire semplicemente che sei pazza, matta, nel senso… Oh, Marlene, stai facendo impazzire anche me… Siever? Se queste tute sono vecchie, come fai a sapere che non perderanno?» «Le abbiamo controllate, Eugenia. Ti assicuro che non sono difettose. Tieni presente che esco anch’io con lei, e che anch’io indosserò una tuta.» Eugenia stava cercando chiaramente tutte le obiezioni possibili. «E se tutt’a un tratto doveste aver voglia di… doveste…?» «Orinare? È questo che vuoi dire? È un problema risolvibile, anche se sarebbe una seccatura. Comunque, non capiterà. Abbiamo vuotato la vescica tutti e due e saremo a posto per parecchie ore… almeno, dovremmo. E non ci allontaneremo molto, così in caso di emergenza potremo rientrare nella Cupola. Be’, meglio che andiamo, adesso, Eugenia. Le condizioni all’esterno sono buone, e dovremmo approfittarne… Su, Marlene, lascia che ti aiuti a infilare la tuta.» «Piantala con quell’aria entusiasta» sbottò brusca Eugenia. «Perché? Se devo essere sincero, anch’io ho voglia di uscire. Vedi, a un certo punto la Cupola diventa quasi una prigione… si ha questa sensazione. Forse se uscissimo tutti più spesso, la gente riuscirebbe a sopportare dei turni più lunghi nella Cupola… Ecco fatto, Marlene. Manca solo il casco.» Marlene esitò. «Un attimo, zio Siever» disse. Si avvicinò alla madre, tendendo il braccio coperto dall’indumento voluminoso. Eugenia la fissò con un’espressione afflitta. «Mamma, te lo ripeto, non agitarti, per favore. Ti voglio bene… e non lo farei, non ti procurerei tutta questa apprensione, solo per soddisfare me stessa. Se lo faccio, è solo perché so che non mi accadrà nulla e che tu non devi preoccuparti. Scommetto che anche tu vorresti infilare una tuta e uscire per non perdermi di vista un solo istante, ma non devi farlo.» «Perché non devo, Marlene? Se ti succederà qualcosa e non sarò accanto a te ad aiutarti, non me lo perdonerò mai!» «Ma non mi accadrà nulla. E anche se dovesse succedermi qualcosa, tu cosa potresti fare? E poi, dato che hai così paura di Eritro, è probabile che la tua mente sia esposta a qualsiasi tipo di effetto abnorme. E se il Morbo dovesse colpire te, invece? Come credi che mi sentirei, io?» «Ha ragione, Eugenia» disse Genarr. «Ci sarò io con lei, e la cosa migliore che tu possa fare è rimanere qui e rimanere calma. Tutte le tuteE sono dotate di radio. Marlene ed io saremo in contatto tra noi, e con la Cupola. Ti prometto che se si comporterà in modo strano, se noterò anche il minimo particolare anomalo, la farò rientrare subito. E se non mi sentirò perfettamente normale, tornerò subito qui, portando Marlene con me.» Eugenia scosse la testa, per nulla consolata, mentre prima Marlene e poi Genarr indossavano il casco. Erano accanto al compartimento stagno principale della Cupola, ed Eugenia osservò l’operazione. Conosceva benissimo il procedimento… chi non lo conosceva non poteva considerarsi un vero colono. Controllo e regolazione della pressione, per assicurarsi che ci fosse un lieve passaggio d’aria dalla Cupola all’esterno, mai nella direzione opposta… Controlli computerizzati continui per accertarsi che non ci fossero perdite… Poi il portello interno si aprì. Genarr entrò nella camera e chiamò Marlene con un cenno. La ragazza lo seguì, e la porta si chiuse. Quando non li vide più, Eugenia provò un tuffo al cuore. Osservando gli strumenti, seppe esattamente quando il portello esterno si aprì e si richiuse. Poi l’oloschermo si accese, mostrando due figure in tuta sulla superficie spoglia di Eritro. Uno dei tecnici porse un piccolo auricolare a Eugenia, che lo inserì nell’orecchio destro. Quindi le piazzarono di fronte un microfono sempre di dimensioni ridotte. Una voce all’orecchio disse: «Contatto radio»… e subito si udì la voce familiare di Marlene. «Mi senti, mamma?» «Sì, cara» rispose Eugenia. La sua voce le sembrava strana, fredda. «Siamo fuori, ed è meraviglioso. È proprio bellissimo.» «Sì, cara» ripeté Eugenia, sentendosi frastornata, smarrita, chiedendosi se sua figlia sarebbe ancora stata sana di mente una volta rientrata. LVII Siever Genarr posò il piede sulla superficie di Eritro provando quasi una sensazione di felicità. La parete curva della Cupola s’innalzava dietro di lui, ma Genarr le volse le spalle, perché una vista così «aliena» avrebbe guastato il sapore del mondo. Sapore? Una parola strana riferita a Eritro… in quel momento non aveva senso. Genarr era dietro la barriera protettiva del casco, respirava l’aria della Cupola, o almeno l’aria depurata e condizionata nella Cupola. Non poteva sentire l’odore del pianeta, e nemmeno il sapore, chiuso in quel rifugio. Eppure c’era qualcosa che gli trasmetteva una strana felicità. I suoi scarponi scricchiolarono sul terreno. Anche se non era rocciosa, la superficie di Eritro era piuttosto ghiaiosa, e tra la ghiaia c’era… il terreno… Genarr non poteva definirlo che così. Naturalmente, c’erano acqua e aria in abbondanza per sgretolare lo strato roccioso primordiale e, forse, i procarioti, presenti ovunque a trilioni, avevano dato il loro contributo lavorando pazientemente nel corso dei millenni. Il terreno era morbido. Il giorno prima era piovuto… era scesa la pioggerella costante di Eritro, o almeno di quella parte di Eritro. Il terreno era ancora leggermente umido, e Genarr immaginò i granelli di sabbia e di argilla, avvolti nel loro sottile strato d’acqua rinnovato. In quello strato d’acqua, le cellule procariotiche vivevano felici, crogiolandosi nell’energia di Nemesis, trasformando proteine semplici in proteine complesse, mentre altri procarioti, indifferenti all’energia solare, sfruttavano invece il contenuto energetico dei resti dei procarioti che a trilioni morivano di attimo in attimo. Marlene era al suo fianco. Stava guardando in su, e Genarr le disse garbato: «Non fissare Nemesis, Marlene». La voce della ragazza gli risuonò naturale all’orecchio. Il tono non era minimamente teso, o apprensivo. Anzi, esprimeva una gioia pacata. «Sto guardando le nuvole, zio Siever.» Genarr alzò lo sguardo verso il cielo scuro dove, socchiudendo un po’ gli occhi, si scorgeva un lieve luccichio gialloverdognolo. Sullo sfondo, i pennacchi delle nuvole non temporalesche che riflettevano la luce di Nemesis in un fulgore arancione. Regnava una quiete arcana su Eritro. Non c’era nulla che producesse un suono. Non c’erano forme di vita che cantassero, ruggissero, ringhiassero, muggissero, pigolassero, cinguettassero, gracchiassero. Non c’erano foglie che stormissero, né insetti che ronzassero. Durante i rari temporali, magari si sentiva il rombo del tuono, o il sibilo del vento contro qualche masso… se il vento soffiava abbastanza forte. Ma in una giornata calma e tranquilla come quella, regnava il silenzio. Genarr parlò, solo per assicurarsi che si trattasse davvero di silenzio e non di un attacco improvviso di sordità. (In realtà, non poteva essere diventato sordo, dal momento che sentiva il debole raspio del proprio respiro.) «Stai bene, Marlene?» «Meravigliosamente. C’è un ruscello laggiù.» E Marlene affrettò il passo, abbozzando quasi una corsa goffa, impedita com’era dalla tuta. «Attenta, Marlene. Scivolerai.» «Farò attenzione.» Naturalmente, anche se Marlene si stava allontanando, la sua voce mantenne la stessa intensità dato che si propagava grazie a un fascio di onde radio. La voce di Eugenia Insigna risuonò di colpo all’orecchio di Genarr. «Perché Marlene sta correndo, Siever?» E un istante dopo: «Perché stai correndo, Marlene?». Marlene non si scomodò a rispondere, ma Genarr disse: «Vuole solo guardare un ruscello di fronte a noi, Eugenia». «Sta bene?» «Certo. È bello l’esterno… una bellezza strana, misteriosa. Dopo un po’ non sembra nemmeno così spoglio… ricorda più che altro un quadro astratto.» «Lascia perdere la critica artistica, Siever. Non lasciarla allontanare da te.» «Non preoccuparti. Sono sempre in contatto con lei. Anche adesso sente quello che diciamo, e se non risponde è perché non vuole essere disturbata inutilmente. Eugenia, rilassati. Marlene si sta divertendo. Non fare la guastafeste.» Genarr era convintissimo che Marlene si stesse divertendo. Si divertiva anche lui. Marlene stava risalendo il ruscello, correndo lungo la sponda. Genarr non aveva una gran fretta di seguirla. "Si diverta pure" pensò. La Cupola era stata costruita su un affioramento roccioso, ma in quella direzione la zona era attraversata da una serie di torrentelli che a una trentina di chilometri di distanza confluivano in un fiume piuttosto grande… fiume che poi sfociava nel mare. I ruscelli erano graditi, naturalmente. Erano la riserva idrica della Cupola, che provvedeva a togliere i procarioti presenti nell’acqua (a «ucciderli», per usare un termine più appropriato). Agli inizi della storia della Cupola, alcuni biologi si erano opposti all’uccisione dei procarioti, ma la cosa era assurda. Quei microorganismi erano talmente numerosi e prolifici che, anche eliminandoli per depurare l’acqua, era impossibile decimare la specie. Poi, quando era scoppiato il Morbo, era nata un’ostilità vaga ma intensa nei confronti di Eritro, e nessuno si era più preoccupato della sorte dei procarioti. Naturalmente, adesso che apparentemente il Morbo non rappresentava più una minaccia, forse ci sarebbe stata una nuova ondata di sentimenti umanitari ("biotari", un aggettivo più appropriato, secondo Genarr). Genarr condivideva quei sentimenti, ma bisognava pensare anche alle riserve idriche della Cupola. Immerso nei propri pensieri, Genarr non stava più guardando Marlene, e lo strillo improvviso di Eugenia lo assordò. «Marlene! Marlene! Siever, cosa sta facendo?» Genarr alzò lo sguardo, e stava per rassicurarla automaticamente, dicendole che andava tutto bene, quando scorse Marlene. Per un attimo, non capì più cosa stesse facendo. Rimase a fissarla nella luce rosata di Nemesis. Poi comprese. Marlene stava sganciando il casco, lo stava togliendo… E adesso stava cercando di sfilarsi il resto della tutaE. Genarr doveva impedirglielo! Provò a gridare, a chiamarla, ma per l’orrore provocato dall’emergenza improvvisa gli mancò la voce. Cercò di correre da lei, ma le sue gambe sembravano di piombo, in pratica non rispondevano ai comandi urgenti che lui inviava. Aveva l’impressione di essere prigioniero di un incubo, dove stavano accadendo cose terribili e lui non poteva fare nulla per impedire che accadessero. O forse la sua mente, in quel frangente carico di tensione, si stava dissociando dal corpo. "È il Morbo, che mi sta colpendo?" si chiese Genarr, in preda al panico. "E se è il Morbo, cosa succederà adesso a Marlene, che si sta esponendo alla luce di Nemesis e all’aria di Eritro?" 26 Pianeta LVIII Crile Fisher aveva visto Igor Koropatsky solo due volte in quei tre anni, dopo che Koropatsky era subentrato a Tanayama diventando, di fatto se non di nome, il capo del progetto. Comunque, lo riconobbe senza difficoltà quando l’identificatore segnalò la sua immagine. Koropatsky era sempre il solito tipo corpulento dall’aria gioviale. Era elegante, e sfoggiava un grande foulard vaporoso al collo, secondo l’ultima moda. Fisher invece stava rilassandosi quella mattina e non era molto presentabile, ma non si poteva non ricevere Koropatsky, nemmeno quando arrivava senza preavviso. Con tatto, Fisher rispose ricorrendo al segnale di «ATTESA», la figura stilizzata di un padrone di casa cordiale (o di una padrona di casa, dato che il sesso era volutamente ambiguo) che alzava una mano con garbo in un gesto che significava universalmente "Solo un attimo", ma che non era grossolano come le parole. Fisher si affrettò a pettinarsi e a sistemarsi gli indumenti. Avrebbe potuto radersi, ma prolungare l’attesa sarebbe stato offensivo per Koropatsky, rifletté. La porta si aprì e Koropatsky entrò. Sorridendo affabile, disse: «Buongiorno, Fisher. Disturbo, eh?» «Nessun disturbo, Direttore» rispose Fisher, sforzandosi di sembrare sincero. «Ma se desidera vedere la dottoressa Wendel… è alla nave, purtroppo.» Koropatsky sbuffò. «Sai, lo immaginavo. Dunque, non mi resta che parlare con te. Posso sedermi?» «Sì, certo, Direttore» disse Fisher, mortificato per non averlo invitato subito ad accomodarsi. «Posso offrirle qualcosa?» «No.» Koropatsky si batté sull’addome. «Mi peso ogni mattina, ed è sufficiente a farmi perdere l’appetito… quasi. Fisher, non ho mai avuto modo di parlarti, da uomo a uomo. Volevo farlo.» «Volentieri, Direttore. A sua disposizione» borbottò Fisher, cominciando ad avvertire una certa inquietudine. Di che si trattava? «Il nostro pianeta è in debito con te.» «Se lo dice lei, Direttore…» «Eri su Rotor, prima che partisse.» «È stato quattordici anni fa, Direttore.» «Lo so. Avevi sposato una rotoriana e avevi una figlia.» «Sì, Direttore» confermò Fisher sottovoce. «Però sei tornato sulla Terra appena prima che Rotor lasciasse il Sistema Solare.» «Sì, Direttore.» «Grazie a qualcosa che avevi sentito e che hai riferito, e grazie a un altro tuo suggerimento, la Terra è arrivata a scoprire la Stella Vicina.» «Sì, Direttore.» «E sei stato tu a portare sulla Terra la dottoressa Tessa Wendel di Adelia.» «Sì, Direttore.» «E hai fatto in modo che lavorasse qui per oltre otto anni, e che fosse felice, eh?» Koropatsky ridacchiò, e probabilmente se fosse stato più vicino gli avrebbe dato un colpetto di gomito in segno di solidarietà maschile, rifletté Fisher. «Andiamo d’accordo, Direttore.» «Ma non vi siete mai sposati.» «Sono già sposato, Direttore.» «E separato da quattordici anni. Potresti ottenere il divorzio in breve tempo.» «Ho anche una figlia.» «Che rimarrebbe tua figlia, anche se ti risposassi.» «Sarebbe una formalità inutile, sicuramente.» «Be’, forse…» Koropatsky annuì. «E forse la cosa funziona ancor meglio in questo modo… Sai che la nave ultraluce è pronta a partire. Speriamo di lanciarla all’inizio del 2237.» «È quanto mi ha detto la dottoressa Wendel, Direttore.» «I rivelatori neuronici sono stati installati e il loro funzionamento è soddisfacente.» «Mi è stato detto anche questo, Direttore.» Koropatsky, stringendo una mano nell’altra sulle ginocchia, annuì energicamente. Poi con un movimento rapido alzò lo sguardo e fissò Fisher. «Sai come funziona?» Fisher scosse la testa. «No, signore. Non so nulla del funzionamento della nave.» Koropatsky annuì di nuovo. «Nemmeno io. Dobbiamo fidarci della parola della dottoressa Wendel e dei nostri tecnici. Manca ancora una cosa, però.» «Oh?» (Un senso gelido di apprensione pervase Fisher. Un ulteriore rinvio?) «Cosa manca, Direttore?» «Le comunicazioni. Se è possibile spingere una nave oltre la velocità della luce, dovrebbe anche esserci il sistema di inviare delle onde radio o che so io alla stessa velocità. Anzi, secondo me, dovrebbe essere più facile inviare un messaggio ultraluce che far viaggiare una nave a velocità ultraluce.» «Non saprei, Direttore.» «Eppure, la dottoressa Wendel mi assicura che è vero il contrario, che per ora non esiste un metodo valido di comunicazione ultraluce. Un giorno ci sarà, dice, ma adesso non c’è, e lei non vuole aspettare, perché dice che forse ci vorrà parecchio tempo per mettere a punto questo sistema di comunicazione.» «Nemmeno io voglio aspettare, Direttore.» «Sì, anch’io sono ansioso di andare avanti e di vedere dei risultati positivi. Ormai sono anni che aspettiamo, e non vedo l’ora che la nave parta e ritorni. Ma in questo modo, quando la nave partirà, noi non saremo più in contatto.» Koropatsky annuì pensieroso, e Fisher mantenne un silenzio prudente. (Che significava quella storia? Dove voleva arrivare il vecchio orso?) Koropatsky alzò gli occhi. «Sai che la Stella Vicina sta avanzando nella nostra direzione?» «Sì, Direttore, l’ho sentito dire. Ma, stando all’opinione generale, passerà abbastanza lontano da non danneggiarci.» «È quello che vogliamo far credere alla gente. La verità è che passerà abbastanza vicino da alterare il moto orbitale della Terra.» Fisher esitò un istante, scioccato. «E distruggerà la Terra?» «Non direttamente. Però il clima cambierà e la Terra non sarà più abitabile.» «È sicura la cosa?» chiese Fisher, restio a crederci. «Che io sappia, gli scienziati non sono mai sicuri di nulla al cento per cento. Comunque, sono abbastanza sicuri, per cui è necessario cominciare a prendere provvedimenti. Abbiamo cinquemila anni, e stiamo sviluppando il volo ultraluce… sempre che la nave funzioni.» «Se la dottoressa Wendel dice che funzionerà, sono certo che funzionerà, Direttore.» «Speriamo che la tua fiducia non sia malriposta. Comunque, anche se abbiamo cinquemila anni di tempo e il volo ultraluce, ci troviamo in una situazione difficile. Dovremmo costruire centotrentamila Colonie come Rotor per trasportare gli otto miliardi di abitanti della Terra e una quantità sufficiente di animali e piante per creare dei mondi vitali. Il che equivale a ventisei arche di Noè all’anno, cominciando subito. Sempre che nei prossimi cinquemila anni non ci sia un aumento della popolazione.» «Forse» disse cauto Fisher «una media di ventisei all’anno è alla nostra portata. La nostra esperienza e la nostra abilità dovrebbero crescere nel corso dei secoli, e il nostro controllo demografico funziona da decenni ormai.» «Benissimo. Ora dimmi… se trasferiremo nello spazio la popolazione terrestre su centotrentamila Colonie, usando tutte le risorse della Terra, della Luna, di Marte e degli asteroidi, e abbandoneremo il Sistema Solare agli sconvolgimenti gravitazionali provocati dalla Stella Vicina, dove andranno tutte queste Colonie?» «Non lo so, Direttore» rispose Fisher. «Dovremo trovare dei pianeti abbastanza simili alla Terra che siano in grado di accogliere tutta questa gente senza richiedere un’opera di terraformazione massiccia. Dobbiamo pensare anche a questo problema, e subito, non tra cinquemila anni.» «Anche se non troveremo dei pianeti adatti, le Colonie possono entrare in orbita attorno a delle stelle adatte.» Inevitabilmente, Fisher fece dei movimenti circolari con il dito. «Mio caro, è un sistema che non funzionerebbe.» «Con rispetto parlando, Direttore, qui nel Sistema Solare funziona.» «Niente affatto. Qui nel Sistema Solare c’è un pianeta che ancor oggi, malgrado tutte le Colonie, ospita il novantanove per cento del genere umano. Siamo sempre noi l’umanità, e le Colonie sono solo una specie di alone vago che ci circonda. Potrebbe esistere da solo, questo alone? Non ne abbiamo la prova. Secondo me, no, non potrebbe esistere.» «Forse ha ragione, Direttore.» «Forse? Non c’è dubbio» replicò Koropatsky infervorandosi. «I coloni fingono di disprezzarci, ma noi siamo al centro dei loro pensieri. Siamo la loro storia, il loro modello. Siamo la fonte copiosa a cui ritornano ripetutamente per rinvigorirsi. Lasciati a se stessi, avvizzirebbero.» «Può darsi che abbia ragione, Direttore, ma questo esperimento non è mai stato tentato. Non è mai capitato che delle Colonie abbiano provato a sopravvivere senza un pianeta. È una situazione senza precedenti.» «Non è vero. Abbiamo avuto una situazione almeno analoga. Nelle fasi iniziali della storia terrestre, degli esseri umani hanno colonizzato delle isole, rimanendo isolati dai centri della civiltà. Gli irlandesi hanno colonizzato l’Islanda; i norvegesi, la Groenlandia; gli ammutinati, l’Isola di Pitcairn; i polinesiani, l’Isola di Pasqua. Risultato? I coloni languivano, a volte sono scomparsi del tutto. Ristagno, stasi, sempre. Le civiltà si sono sempre sviluppate nelle aree continentali o su isole vicine a un’area continentale. L’umanità ha bisogno di spazio, di grandezza, di varietà, di un orizzonte, di una frontiera. Capisci?» «Sì, Direttore» rispose Fisher. (Arrivati a un certo punto, perché continuare a discutere?) «Quindi» disse Koropatsky, battendo l’indice destro sul palmo in un atteggiamento didascalico «dobbiamo trovare un pianeta, almeno uno tanto per cominciare. Il che ci riporta a Rotor.» Fisher aggrottò le ciglia, sorpreso. «A Rotor, Direttore?» «Sì. I rotoriani sono partiti da quattordici anni… cosa gli è successo?» «Secondo la dottoressa Wendel, può darsi che non siano sopravvissuti.» Fisher provò una fitta dolorosa nel dirlo. Quando ci pensava, la provava sempre. «Lo so. Le ho parlato, e ho accettato la sua opinione senza discutere. Ma adesso vorrei la tua opinione.» «Non ho nessuna opinione, Direttore. Io spero solo che siano sopravvissuti. Ho una figlia su Rotor.» «Forse l’hai ancora. Rifletti! Cosa può averli distrutti? Qualche apparato difettoso, qualche guasto… Rotor non è una nave, è una Colonia che in cinquant’anni non ha avuto nessun problema tecnico serio. Ha attraversato lo spazio vuoto dal Sistema Solare alla Stella Vicina… e cosa c’è di più innocuo dello spazio vuoto?» «Ma se un mini buco nero, o un asteroide apparso all’improvviso…» «Che prove abbiamo? Sono solo supposizioni, con un livello di probabilità molto vicino allo zero, stando agli astronomi. C’è qualcosa nelle proprietà intrinseche dell’iperspazio che può avere distrutto Rotor? Sono anni che facciamo esperimenti con l’iperspazio, e non siamo riusciti a trovare nessun aspetto pericoloso. Quindi possiamo supporre che i rotoriani abbiano raggiunto la Stella Vicina sani e salvi… sempre che siano andati là… e a quanto pare tutti sono d’accordo che è assurdo pensare che siano andati altrove.» «Magari fossero arrivati sani e salvi.» «Ma a questo punto sorge un interrogativo… Se Rotor si trova nei pressi della Stella Vicina, cosa sta facendo, là?» «Vive. Continua la sua esistenza…» (Era una via di mezzo tra un’affermazione e una domanda.) «Ma come? Ruotando attorno alla stella? Un’unica Colonia in orbita solitaria e perenne attorno a una nana rossa? Non credo. I rotoriani languirebbero, e se ne accorgerebbero in fretta. Sono sicuro che entrerebbero in crisi presto.» «E morirebbero? È questa la sua conclusione, Direttore?» «No. Se così fosse, rinuncerebbero e tornerebbero a casa. Ammetterebbero la sconfitta e tornerebbero qui, al sicuro. Invece non l’hanno fatto, e sai cosa penso? Penso che abbiano trovato un pianeta abitabile nel sistema della Stella Vicina.» «Ma è impossibile che ci sia un pianeta abitabile in orbita attorno a una nana rossa. L’energia solare è troppo scarsa, a meno di non essere molto vicini, e in tal caso c’è il problema degli influssi gravitazionali troppo forti…» Fisher s’interruppe, quindi borbottò impacciato: «Me l’ha spiegato la dottoressa Wendel». «Sì, lo hanno spiegato anche a me, gli astronomi. Ma…» Koropatsky scosse la testa. «Ma l’esperienza mi ha insegnato che per quanto gli scienziati possano sentirsi sicuri, la natura riesce sempre a sorprenderli. Ad ogni modo, capisci perché ti permettiamo di partecipare a questo viaggio?» «Sì, Direttore. Il suo predecessore aveva promesso che sarei partito come ricompensa dei servigi resi.» «Ho un motivo migliore. Il mio predecessore, che era un grand’uomo, una persona ammirevole, negli ultimi tempi era anche un vecchio malato, e secondo i suoi nemici era diventato paranoico. Per lui, i rotoriani erano al corrente del pericolo che minacciava la Terra ed erano partiti senza avvisarci perché volevano la distruzione della Terra, quindi Rotor doveva essere punito. Ma adesso il mio predecessore è morto, e ci sono io al suo posto. Non sono vecchio, né malato, né paranoico. Se i rotoriani hanno raggiunto incolumi la Stella Vicina, noi non abbiamo intenzioni ostili nei loro confronti.» «Mi fa piacere sentirlo… ma non dovrebbe discuterne con la dottoressa Wendel, Direttore? Sarà lei a comandare la nave.» «La dottoressa Wendel è una colona. Tu sei un fedele cittadino terrestre.» «La dottoressa Wendel ha lavorato per anni al progetto ultraluce con la massima fedeltà.» «Oh, la sua fedeltà verso il progetto non si discute. Ma è fedele alla Terra? Possiamo fare affidamento su di lei? Si atterrà fino in fondo ai nostri ordini, si adeguerà alle intenzioni della Terra per quanto riguarda Rotor?» «Se è una domanda lecita, Direttore… a cosa mira la Terra? Se ho ben capito, non c’è più l’intenzione di punire la Colonia per non averci avvisati.» «Esatto. Adesso miriamo all’unione, alla collaborazione, alla fratellanza umana. Il nostro è un atteggiamento estremamente amichevole. Una volta instaurata l’amicizia, dovrete tornare subito con il maggior numero possibile di informazioni su Rotor e il suo pianeta.» «Sicuramente, se la dottoressa Wendel lo saprà, se le verrà spiegato, obbedirà.» Koropatsky ridacchiò. «Sì, dovrebbe, in teoria… ma…si sa com’è. La dottoressa non è più nel fiore della giovinezza. È una bella donna, sono il primo a dirlo, però ha superato i cinquanta.» «E con ciò?» (Fisher si sentì offeso.) «Senza dubbio sa che al suo ritorno, con l’esperienza importantissima di un volo ultraluce riuscito all’attivo, sarà più preziosa che mai per noi; che ci sarà bisogno di lei per progettare nuove navi ultraluce, modelli migliori, più perfezionati; che dovrà addestrare dei giovani e farne dei piloti ultraluce. Avrà la certezza di non potersi più avventurare nell’iperspazio, perché sarà troppo preziosa. Quindi, prima di tornare, forse sarà tentata di continuare l’esplorazione, forse non vorrà rinunciare al brivido di vedere nuove stelle, di scoprire nuovi orizzonti. Ma noi non possiamo permetterci che corra altri rischi, oltre a quelli necessari per raggiungere Rotor, ottenere le informazioni che ci servono, e tornare indietro. Non possiamo permetterci neppure una ulteriore perdita di tempo. Capisci?» La voce di Koropatsky adesso si era fatta più dura. Fisher deglutì. «Mi pare che in realtà, Direttore, non abbia motivo di…» «Ti sbagli. La dottoressa Wendel si è sempre trovata in una posizione delicata, qui… come colona. Spero che tu capisca. Con tutte le persone che ci sono sulla Terra, dobbiamo contare in modo particolare proprio su di lei, su una colona. La dottoressa è stata oggetto di un profilo psicologico dettagliato. L’abbiamo studiata a fondo, a volte senza che lo sapesse, e siamo certi che, se avrà la possibilità di farlo, si allontanerà e continuerà a esplorare lo spazio. E mancando le comunicazioni non sarà in contatto con noi. Non sapremo dove sarà, cosa farà. Non sapremo nemmeno se sarà viva.» «E perché mi sta dicendo tutte queste cose, Direttore?» «Perché sappiamo che hai un grande ascendente su di lei. Puoi guidarla… se sarai deciso.» «Forse sopravvalutate il mio ascendente, Direttore.» «Non credo proprio. Abbiamo studiato a fondo anche te, e sappiamo che la nostra cara dottoressa è molto legata a te… forse, più di quel che pensi. E sappiamo poi che sei un figlio fedele della Terra. Potevi partire con Rotor, rimanendo con tua moglie e tua figlia, invece sei tornato sulla Terra anche se così le hai perse. Sei tornato pur sapendo che il mio predecessore, Tanayama, ti avrebbe giudicato un incapace visto che non eri riuscito a raccogliere informazioni sull’iperassistenza, e che questo fallimento avrebbe potuto compromettere la tua carriera. Per cui, sono convinto di poter contare su di te, so che controllerai la dottoressa Wendel, che farai in modo che ritorni subito, e che questa volta, questa volta, ci porterai le informazioni di cui abbiamo bisogno.» «Ci proverò, Direttore» disse Fisher. «Sei incerto» osservò Koropatsky. «Per favore, cerca di capire l’importanza di quello che ti chiedo. Dobbiamo sapere cosa stanno facendo i rotoriani, quanto sono forti, com’è il pianeta. Quando sapremo tutto questo, sapremo cosa fare, quanto dovremo essere forti, e che tipo di vita aspettarci. Perché, Fisher, ci serve un pianeta, e ci serve subito. E non ci resta che prendere il pianeta di Rotor.» «Sempre che esista» precisò Fisher con voce roca. «Meglio che esista» disse Koropatsky. «Ne va della sopravvivenza della Terra.» 27 Vita LIX Siever Genarr aprì gli occhi lentamente e batté le palpebre alla luce. Dapprima stentò un po’ a mettere a fuoco le immagini e non riuscì a distinguere cosa occupasse il suo campo visivo. Lentamente, i contorni diventarono nitidi, e Genarr riconobbe Ranay D’Aubisson, Primo Neurofisico della Cupola. Genarr disse debolmente: «Marlene?». La D’Aubisson aveva un’espressione arcigna. «Pare che la ragazza stia bene. Adesso sono preoccupata per lei, Comandante.» Un senso di timore pervase Genarr, e Genarr cercò di soffocarlo col suo umorismo nero. «Devo essere più grave di quel che pensavo se l’Angelo del Morbo è qui.» Poi, visto che Ranay non diceva nulla, Genarr chiese brusco: «Lo sono?». La D’Aubisson parve animarsi. Alta e ossuta, si chinò su di lui, e le piccole grinze attorno ai suoi occhi azzurri penetranti si fecero più pronunciate mentre lo fissava socchiudendo le palpebre. «Come si sente?» domandò, invece di rispondere. «Stanco. Stanchissimo. A parte questo, sto… bene?» Genarr pronunciò l’ultima parola variando il tono, e ripetendo così la domanda di prima. «Ha dormito cinque ore.» La D’Aubisson continuava a essere evasiva. Genarr gemette. «Sono stanco ugualmente. E devo andare in bagno» disse, cominciando a drizzarsi a sedere con fatica. A un cenno di Ranay, un giovanotto si affrettò ad accorrere. Con deferenza, mise la mano sotto il gomito di Genarr, che lo allontanò indignato. Ranay D’Aubisson disse: «La prego, si lasci aiutare. Non abbiamo ancora fatto una diagnosi». Quando fu tornato a letto, dieci minuti dopo, Genarr disse mesto: «Niente diagnosi. Avete eseguito l’analisi cerebrale?». «Certo. Immediatamente.» Ranay si strinse nelle spalle. «Non abbiamo trovato nulla di serio, ma lei dormiva. Ne faremo un’altra da sveglio. E dobbiamo compiere altre osservazioni.» «Perché? L’analisi cerebrale non basta?» La D’Aubisson aggrottò le ciglia grige. «Lei pensa che basti?» «Non giochiamo. Dove vuoi arrivare? Parla chiaro. Non sono un bambino.» La D’Aubisson sospirò. «I casi di Morbo che abbiamo avuto mostravano delle caratteristiche interessanti all’analisi cerebrale, però non abbiamo mai potuto confrontarle con la situazione clinica preesistente perché nessuna delle persone colpite era stata analizzata prima dell’insorgere del male. Quando è entrato in vigore un programma di analisi cerebrale per tutti gli occupanti della Cupola, non ci sono più stati casi certi di Morbo. Lo sapeva?» «Non tendermi dei tranelli» disse Genarr stizzito. «Certo che lo sapevo. Pensi che la mia memoria non funzioni più? Da quel che hai detto, deduco… sì, sono ancora capace di dedurre, visto?… deduco che, anche se avete i dati di una mia analisi precedente e avete potuto confrontarli con l’analisi cerebrale appena fatta, non avete trovato nulla di significativo. È così?» «È evidente che non presenta nessuna anomalia di rilievo, però potremmo trovarci di fronte a una situazione subclinica.» «Non trovando nulla?» «Una alterazione impercettibile può sfuggire, se non la si cerca in modo specifico. In fin dei conti, lei è svenuto, e di solito non è soggetto a perdite di conoscenza, Comandante.» «Fate un’altra analisi, adesso che sono sveglio, e se avrò qualcosa di talmente impercettibile da sfuggire al vostro esame, me lo terrò e sopravviverò. Ma parlami di Marlene. Sei sicura che stia bene?» «Ho detto che pare che stia bene, Comandante. La ragazza non ha rivelato alcuna anomalia comportamentale. Non è svenuta.» «Ed è nella Cupola, sana e salva?» «Sì, è stata lei ha riportarla qui, appena prima che svenisse. Non ricorda?» Genarr arrossì e borbottò qualcosa. L’espressione della D’Aubisson si fece sardonica. «Perché non ci dice esattamente quello che ricorda, eh, Comandante? Ci racconti tutto. Anche un particolare qualsiasi potrebbe essere importante.» Il disagio di Siever Genarr aumentò, mentre si sforzava di ricordare. Gli sembrava di concentrarsi su un episodio successo molto tempo prima, nebuloso… come se stesse cercando di ricordare un sogno. «Marlene stava togliendosi la tutaE… Vero?» «Verissimo. È rientrata senza tuta, e abbiamo dovuto mandare qualcuno a recuperarla.» «Be’, naturalmente, ho provato a fermarla, quando ho visto cosa stava facendo. Ricordo che la dottoressa Insigna ha gridato, che è stata lei a mettermi in guardia. Marlene era lontana da me, accanto al ruscello. Ho provato a chiamarla, ma per lo shock non sono riuscito a parlare all’inizio. Ho cercato di raggiungerla subito, di… di…» «Correre da lei» suggerì Ranay. «Sì. Ma… ma…» «Si è accorto di non riuscire a correre. Era quasi paralizzato. Giusto?» Genarr annuì. «Sì. Più o meno. Ho provato a correre, ma… hai mai avuto uno di quegli incubi in cui sei inseguito da qualcuno e vuoi fuggire però non riesci a muoverti?» «Sì. Li hanno tutti. Di solito capita quando si hanno le braccia o le gambe aggrovigliate nelle coperte.» «Sembrava proprio un sogno. Alla fine, mi è tornata la voce e ho gridato, ma senza la tutaE Marlene non poteva sentirmi, sicuramente.» «Si sentiva sul punto di svenire?» «No. Solo impotente, confuso. Come se non valesse nemmeno la pena di provare a correre. Poi Marlene mi ha visto ed è corsa da me. Deve aver capito che ero in difficoltà.» «La ragazza a quanto pare era perfettamente in grado di correre. Giusto?» «Mah… credo. Mi ha raggiunto, mi sembra. Poi… Sarò sincero, Ranay. Non ricordo quel che è successo dopo.» «Siete rientrati nella Cupola insieme» disse calma la D’Aubisson. «La ragazza la sosteneva, Comandante. E una volta nella Cupola lei è svenuto e adesso… è qui a letto.» «E tu pensi che abbia il Morbo.» «Penso che le sia successo qualcosa di anormale, però non riesco a trovare nulla nella sua analisi cerebrale, e sono perplessa. Ora sa tutto.» «È stato lo shock di vedere Marlene in pericolo. Per togliersi la tutaE, doveva avere…» Genarr si interruppe di colpo. «Contratto il Morbo? È così?» «È quel che ho pensato.» «Pare che la ragazza stia bene. Vuole dormire ancora un po’?» «No. Sono sveglio. Procedi con l’altra analisi cerebrale, e fai in modo che risulti negativa, perché mi sento molto meglio adesso che mi sono tolto questo peso. E poi mi occuperò del mio lavoro, arpia.» «Anche se l’analisi cerebrale apparentemente è normale, lei rimarrà a letto per almeno ventiquattr’ore, Comandante. In osservazione.» Genarr eruppe in un gemito melodrammatico. «Non puoi farlo. Non posso starmene qui a fissare il soffitto per ventiquattr’ore.» «Non dovrà fissare il soffitto. Le metteremo un sostegno, così potrà leggere un libro o guardare l’olovisione. Potrà anche ricevere un paio di visite.» «Immagino che anche i visitatori mi osserveranno.» «Può darsi che vengano interrogati circa il suo comportamento… non ci sarebbe nulla di strano. E adesso, andiamo a prendere l’analizzatore cerebrale.» Ranay D’Aubisson si voltò, poi tornò a girarsi accennando un sorrisetto. «È possibilissimo che lei stia bene, Comandante. Le sue reazioni mi sembrano normali. Ma dobbiamo essere sicuri, no?» Genarr bofonchiò e, quando Ranay D’Aubisson gli volse di nuovo le spalle e si allontanò, salutò la sua uscita con una smorfia. Anche quella era una reazione normale, decise. LX Quando riaprì gli occhi, Genarr vide Eugenia Insigna che lo fissava con aria triste. Sorpreso, si drizzò a sedere. «Eugenia!» Lei gli sorrise, ma il suo sguardo rimase triste. «Hanno detto che potevo entrare, Siever. Hanno detto che stavi bene.» Genarr si sentì sollevato. Sapeva di star bene, ma era bello sentire che qualcun altro confermava la sua opinione. Disse in tono spavaldo: «Certo che sto bene. Analisi cerebrale normale… addormentato, sveglio, sempre. Ma come sta Marlene?». «Anche la sua analisi è perfettamente normale» rispose Eugenia, ma la sua espressione non mutò. «Come vedi, sono stato il suo canarino, come avevo promesso. Il fenomeno, di qualunque cosa si sia trattato, ha colpito prima me.» Dopo di che, Genarr si fece serio. Non era il momento di scherzare. «Eugenia… non so proprio come giustificarmi. Innanzitutto non stavo osservando Marlene, e poi ero troppo paralizzato dall’orrore per intervenire. Ho fallito completamente, e dire che ti avevo assicurato che non ci sarebbero stati problemi, che avrei badato io a Marlene. Francamente, non ho scuse.» Eugenia stava scuotendo la testa. «No, Siever. Non è stata colpa tua. Sono contenta che ti abbia riportato alla Cupola.» «Non è stata colpa mia?» Genarr era frastornato. Certo che era stata colpa sua. «No, assolutamente. C’è qualcosa di molto peggiore del gesto sciocco di Marlene o della tua incapacità di reagire… molto peggiore, ne sono certa.» Genarr raggelò. Qualcosa di molto peggiore? E cosa? «Cosa stai cercando di dirmi?» Si girò verso di lei, scoprendosi, lasciando penzolare le gambe dal letto. Poi, quando si accorse di avere le gambe nude e di non essere per nulla presentabile in camicia da notte, si affrettò ad avvolgersi nella coperta leggera. «Eugenia, siediti e dimmi tutto, per favore. Marlene sta bene? Mi stai nascondendo qualcosa?» Eugenia si sedette e guardò Genarr seria. «Sta bene, dicono. L’analisi cerebrale è normalissima. Stando a quelli che sono al corrente dell’esistenza del Morbo, non c’è nessun sintomo.» «Be’, allora perché te ne stai lì con quella faccia, come se fosse la fine del mondo?» «Penso che sia la fine del mondo, Siever… di questo mondo.» «Che significa?» «Non so spiegarlo. Non riesco a trovare un filo logico. Devi parlare con Marlene per capire. Proseguirà per la sua strada, Siever. Non è turbata per quel che ha fatto. Sostiene di non potere esplorare Eritro nella maniera giusta con la tutaE addosso… di non poterlo sentire bene, per usare la sua espressione… quindi non ha più intenzione di mettere la tuta.» «In tal caso, non uscirà.» «Oh, ma Marlene dice che uscirà, invece. Ed è sicurissima. Uscirà tutte le volte che vorrà, dice. E da sola. Le rincresce di averti permesso di accompagnarla. Vedi, non è insensibile nei tuoi confronti. Quello che ti è successo, l’ha sconvolta. Ed è contenta di essere intervenuta in tempo. Davvero, aveva le lacrime agli occhi quando ha parlato di quello che sarebbe potuto accadere se non ti avesse riportato in tempo alla Cupola.» «E il mio incidente non la fa sentire insicura?» «No. È questa la parte più strana. Ora Marlene non ha il minimo dubbio… tu eri in pericolo, qualsiasi persona sarebbe stata in pericolo. Ma lei no. È talmente sicura, Siever, che…» Eugenia scosse la testa, poi mormorò: «Non so proprio cosa fare». «Marlene è così di natura, Eugenia. Dovresti saperlo meglio di me.» «Ma non è mai stata tanto sicura. Sembra che sappia che non possiamo fermarla.» «Forse possiamo. Le parlerò, e se vorrà spuntarla ad ogni costo la rispedirò su Rotor… e subito. Ero dalla sua parte, ma dopo quello che mi è capitato là fuori, temo che dovrò essere inflessibile con lei.» «Ma non lo farai.» «Perché no? Per via di Pitt?» «No. Intendo dire che non lo farai e basta.» Genarr fissò Eugenia, poi rise imbarazzato. «Via, Marlene non mi ha incantato fino a questo punto. Mi sentirò anche una specie di zio buono, ma non sono così buono da permetterle di andare incontro al pericolo. Ci sono dei limiti, e vedrai che saprò farli rispettare.» S’interruppe un istante, e riprese con aria mesta: «A quanto pare, le nostre posizioni si sono invertite. Prima, tu insistevi perché la fermassi e io dicevo che non era possibile. Adesso la situazione si è rovesciata». «Perché l’incidente all’esterno della Cupola ti ha spaventato, e l’esperienza successiva mi ha spavehtata.» «Quale esperienza successiva, Eugenia?» «Quando Marlene è rientrata, ho provato a porre dei limiti. Le ho detto: "Signorina, non osare parlarmi così altrimenti, oltre a non uscire più dalla Cupola, non potrai nemmeno uscire dalla tua stanza. Ti chiuderò a chiave, ti legherò, se necessario, e torneremo su Rotor col primo razzo". Vedi, ero abbastanza furiosa da minacciarla.» «Be’, lei che ha fatto? Scommetto che non è scoppiata a piangere. Avrà digrignato i denti e ti avrà sfidata. Giusto?» «No. Non sono nemmeno riuscita a dire tutto, perché a un certo punto ho cominciato a battere i denti e non sono più stata capace di parlare. E mi ha assalito un senso di nausea.» Genarr corrugò la fronte. «Intendi dire che, secondo te, Marlene possiede qualche strano potere ipnotico che può impedirci di ostacolarla? Mi pare impossibile. Non hai mai notato niente del genere in lei prima d’ora?» «Certo che no. E non l’ho notato nemmeno adesso. Lei non c’entra. Dovevo avere una gran brutta cera mentre la stavo minacciando, e Marlene si è spaventata, era molto preoccupata. Non avrebbe reagito così, se fosse stata lei a provocare la cosa. E quando eravate fuori e lei si stava togliendo la tuta, non ti stava nemmeno guardando. Ti volgeva le spalle. Lo so perché stavo osservando. Eppure non sei riuscito a fare nulla per fermarla, e quando si è accorta che eri in difficoltà è corsa ad aiutarti. No, non può essere stata lei a causare apposta l’incidente, altrimenti non avrebbe avuto quella reazione.» «Ma allora…» «Non ho finito. Dopo averla minacciata, o meglio, dopo aver cercato inutilmente di minacciarla, non ho più avuto il coraggio di dirle nulla, a parte cose del tutto superficiali, però l’ho tenuta d’occhio, con discrezione. A un certo punto, si è rivolta a una delle tue guardie… sono dappertutto…» «In teoria, la Cupola è una base militare» borbottò Genarr. «Le guardie si limitano a mantenere l’ordine, danno una mano in caso di bisogno…» «Oh, certo» osservò Eugenia, con una punta di disprezzo. «Servono a Janus Pitt per sorvegliarvi e tenervi in pugno… ma lasciamo perdere. Marlene e la guardia hanno parlato per un po’, sembrava una discussione piuttosto animata. Quando Marlene se n’è andata, mi sono avvicinata alla guardia e gli ho chiesto di cosa avessero discusso. Era restio a parlare, ma ho insistito. Ha detto che Marlene voleva una specie di lasciapassare per uscire e rientrare nella Cupola liberamente. "E lei cosa ha risposto?" gli ho chiesto. E la guardia: "Le ho detto che doveva rivolgersi all’ufficio del Comandante per il lasciapassare, ma che comunque avrei cercato di aiutarla". Io mi sono indignata. "Aiutarla? Come sarebbe a dire? Come ha potuto offrirsi di aiutarla?" gli ho chiesto. E lui: "Signora, dovevo pur fare qualcosa. Ogni volta che ho provato a dirle che non si poteva, mi sono sentito male".» Genarr ascoltò impassibile. «Intendi dire che è qualcosa che Marlene fa inconsciamente, che chi osa contraddirla sta male, e che lei non si rende conto di provocare questi incidenti?» «No. Non vedo come possa entrarci Marlene. Se fosse una sua capacità inconscia, si sarebbe manifestata anche su Rotor, e invece là non è mai successo nulla. E una contrarietà qualsiasi non basta. Ieri sera, a cena, voleva prendere una seconda porzione di dolce e io, dimenticando che era meglio non contrariarla, le ho detto: "No, Marlene!". Si vedeva che era arrabbiatissima, però si è calmata, non ha insistito, e io non ho avvertito il minimo effetto spiacevole, te lo assicuro. No, secondo me, non si può ostacolarla solo riguardo Eritro.» «E perché mai dovrebbe essere così, Eugenia? Ho l’impressione che tu abbia qualche idea. Se fossi Marlene, ti leggerei come un libro aperto e capirei, ma dato che non sono Marlene, è necessario che tu me lo dica.» «Non penso proprio che sia Marlene a fare queste cose. È… il pianeta stesso.» «Il pianeta?!» «Sì, Eritro! Il pianeta. Sta controllando Marlene. Altrimenti, perché dovrebbe sentirsi tanto sicura di essere immune al Morbo, di non correre nessun pericolo? E controlla anche noi altri. Sei stato male quando hai cercato di fermarla. Io pure. La guardia, idem. Agli inizi della colonizzazione, quando è sorta la Cupola, molte persone hanno riportato dei danni perché il pianeta si è sentito invaso e ha reagito producendo il Morbo. Poi, quando vi siete accontentati di rimanere nella Cupola, ha smesso di reagire e il Morbo è cessato. Tutti i particolari quadrano perfettamente, no?» «Dunque, pensi che il pianeta voglia Marlene là fuori, sulla sua superficie?» «A quanto pare, sì.» «Ma perché?» «Non lo so. Non ho la pretesa di capire. Ti sto solo dicendo come dev’essere la situazione.» La voce di Genarr si addolcì. «Eugenia, il pianeta non può fare nulla, e senz’altro lo sai. È un blocco di roccia e di metallo. Il tuo è un atteggiamento mistico.» «No, Siever. Non sbagliarti, non far finta che io sia una sciocca. Sono una scienziata di prim’ordine, e non c’è niente di mistico nel mio modo di pensare. Dicendo «pianeta», non mi riferisco alla roccia e al metallo. Intendo dire che sul pianeta c’è qualche forma di vita diffusa e potente.» «Dovrebbe essere invisibile, allora. Questo è un mondo brullo, sterile, dove non c’è traccia di vita a parte i procarioti, figuriamoci se può esserci l’intelligenza.» «Che ne sai di questo mondo che definisci sterile, eh? È stato esplorato a fondo, in ogni angolo?» Lentamente, Siever Genarr scosse la testa. «Eugenia, ti stai lasciando prendere dall’isteria» disse, il tono quasi supplichevole. «Davvero, Siever? Pensaci, e dimmi se riesci a trovare un’altra spiegazione. Dai retta a me… la forma di vita di questo pianeta, quale che sia, non ci vuole. Siamo condannati. E non riesco a immaginare… cosa voglia da Marlene» concluse Eugenia, con voce tremula. 28 Decollo LXI Ufficialmente, aveva un nome molto elaborato, ma era chiamata Stazione Quattro dai pochi terrestri che avevano occasione di parlarne. Dal nome si capiva subito che c’erano state tre stazioni come quella in precedenza… non erano più in funzione, però, dato che erano state cannibalizzate. C’era anche una Stazione Cinque, che era stata abbandonata prima di essere ultimata. Probabilmente, la grande maggioranza della popolazione terrestre non pensava mai alla Stazione Quattro, che ruotava lentamente attorno alla Terra seguendo un’orbita molto più esterna rispetto alla Luna. Le vecchie stazioni erano state le piattaforme di lancio della Terra per la costruzione della prime Colonie, poi, quando i coloni avevano cominciato a costruire le Colonie da soli, la Stazione Quattro era stata usata dalla Terra per i voli su Marte. Comunque, i viaggi su Marte si erano ridotti a uno solo, perché si era scoperto che i coloni erano molto più adatti, psicologicamente, ai lunghi voli (dato che i mondi su cui vivevano erano enormi astronavi), e la Terra aveva lasciato ai coloni quel compito, con un sospiro di sollievo. La Stazione Quattro ormai non veniva più usata, in pratica, e per la Terra era solo un avamposto nello spazio, un simbolo, per dimostrare che i coloni non erano gli unici padroni delle distese smisurate al di là dell’atmosfera terrestre. Ma adesso la Stazione Quattro serviva a qualcosa. Un grande cargo spaziale si era diretto proprio là, e sulle Colonie correva voce che la Terra avrebbe tentato di nuovo (per la prima volta nel venti treesimo secolo) di sbarcare su Marte. Semplicemente per esplorare, secondo alcuni; per insediare una colonia terrestre su Marte e aggirare le poche Colonie in orbita attorno al pianeta, secondo altri; per creare un avamposto su un asteroide non ancora occupato da qualche Colonia, secondo altri ancora. In realtà, il cargo trasportava l’Ultraluce e l’equipaggio che l’avrebbe spinta tra le stelle. Tessa Wendel, nonostante gli otto anni trascorsi sulla Terra, affrontò con calma il viaggio nello spazio, da buona colona. Le astronavi erano molto più simili a una Colonia che al pianeta Terra. E proprio per questo, malgrado in passato avesse compiuto diversi voli spaziali, Crile Fisher era un po’ agitato. Ma a bordo del cargo la tensione non dipendeva soltanto dall’ambiente e dalle condizioni poco familiari. Fisher disse: «Non sopporto l’attesa, Tessa. Ci sono voluti anni per arrivare a questo punto, e l’Ultraluce è pronta finalmente, e aspettiamo ancora!» Tessa Wendel lo fissò pensosa. All’inizio non aveva nessuna intenzione di legarsi a lui in quel modo. Desiderava degli attimi di relax, per riposare la mente affaticata dalla complessità del progetto e tornare poi al lavoro con la freschezza e la prontezza necessarie. Ecco quali erano le sue intenzioni, invece… Adesso si ritrovava legata anima e corpo a lui, e i problemi di Crile la riguardavano in prima persona. Gli anni di attesa si sarebbero rivelati inutili, e Tessa era preoccupata perché alla delusione inevitabile di Crile sarebbe seguita la disperazione. Aveva cercato di ridimensionare i suoi sogni, di raffreddare l’entusiasmo con cui pregustava già l’incontro con la figlia, ma non c’era riuscita. Anzi, nell’ultimo anno, Crile era diventato più ottimista, inspiegabilmente… o almeno, se c’era un motivo, lui non le aveva detto nulla. Tessa, alla fine, aveva concluso (con suo grande sollievo) che Crile cercava solo la figlia, non la moglie. A dire il vero, non aveva mai capito come mai desiderasse tanto una figlia che aveva visto solo da piccola, ma Crile non le aveva dato spiegazioni e lei aveva preferito lasciar perdere l’argomento. Perché insistere? A che scopo? Senza dubbio sua figlia era morta, come tutti i rotoriani, e Rotor, anche ammesso che si trovasse nei pressi della Stella Vicina, doveva essere ormai una tomba gigantesca, alla deriva nello spazio, per sempre… individuabile solo grazie a una incredibile coincidenza. E quando quella prospettiva inevitabile sarebbe diventata realtà, Tessa avrebbe dovuto controllare Crile, calmarlo, aiutarlo a rimanere lucido. Tessa lo blandì dicendo: «Ci restano appena due mesi di attesa… al massimo. Dato che abbiamo aspettato anni e anni, che vuoi che siano altri due mesi?» «Proprio perché abbiamo aspettato per anni, anche due mesi sono insopportabili a questo punto» borbottò Fisher. «Rassegnati, Crile. Impara a fare buon viso a cattiva sorte. Il Congresso Mondiale non vuole che partiamo prima, e basta. Le Colonie ci tengono d’occhio, e non è detto che tutti pensino che puntiamo su Marte, non abbiamo nessuna garanzia in questo senso. Sarebbe strano se lo pensassero, considerati i precedenti spaziali della Terra. Se non faremo nulla per due mesi, crederanno che abbiamo dei problemi… non avranno difficoltà a crederlo, e saranno anche contenti… e rivolgeranno altrove la loro attenzione.» Fisher scosse la testa rabbioso. «Che importa se sanno dove andiamo? Spariremo subito, e loro non realizzeranno il volo ultraluce per chissà quanti anni… e nel frattempo noi avremo una flotta di navi ultraluce e ci appresteremo a conquistare la Galassia.» «Non darlo per scontato. È più facile imitare e superare che creare. E il governo terrestre, dal momento che non ha combinato granché nello spazio dopo che le Colonie hanno raggiunto la maturità, evidentemente tiene a questo primato per motivi psicologici.» Tessa si strinse nelle spalle. «E poi, questi due mesi ci servono per effettuare altri test sull’Ultraluce in condizioni di bassa gravità.» «Gli esperimenti non finiscono mai, vero?» «Non essere impaziente. È una tecnica nuovissima, mai sperimentata direttamente, diversa da tutto quello che l’umanità ha avuto finora, quindi è fin troppo facile pensare a dei nuovi test, soprattutto dal momento che non sappiamo di preciso in che modo l’intensità di un campo gravitazionale influisca sul passaggio nell’iperspazio e sull’uscita dall’iperspazio. Davvero, Crile, se siamo prudenti non puoi biasimarci. In fin dei conti, fino a dieci anni fa, il volo ultraluce era considerato teoricamente impossibile.» «Si può esagerare anche con la prudenza.» «Può darsi. Ma alla fine deciderò che avremo fatto il possibile, e decolleremo. Te lo prometto, Crile, non aspetteremo più del necessario. Non esagererò con la prudenza.» «Lo spero.» Tessa lo guardò dubbiosa. Doveva chiederglielo. «Sai, Crile, sei cambiato ultimamente, mi sembra che tu frema d’impazienza. Per un po’ ti eri calmato, poi all’improvviso è tornata la frenesia. È successo qualcosa di cui non sono al corrente?» Fisher si calmò di colpo. «Non è successo nulla. Cosa può essere successo?» Ecco, adesso si era calmato troppo in fretta, quella sua aria di normalità forzata era molto sospetta, rifletté Tessa Wendel. «Sono io che ti sto chiedendo cosa può essere successo. Ho cercato di avvisarti, Crile… è improbabile che Rotor sia ancora un mondo vivo, o che noi lo troviamo, in ogni caso. Non troveremo tua… Difficilmente troveremo dei superstiti.» Attese, mentre Fisher si chiudeva in un silenzio ostinato, poi soggiunse: «Ti ho avvertito di… questa possibilità, no?» «Spesso» rispose Fisher. «Eppure, adesso sembra che ti aspetti un lieto fine, che tu abbia la certezza che l’incontro che sogni avverrà. È pericoloso illudersi, nutrire delle speranze che difficilmente si realizzeranno, imperniare la propria vita su queste speranze. Da cosa deriva questo cambiamento improvviso? Hai parlato con qualcuno che ti ha trasmesso un ottimismo ingiustificato?» Fisher arrossì. «Perché devo aver parlato con qualcuno? Non posso arrivare a delle conclusioni da solo? Anche se non capisco la fisica teorica come te, non significa che sia subnormale o stupido.» «No, Crile, non ho mai pensato una cosa del genere, né intendevo insinuarla. Dimmi cosa pensi a proposito di Rotor.» «Nulla di trascendentale. Penso semplicemente che nello spazio vuoto in pratica non c’è nulla che possa avere distrutto Rotor. Facile dire che adesso Rotor potrebbe essere solo un relitto, ammesso che abbia raggiunto la Stella Vicina, ma cosa dovrebbe averlo distrutto durante il viaggio o una volta a destinazione? Prova a descrivermi la catastrofe. Quale sarebbe stata la causa? Una collisione… un’intelligenza aliena…? Sentiamo.» «Crile, mi chiedi una cosa impossibile. Non ho nessuna visione mistica. Io mi baso soltanto sull’iperassistenza. È una tecnica rischiosa, delicata, credimi. Non usa in modo costante né lo spazio né l’iperspazio, ma si mantiene sull’interfaccia oscillando da una parte o dall’altra per brevi periodi, passando dallo spazio all’iperspazio e viceversa parecchie volte al minuto, forse. Quindi può darsi che questo tipo di passaggio sia avvenuto un milione di volte, o più, durante il viaggio dal Sistema Solare alla Stella Vicina.» «E allora?» «E allora, si da il caso che la transizione sia molto più pericolosa del volo costante nello spazio o nell’iperspazio. Non so fino a che punto i rotoriani avessero approfondito la teoria iperspaziale… non molto, probabilmente, altrimenti sarebbero arrivati senza dubbio al vero volo ultraluce. Nel nostro progetto, in cui abbiamo elaborato dettagliatamente la teoria iperspaziale, siamo riusciti a stabilire l’effetto del passaggio dallo spazio all’iperspazio e viceversa sui corpi. "Se un oggetto è un punto, durante la transizione non è sottoposto ad alcuna tensione. Se un oggetto non è un punto, però, se è un un blocco di materia, come una nave, per un certo periodo di tempo una parte dell’oggetto si trova nello spazio e una parte nell’iperspazio, sempre. Questo crea una tensione, e l’intensità della tensione dipende dalle dimensioni dell’oggetto, dalla sua costituzione fisica, dalla velocità di transizione, eccetera eccetera. Anche per un oggetto delle dimensioni di Rotor, una sola transizione, o una dozzina se è per questo, non è pericolosa… il pericolo è talmente piccolo da essere trascurabile. "Quando l’Ultraluce viaggerà verso la Stella Vicina, forse effettueremo una dozzina di transizioni, o forse appena un paio. Sarà un volo sicuro. In un volo iperassistito e basta, invece, le transizioni nel corso dello stesso viaggio possono essere un milione, e le probabilità di una tensione fatale aumentano.» Fisher parve sgomento. «È una cosa certa?» «No, non c’è nulla di certo. Siamo nel campo statistico. Una nave potrebbe compiere un milione di transizioni, o un miliardo, senza il minimo danno. D’altra parte, potrebbe essere distrutta alla prima transizione. Comunque, con l’aumento del numero di transizioni, le probabilità che si verifichi un incidente aumentano notevolmente. Secondo me, i rotoriani hanno affrontato il viaggio ignorando perlopiù i pericoli della transizione. Se avessero avuto una conoscenza più approfondita, non sarebbero mai partiti. Dunque, è molto probabile che abbiano sperimentato direttamente gli effetti di questa tensione… una tensione abbastanza debole da consentirgli di trascinarsi a stento fino alla stella, forse… o forse abbastanza forte da disintegrarli. Perciò, potremmo trovare un relitto, o nemmeno quello.» «O una Colonia ancora in vita» disse Fisher, ribellandosi. «Certo» ammise Tessa Wendel. «Oppure, contrariamente alle probabilità, la tensione potrebbe distruggerci, e in tal caso non scopriremmo nulla. Ti chiedo solo di non basarti su delle certezze, bensì su delle probabilità. E ricorda che per arrivare a delle conclusioni ragionevoli bisogna conoscere bene la teoria iperspaziale.» Fisher rimase in silenzio, chiaramente depresso, mentre Tessa lo osservava inquieta. LXII La Stazione Quattro era un ambiente strano per Tessa Wendel. Era come se qualcuno avesse costruito una minuscola Colonia per servirsene unicamente come laboratorio, osservatorio e piattaforma di lancio. Non c’erano fattorie, non c’erano abitazioni, mancavano tutti gli impianti e le attrezzature di una vera Colonia, per quanto piccola. Mancava perfino una rotazione attorno al proprio asse che creasse un campo pseudogravitazionale adeguato. Non era altro che un’astronave affetta da acromegalia. Anche se avrebbe potuto essere occupata permanentemente, a patto che ci fosse un rifornimento continuo di cibo, aria e acqua (il sistema di riciclaggio locale era limitato e inefficiente), era chiaro che nessun individuo avrebbe resistito a lungo lì. La Quattro sembrava una vecchia stazione costruita agli inizi dell’Era Spaziale e sopravvissuta inspiegabilmente fino al ventitreesimo secolo, era stato il commento amaro di Crile Fisher. Aveva però una particolarità unica. Offriva una vista panoramica del sistema TerraLuna. Dalle Colonie in orbita attorno alla Terra, era raro riuscire ad avere una visione d’insieme dei due corpi celesti. Dalla Stazione Quattro, invece, la Terra e la Luna non erano mai separate da più di quindici gradi, e via via che la Stazione Quattro ruotava attorno al centro di gravità di quel sistema (che corrispondeva grosso modo alla Terra) il cambiamento di posizione e di fase dei due mondi, e il cambiamento di dimensioni della Luna (che dipendeva dalla posizione in cui veniva a trovarsi il satellite rispetto al pianeta), costituiva uno spettacolo che non cessava mai di affascinare. Il Sole era escluso automaticamente dal sistema Ecart (Tessa dovette informarsi e scoprì che Ecart stava per "Eclisse artificiale"), e solo quando si avvicinava troppo alla Terra o alla Luna nel cielo della stazione guastava la visuale. Ora il retroterra culturale coloniale di Tessa Wendel affiorava interamente, infatti le piaceva osservare le evoluzioni della Terra e della Luna, soprattutto perché significava che lei non era più sulla Terra. Lo disse a Crile, che sorrise arcigno. Crile aveva notato il modo in cui lei si era guardata rapidamente attorno mentre parlava. «Vedo che a me lo dici tranquillamente, anche se sono un terrestre e potrei offendermi» commentò. «Ma, non temere, non andrò a raccontarlo agli altri.» «Oh, di te mi fido fino in fondo, Crile.» Tessa gli sorrise felice. Era cambiato parecchio da quella conversazione cruciale. D’accordo, era più cupo… ma meglio la cupezza dell’attesa febbrile di un evento irrealizzabile. «Pensi davvero che a questo punto il fatto che tu sia una colona li irriti?» chiese Crile. «Certo. Non lo dimenticano mai. Hanno una mentalità ristretta come la mia… infatti non dimentico mai che sono terrestri.» «Evidentemente, dimentichi che io sono terrestre.» «Perché sei Crile… Crile e basta… non c’è nessun’altra categoria per te. E io sono Tessa. E il discorso si chiude qui.» «Hai elaborato il volo ultraluce per la Terra, invece che per Adelia, la tua Colonia. Non ti da fastidio?» chiese Crile pensieroso. «Ma non l’ho fatto per la Terra, come non lo avrei fatto per Adelia in circostanze diverse. L’ho fatto per me. Avevo un problema da risolvere, e ci sono riuscita. Adesso passerò alla storia come l’inventrice del volo ultraluce… ecco cos’ho fatto per me. E anche se potrà sembrare pretenzioso, lo faccio anche per l’umanità. Sai, il luogo d’origine di una scoperta non ha importanza. Su Rotor qualcuno ha inventato l’iperassistenza, però adesso l’abbiamo anche noi e tutte le Colonie. Alla fine, anche le Colonie avranno il volo ultraluce. Il progresso giova sempre a tutta l’umanità, indipendentemente dal posto in cui si è compiuto il passo avanti.» «La Terra ne ha bisogno più delle Colonie, però.» «Intendi dire, per via dell’avanzata della Stella Vicina, a cui le Colonie possono sottrarsi facilmente andandosene, ma a cui la Terra non può sottrarsi. Be’, è un problema che lascio ai capi della Terra. Io gli ho fornito lo strumento, adesso sta a loro trovare i metodi per utilizzarlo nel modo migliore.» «Allora, domani partiamo» disse Crile Fisher. «Sì, finalmente. Sarà una cosa in grande stile, con tanto di riprese olografiche. Non so però quando potranno mostrarle al pubblico e alle Colonie.» «Dopo il nostro ritorno. Sarebbe assurdo trasmettere le registrazioni senza sapere nemmeno se torneremo. Sarà un’attesa spasmodica per loro, dal momento che non saranno in contatto con noi. La prima volta che hanno raggiunto la Luna, gli astronauti sono rimasti in contatto con la Terra per tutto il viaggio.» «È vero» annuì Tessa. «Però quando Colombo ha attraversato l’Atlantico, i monarchi spagnoli non hanno più avuto sue notizie finché non è tornato sette mesi dopo.» «Adesso la posta in gioco per la Terra è molto più alta, mentre sette secoli e mezzo fa per la Spagna non si trattava di una questione di vita o di morte. È un vero peccato che non abbiamo le comunicazioni ultraluce, dal momento che abbiamo il volo ultraluce.» «Ne sono convinta. E anche Koropatsky, che ha insistito perché mettessi a punto la telecomunicazione ultraluce. Ma, come gli ho spiegato, non sono una forza soprannaturale dai poteri miracolosi. Un conto è spingere una massa attraverso l’iperspazio, un conto è inviare delle radiazioni. Le due cose obbediscono a leggi diverse perfino nello spazio normale, e infatti Maxwell ha elaborato la sue equazioni elettromagnetiche due secoli dopo l’equazione gravitazionale di Newton. Be’, anche nell’iperspazio la massa e la radiazione obbediscono a leggi diverse, e quelle della radiazione non sono ancora alla nostra portata. Un giorno avremo le comunicazioni ultraluce, ma per ora dobbiamo farne a meno.» «Peccato» osservò Fisher meditabondo. «Forse senza le comunicazioni ultraluce il volo ultraluce non sarà pratico.» «Perché?» «La mancanza di comunicazioni ultraluce taglia il cordone ombelicale. Una Colonia potrebbe vivere lontano dalla Terra? Potrebbe sopravvivere isolata dal resto dell’umanità?» Tessa aggrottò le ciglia. «Cos’è questa nuova linea filosofica che hai cominciato a seguire?» «Una semplice considerazione. Dato che sei una colona, da sempre, Tessa, forse non ti rendi conto che vivere su una Colonia non è una cosa naturale per gli esseri umani.» «Davvero? A me non è mai sembrata una cosa innaturale.» «Perché in realtà non eri su una Colonia. Eri in un sistema di Colonie in mezzo al quale c’era una grande pianeta con miliardi di abitanti. Può darsi che i rotoriani, una volta raggiunta la Stella Vicina, abbiano constatato che la vita su una Colonia isolata è insoddisfacente, no? Cosa avrebbero dovuto fare in questo caso? Tornare qui, senza dubbio. Ma non l’hanno fatto. Perché? Perché può darsi che abbiano trovato un pianeta su cui vivere, no?» «Un pianeta abitabile attorno a una nana rossa? Molto improbabile.» «La natura a volte ci beffa, sconvolge le nostre certezze. Supponiamo che là ci sia un pianeta abitabile. Dovremmo studiarlo attentamente, no?» «Ah, comincio a capire dove vuoi arrivare» disse Tessa. «Pensi che la nave possa scoprire un pianeta nei pressi della stella. In tal caso, ne prenderemmo atto, stabiliremmo da lontano che è disabitato, per poi proseguire l’esplorazione. Secondo te, invece, dovremmo atterrare e compiere una ricerca molto più accurata, per tentare almeno di trovare tua figlia. Ma se il rivelatore neuronico non individuerà alcuna traccia di intelligenza nell’ipotetico sistema planetario della Stella Vicina? Dobbiamo setacciare ugualmente tutti i pianeti?» Fisher esitò. «Sì. Se ci sembreranno potenzialmente abitabili, dobbiamo studiarli, scoprire il più possibile, credo. Forse dovremo cominciare a evacuare la Terra, presto, e dobbiamo sapere dove portare la nostra gente. È facile per te lasciar perdere, visto che le Colonie possono allontanarsi senza difficoltà, senza bisogno di eva…» «Crile! Non cominciare a trattarmi come se fossi il nemico, a considerarmi di colpo una colona e basta! Sono io, Tessa. Se ci sarà un pianeta, lo studieremo nei limiti del possibile, te lo prometto. Ma se ci sarà un pianeta, e se sarà occupato dai rotoriani… Be’, tu hai passato qualche anno su Rotor, Crile. Conoscerai senz’altro Janus Pitt.» «Ne ho sentito parlare. Non l’ho mai conosciuto di persona, però mia mo… la mia ex moglie lavorava con lui. Stando a lei, era un uomo molto abile, intelligentissimo, estremamente energico.» «Estremamente energico, sì. Anche sulle altre Colonie lo conoscevamo di fama. E non ci era simpatico. Se intendeva trovare un posto nascosto per Rotor, lontano dal resto dell’umanità, il suo obiettivo sarà stato certamente la Stella Vicina, data la distanza minima e dato che all’epoca solo Rotor sapeva dell’esistenza della stella. E se, per qualche motivo, voleva un sistema tutto per sé, trattandosi di Janus Pitt, avrà temuto la possibilità di essere seguito e di perdere il suo monopolio. Se per caso ha trovato un pianeta adatto, utilizzabile da Rotor, un’intrusione lo irriterà ancor di più…» «Dove vuoi arrivare?» chiese Fisher turbato, come se conoscesse già la risposta. «Be’, domani decolliamo, e in breve tempo raggiungeremo la Stella Vicina. Se ci sarà un pianeta, come pensi tu, e se sarà occupato dai rotoriani, non si tratterà semplicemente di scendere sulla superficie e di dire: "Salve! Sorpresa!". Ho paura che non appena ci avvisteranno, Pitt vorrà salutarci a modo suo, disintegrandoci.» 29 Nemica LXIII Ranay D’Aubisson, come tutti gli abitanti della Cupola di Eritro, visitava periodicamente Rotor. Era necessario… per respirare di nuovo l’atmosfera di casa, tornare alle radici, rinnovare le energie. Questa volta, però, Ranay era "andata su" (l’espressione consueta che indicava il trasferimento da Eritro a Rotor) un po’ prima della data prestabilita. Era stata convocata dal Commissario Pitt. Ora sedeva nell’ufficio di Janus Pitt, notando con occhio esperto i piccoli segni d’invecchiamento che si erano accumulati dall’ultima volta che lo aveva visto, parecchi anni prima. Normalmente, Ranay non aveva occasione di vederlo spesso. La voce di Pitt, comunque, era ancora forte, gli occhi erano gli stessi occhi penetranti, e Ranay non notò alcun cenno di declino nel suo vigore mentale. Pitt disse: «Ho ricevuto il tuo rapporto sull’incidente all’esterno della Cupola, e mi rendo conto che sei stata cauta nel fare una diagnosi della situazione. Ma adesso, in via ufficiosa… cos’è successo a Genarr? Questa stanza è schermata, e puoi parlare liberamente». La D’Aubisson rispose asciutta: «Mi spiace, ma si da il caso che il mio rapporto, per quanto cauto, sia anche veritiero e completo. In realtà non sappiamo cosa sia successo al Comandante Genarr. L’analisi cerebrale ha mostrato delle alterazioni, ma erano piccolissime e non trovavano riscontro nella nostra esperienza passata. Ed erano reversibili, dal momento che poi sono scomparse in fretta». «Però gli è successo qualcosa, no?» «Oh, sì, ma è questo il punto. Sappiamo che gli è successo qualcosa, ma non siamo in grado di dire altro.» «Una forma di Morbo, forse?» «Nessuno dei sintomi rilevati in passato era presente in questo caso.» «Ma in passato, agli inizi del Morbo, l’analisi cerebrale èra ancora una tecnica piuttosto primitiva rispetto a oggi. Non avreste individuato i sintomi che avete individuato adesso, in passato… quindi potrebbe trattarsi di una forma lieve di Morbo, no?» «Potrebbe darsi, però non potremmo dimostrarlo con delle prove concrete. E in ogni caso, adesso Genarr è normale.» «Sembra normale, immagino… però potrebbe esserci una ricaduta.» «Non abbiamo motivo di crederlo.» Un’espressione di impazienza comparve per un attimo sul volto del Commissario. «D’Aubisson, continui a contraddirmi. Sai benissimo che la posizione di Genarr è molto importante. La situazione nella Cupola è sempre precaria, dato che non sappiamo mai se e quando il Morbo tornerà a colpire. Genarr era prezioso perché sembrava immune al Morbo, ma adesso non mi pare che possiamo considerarlo ancora immune. Qualcosa è successo, e dobbiamo essere pronti a sostituirlo.» «È una decisione che spetta a lei, Commissario. Io non ho detto che questa sostituzione sia una cosa necessaria, da un punto di vista medico.» «Però terrai Genarr sotto osservazione, e terrai presente che forse sarà necessario sostituirlo, spero.» «Fa parte dei miei doveri professionali.» «Bene. Soprattutto dal momento che se bisognerà sostituire Genarr ho pensato a te.» «A me?» Una scintilla di eccitazione illuminò un attimo il volto di Ranay D’Aubisson, prima che lei riuscisse a reprimerla. «Sì. Perché no? Si sa che non mi ha mai entusiasmato l’idea di colonizzare Eritro. Ritengo sia meglio conservare la nostra mobilità, evitare di lasciarci intrappolare di nuovo da un grande pianeta. Tuttavia, sarebbe utile riuscire a colonizzare il pianeta, non per destinarlo alla popolazione, bensì per sfruttarlo come fonte di risorse… come la Luna nel vecchio Sistema Solare. Ma non possiamo farlo con la minaccia incombente del Morbo, no?» «No, Commissario.» «Quindi, innanzitutto dobbiamo risolvere questo problema. Non l’abbiamo mai risolto. Il Morbo è cessato, e noi ci siamo accontentati di come stavano le cose. Ma quest’ultimo incidente dimostra che il pericolo non è ancora passato. Forse nel caso di Genarr il Morbo non c’entra, o forse sì… comunque, quel che è certo è che Genarr è stato colpito da qualcosa, e adesso io voglio che questa questione abbia la massima priorità. Saresti la persona ideale per dirigere il progetto.» «È una responsabilità che accetterei volentieri. Continuerei a fare quello che mi sto sforzando di fare anche adesso, ma con un’autorità maggiore. Esito un po’ all’idea di diventare Comandante della Cupola…» «Come hai detto tu stessa, sta a me decidere. Mi pare di capire che se ti venisse offerta la carica non rifiuteresti, eh?» «No, Commissario. Sarebbe un grande onore.» «Già, non ne dubito» osservò freddo Pitt. «E cos’è successo alla ragazza?» Per un attimo, Ranay D’Aubisson parve sorpresa quando il Commissario cambiò di colpo argomento. «La… la ragazza?» ripeté, balbettando quasi. «Sì, la ragazza che era all’esterno della Cupola con Genarr… quella che si è tolta la tuta protettiva.» «Marlene Fisher?» «Sì, si chiama così. Che le è successo?» La D’Aubisson esitò. «Ma… nulla, Commissario.» «È quel che dice il rapporto. Però adesso lo sto chiedendo a te. Nulla?» «Nulla di individuabile, né con l’analisi cerebrale né in qualsiasi altro modo.» «Cioè, mentre Genarr, che indossava una tutaE, è stato colpito, alla ragazza, a questa Marlene Fisher, che era senza tuta, non è successo nulla?» La D’Aubisson si strinse nelle spalle. «Assolutamente nulla, a quanto ci risulta.» «Non ti sembra strano?» «È una ragazza strana. La sua analisi cerebrale…» «Lo so. So anche che ha delle doti insolite. L’hai notato?» «Oh, sì. Certo.» «Che ne pensi di quelle doti? Lettura del pensiero, per caso?» «No, Commissario. Impossibile. Il concetto di telepatia è un’assurdità. Magari fosse lettura del pensiero… sarebbe meno pericoloso. I pensieri si possono controllare.» «Cos’ha di più pericoloso, la ragazza?» «A quanto pare, legge il linguaggio corporeo, e il linguaggio del corpo non si può controllare. Anche il minimo gesto è eloquente.» Ranay lo disse con una sfumatura di amarezza, che non sfuggì a Pitt. «Lo hai sperimentato di persona?» «Certo» rispose Ranay, l’espressione torva. «È impossibile stare accanto a quella ragazza senza sentire gli effetti sgradevoli delle sue capacità percettive.» «Sì, ma cos’è successo?» «Niente di serio, però è stato seccante.» Ranay arrossì e, per un attimo, serrò le labbra, come se fosse tentata di non rispondere. Ma l’attimo passò. «Dopo che avevo esaminato il Comandante Genarr» disse, quasi in un sussurro «Marlene mi ha chiesto come stava. Le ho spiegato che non aveva nulla di grave e che senza dubbio si sarebbe ripreso completamente. Lei mi ha detto, allora: "Perché sei delusa?". Io sono rimasta sorpresa e ho risposto: "Non sono delusa, sono contenta". La ragazza ha insistito: "Invece sei delusa. È chiaro. Sei impaziente". Era la prima volta che mi trovavo in quel tipo di situazione, anche se ne avevo sentito parlare, e non sapevo come comportarmi, la mia reazione istintiva è stata quella di ribattere: "Perché dovrei essere impaziente? Per quale motivo?". Marlene mi ha guardato seria, con quei grandi occhi scuri e inquietanti, poi ha detto: "Sembra che c’entri zio Siever…"» Pitt l’interruppe. «Zio Siever? C’è qualche parentela?» «No. È solo un appellativo affettuoso, credo… Be’, Marlene ha detto: "Sembra che c’entri zio Siever, forse vuoi prendere il suo posto e diventare Comandante della Cupola". Al che, me ne sono andata.» «Come ti sei sentita quando ha detto questo?» «Furiosa. Naturalmente.» «Perché ti aveva calunniata? O perché aveva ragione?» «Ecco, in un certo senso…» «No, no. Niente risposte evasive, D’Aubisson. Si sbagliava o aveva ragione? Eri delusa per la guarigione di Genarr, abbastanza delusa da permettere alla ragazza di notarlo, o la ragazza ha immaginato tutto quanto?» Le parole sembrarono uscire forzatamente dalle labbra della dottoressa. «Ha avvertito qualcosa che in effetti era presente.» Ranay fissò Pitt con aria spavalda. «Sono un essere umano, ho degli impulsi come chiunque altro. Lei stesso ha appena detto che potrebbe offrirmi quella carica, il che significa che mi considera una persona qualificata, mi pare.» «Certo, ti ha calunniata moralmente… se non di fatto» osservò Pitt, senza il minimo cenno di umorismo. «Ma adesso rifletti… Abbiamo questa ragazza, insolita, molto strana, come indicato dall’analisi cerebrale e dal suo comportamento… e, inoltre, per quanto riguarda il Morbo, questa ragazza sembra immune. È chiaro… forse c’è un collegamento tra la sua struttura neuronica e la sua resistenza al Morbo. Non potrebbe essere uno strumento utile per studiare il Morbo?» «Non saprei. Può darsi.» «Non dovremmo provare?» «Forse. Ma, come?» «Esponendola il più possibile all’influenza di Eritro.» La D’Aubisson disse pensierosa: «È proprio quello che vuole fare lei, e il Comandante Genarr sembra disposto ad accontentarla». «Bene. Allora tu fornirai l’appoggio medico.» «Capisco. E se la ragazza contrarrà il Morbo?» «Dobbiamo ricordare che la soluzione del problema è più importante del benessere di un singolo individuo. Abbiamo un mondo da conquistare, e forse per conquistarlo dovremo pagare un prezzo… triste ma necessario.» «E se Marlene subirà dei danni irreparabili, e questo tentativo non ci aiuterà a capire o a combattere il Morbo?» «È un rischio che dobbiamo correre. In fin dei conti, può anche darsi che alla ragazza non accada nulla, e che studiando attentamente la sua immunità riusciamo a trovare qualche spunto fondamentale per arrivare a comprendere il Morbo. In tal caso, vinceremmo senza perdere nulla.» Solo in seguito, quando Ranay D’Aubisson fu uscita per tornare nel proprio appartamento rotoriano, la risolutezza ferrea di Janus Pitt gli permise di considerarsi il nemico giurato di Marlene Fisher. Perché la vittoria fosse autentica, Marlene doveva essere distrutta e il Morbo doveva rimanere un mistero insoluto. In un colpo solo, Pitt si sarebbe sbarazzato di una ragazza scomoda che altrimenti, un giorno, avrebbe potuto generare delle creature come lei; e di un mondo scomodo che altrimenti, un giorno, avrebbe potuto generare una popolazione indesiderabile, dipendente e immobile come la popolazione della Terra. LXIV Sedevano insieme nella Cupola: Siever Genarr attento, Eugenia Insigna preoccupatissima, e Marlene Fisher visibilmente impaziente. Eugenia disse: «Ricorda, Marlene… non fissare Nemesis. Lo so che ti hanno avvisata della pericolosità degli infrarossi, ma il fatto è che Nemesis è anche una stella della classe UV Ceti, una variabile a brillamenti. Di tanto in tanto c’è un’eruzione sulla sua superficie, e un’esplosione di luce bianca. Dura appena un paio di minuti, ma è sufficiente a provocare uno shock alla retina, ed è un fenomeno che può verificarsi in qualsiasi istante.» «Gli astronomi non sono in grado di prevederlo?» chiese Genarr. «Finora, no. È uno dei molti aspetti caotici della natura. Non abbiamo ancora decifrato le leggi che stanno alla base della turbolenza stellare, e secondo alcuni non riusciremo mai a decifrarle del tutto. Sono troppo complèsse.» «Interessante» osservò Genarr. «Non che le esplosioni non siano gradite. Il tre per cento dell’energia che Eritro riceve da Nemesis proviene da quelle esplosioni.» «Non sembra granché.» «È importante, però. Senza le esplosioni, Eritro sarebbe un mondo gelido, e sarebbe molto meno facile vivere qui. Sono un problema per Rotor, che ogni volta che si verifica un’esplosione deve regolare in fretta il carico di luce solare che utilizza e intensificare il campo d’assorbimento delle particelle.» Marlene, che stava guardando i due adulti mentre conversavano, intervenne finalmente con una nota di esasperazione. «Avete intenzione di continuare per un pezzo? Lo fate solo per tenermi qui. Lo capisco benissimo.» «Dove andrai, una volta fuori?» chiese Eugenia. «In giro. Al fiume, o ruscello… o quello che è.» «Perché?» «Perché è interessante… dell’acqua che scorre all’aperto, e non si vede l’inizio né la fine, e sai che non viene pompata indietro…» «Sì, invece… dal calore di Nemesis» precisò Eugenia. «Questo non conta. Voglio dire che non sono degli esseri umani a farlo. Voglio stare là, a guardarla scorrere.» «Non berla» disse la madre, severa. «Non ho nessuna intenzione di berla. Posso resistere un’ora senza bere. Se avrò fame, o sete, o… qualsiasi altro bisogno… rientrerò. Stai facendo tanto rumore per nulla.» Genarr sorrise. «Immagino che tu voglia riciclare tutto qui nella Cupola.» «Sì, certo. Logico, no?» Il sorriso di Genarr si allargò. «Sai, Eugenia, penso proprio che la vita sulle Colonie abbia cambiato per sempre l’umanità. Adesso la necessità di riciclare è ben radicata in noi. Sulla Terra, le cose si gettavano semplicemente, dando per scontato un riciclaggio naturale, che a volte, ovvio, non avveniva.» «Genarr, sei un sognatore» disse Eugenia. «Può darsi che gli esseri umani imparino le buone abitudini sotto pressione, ma attenua la pressione e vedrai che le cattive abitudini si rifaranno vive subito. È più facile andare in discesa che in salita. È il secondo principio della termodinamica. E se dovessimo colonizzare Eritro, prevedo già che lo riempiremo di rifiuti in men che non si dica.» «No, non lo faremo» disse Marlene. «Perché no, cara?» chiese con garbo Genarr. «Perché no» fu la risposta insofferente della ragazza. «Adesso posso uscire?» Genarr guardò Eugenia. «Be’, lasciamola andare, a questo punto. Non possiamo trattenerla in eterno. E poi, per quel che vale, Ranay D’Aubisson, che è appena tornata da Rotor, ha esaminato tutti i dati raccolti fin dall’inizio e ieri mi ha detto che l’analisi cerebrale di Marlene sembra così stabile che è convinta che a Marlene non accadrà nulla di spiacevole su Eritro.» Marlene, che si era girata verso la porta, pronta a raggiungere la camera stagna, tornò a voltarsi. «Aspetta, zio Siever… quasi me ne dimenticavo. Devi stare attento alla dottoressa D’Aubisson.» «Perché? È un ottimo neurofisico.» «Non mi riferivo a questo. Era contenta quando stavi male dopo l’escursione all’esterno, ed era piuttosto delusa quando ti sei ripreso.» Eugenia parve sorpresa e chiese automaticamente: «Perché dici questo?» «Perché lo so.» «Ma… non capisco. Siever, non vai d’accordo con la D’Aubisson?» «Certo. Andiamo perfettamente d’accordo. Mai una parola rabbiosa. Ma se Marlene dice che…» «Marlene potrebbe sbagliarsi, no?» E Marlene intervenne subito. «Ma non mi sbaglio.» «Non ne dubito, Marlene» disse Genarr. E rivolto a Eugenia: «La D’Aubisson è una donna ambiziosa. Se dovesse succedermi qualcosa, a rigor di logica dovrebbe essere lei il mio successore. Ha molta esperienza, e sicuramente saprà affrontare la situazione nel migliore dei modi se il Morbo scoppierà ancora. Inoltre, è più anziana di me, e forse pensa di non avere più molto tempo da perdere. Se era ansiosa di prendere il mio posto, se si è rallegrata un po’ quando stavo male, in fondo posso capirla. Può darsi che non si renda nemmeno conto di provare questi sentimenti». «Se ne rende conto, invece. Benissimo» disse Marlene, sinistra. «Stai in guardia, zio Siever.» «Va bene. Sei pronta, adesso?» «Certo.» «Allora, lascia che ti accompagni alla camera d’equilibrio. Vieni con noi Eugenia, e cerca di non fare quella faccia da funerale.» Così, per la prima volta, Marlene uscì sulla superficie di Entro sola e senza alcuna protezione. Erano le 21,20 del 15 gennaio 2237, ora standard terrestre. Era metà mattina, su Eritro. 30 Transizione LXV Crile Fisher si sforzò di reprimere la propria eccitazione, cercò di mantenere la stessa espressione calma degli altri. Non sapeva dove fosse Tessa Wendel in quel momento. Non poteva essere lontana, perché l’Ultraluce era abbastanza piccola… però gli scompartimenti della nave erano disposti in maniera tale che due persone potevano benissimo non vedersi. Gli altri tre membri dell’equipaggio erano semplici paia di mani per Fisher. Ognuno di loro aveva un compito da svolgere, e lo stava svolgendo. Solo Fisher non aveva un compito specifico… a parte quello di stare attento a non intralciare gli altri, forse. Guardò i tre compagni (due uomini e una donna) in modo quasi furtivo. Li conosceva abbastanza, e aveva parlato spesso con loro. Erano tutti giovani. Il più anziano era ChaoLi Wu, trentotto anni, tecnico iperspaziale. C’erano poi Henry Jarlow, trentacinque anni, e Merry Blankowitz, la più giovane del gruppo, ventisette anni e fresca di laurea. Tessa Wendel, coi suoi cinquantacinque anni, era vecchissima rispetto agli altri, però era l’inventrice, la progettista, la semidea del volo. Era Fisher quello in soprannumero, che non c’entrava. Tra non molto avrebbe compiuto cinquant’anni, e non aveva nessuna specializzazione. In base all’età o al bagaglio di conoscenze, non aveva il diritto di trovarsi a bordo. Ma era stato su Rotor. E questo contava. E Tessa Wendel lo voleva con sé, e questo contava ancor di più. E anche Tanayama e Koropatsky volevano che partisse, il che contava più di qualsiasi altra cosa. La nave stava avanzando pesantemente nello spazio. Fisher lo sapeva, anche se non c’era nessun segno concreto che lo indicasse. Era qualcosa che Fisher sentiva, a livello viscerale. Pensò rabbioso: "Sono stato nello spazio molto più a lungo di tutti gli altri messi assieme, più volte, su più navi. Io capisco subito che questa nave non è agile, scattante, elegante. Lo sento. Loro, no!" L’Ultraluce doveva fare a meno di certe caratteristiche. I normali propulsori che spingevano le astronavi normali attraverso il vuoto erano ridotti, limitati, sull’Ultraluce. Inevitabile, perché la maggior parte della nave era occupata dai motori iperspaziali. Tessa apparve all’improvviso, i capelli un po’ scarmigliati, leggermente sudata. «Tutto bene, Tessa?» chiese Fisher. «Oh, sì.» Tessa appoggiò il posteriore a uno dei comodi avvallamenti della parete (molto utili, considerata la bassa pseudogravità mantenuta a bordo). «Nessun problema.» «Quando entreremo nell’iperspazio?» «Tra poche ore. Vogliamo raggiungere le coordinate giuste, in modo che tutte le sorgenti gravitazionali distorgano lo spazio come calcolato.» «Per poterne tener conto esattamente?» «Appunto.» «Allora il volo iperspaziale non sembra molto pratico. E se non sai dov’è ogni cosa? Se hai fretta e non puoi fermarti a calcolare ogni contrazione gravitazionale?» Tessa guardò Fisher e all’improvviso sorrise. «Non mi hai mai chiesto niente del genere, prima. Perché adesso me lo chiedi?» «Perché è la prima volta che faccio un viaggio iperspaziale. Date le circostanze, è un interrogativo che sorge spontaneo con la massima urgenza.» «Sono anni che mi trovo di fronte a interrogativi di questo tipo. Benvenuto nel club.» «Rispondimi.» «Volentieri. In primo luogo, ci sono delle apparecchiature che misurano l’intensità gravitazionale complessiva, considerata nei suoi aspetti scalari e tensoriali, in qualsiasi punto dello spazio, anche se non si conosce la zona in cui ci si trova. Il risultato non è precisissimo, sarebbe più preciso se si misurassero minuziosamente tutte le sorgenti gravitazionali facendo poi la somma… ma è abbastanza preciso, se il tempo è prezioso. E se il tempo è ancor più prezioso e, per così dire, devi premere il pulsante dell’iperspazio sperando che la gravità non sia molto rilevante, e per caso ti sbagli leggermente, allora la transizione sarà seguita da qualcosa equivalente grosso modo a uno scossone… come varcare una soglia inciampando con la punta della scarpa. Se possiamo evitarlo, benissimo, ma in caso contrario non è detto che debba essere per forza una cosa fatale. Naturalmente, trattandosi della prima transizione, ci piacerebbe che avvenisse nel modo più dolce possibile, per motivi psicologici… se non altro.» «E se hai fretta, pensi che la gravità sia trascurabile, e invece non è così?» «Devi augurarti che non accada.» «Hai parlato di tensioni durante la transizione. Questo significa che la nostra prima transizione potrebbe essere fatale, anche tenendo conto della gravità.» «Potrebbe. Ma le probabilità che si verifichi un incidente fatale in una transizione sono bassissime.» «Anche se non fosse fatale, potrebbe essere spiacevole, no?» «È più difficile rispondere a questa domanda, perché in questo caso si tratta di esprimere un giudizio soggettivo. Devi renderti conto che non c’è accelerazione. Con l’iperassistenza, una nave deve raggiungere la velocità della luce, e perfino superarla per certi periodi, usando un campo iperspaziale a bassa energia. Il rendimento è basso, le velocità sono alte, i rischi notevoli, e francamente non so quali possano essere i disagi. Col volo ultraluce, usando un campo iperspaziale ad alta energia, noi compiamo la transizione a velocità normali. Magari viaggiamo a una velocità di mille chilometri al secondo, e un attimo dopo filiamo a mille milioni di chilometri al secondo senza accelerazione. E dato che non c’è accelerazione, non la sentiamo.» «Com’è possibile che non ci sia accelerazione se la velocità aumenta in un attimo di un milione di volte?» «Perché la transizione è l’equivalente matematico dell’accelerazione. Tuttavia, mentre il corpo umano reagisce all’accelerazione, non reagisce alla transizione.» «Ma come si fa a stabilirlo?» «Inviando degli animali nell’iperspazio da un punto a un altro punto. Sono nell’iperspazio solo per una frazione di microsecondo, ma è la transizione spazioiperspazio che ci interessa, e questa transizione avviene in entrambe le direzioni anche per un passaggio brevissimo nell’iperspazio.» «E avete provato con gli animali?» «Certo. Arrivati a destinazione, non potevano raccontarci le loro impressioni, però erano illesi, tranquilli. Chiaramente non avevano subito alcun danno. Abbiamo provato con decine di animali di ogni genere. Perfino con le scimmie, e sono sopravvissute tutte benissimo… a parte un caso.» «Ah! E in quell’unico caso, cos’è successo?» «L’animale era morto, mutilato in modo… grottesco. Ma l’incidente è stato provocato da un errore di programmazione. Non è stata la transizione. E qualcosa del genere può accadere anche a noi. È improbabile, però è possibile. Equivarrebbe a varcare una soglia, inciampare, cadere e rompersi il collo. Sono cose che capitano, però non ci aspettiamo che capitino tutte le volte che varchiamo una soglia. Va bene?» «Non ho scelta, immagino» osservò Fisher, torvo. «Va bene.» Due ore e ventisette minuti dopo, la nave passò indenne nell’iperspazio, senza che i membri dell’equipaggio avvertissero nulla, e il primo volo ultraluce a velocità molto superiori a quella della luce ebbe luogo. La transizione avvenne alle 21,20 del 15 gennaio 2237, ora standard terrestre. 31 Nome LXVI Silenzio! A Marlene piaceva moltissimo… soprattutto perché poteva romperlo se solo lo desiderava. Si chinò a raccogliere un sassolino e lo gettò contro una roccia. Un lieve tonfo, poi il sassolino cadde sul terreno e si fermò. Poiché aveva lasciato la Cupola con gli indumenti che avrebbe indossato su Rotor, era perfettamente libera. Si era allontanata dalla Cupola avviandosi direttamente verso il ruscello, senza nemmeno soffermarsi a controllare i punti di riferimento. Le ultime parole di sua madre erano state una implorazione piuttosto debole… «Ti prego, Marlene, ricorda che hai detto che rimarrai in vista della Cupola.» Marlene aveva sorriso un istante, ma non aveva prestato attenzione. Forse sarebbe rimasta nei paraggi, o forse no. Non intendeva lasciarsi imporre restrizioni, indipendentemente dalle promesse che era stata costretta a fare per il quieto vivere. In fin dei conti, aveva con sé un ricetrasmettitore di segnali. Avrebbero potuto localizzarla in qualsiasi momento. E lei avrebbe potuto servirsi dell’apparecchio per individuare la direzione della Cupola. Se avesse avuto un incidente, se fosse caduta o si fosse fatta male in qualche modo, avrebbero potuto soccorrerla. Se l’avesse colpita un meteorite… be’, sarebbe morta. Non ci sarebbe stato nulla da fare, anche se fosse stata vicino alla Cupola. Anche col pensiero inquietante dei meteoriti, era tutto così meraviglioso e tranquillo su Eritro. Su Rotor, sempre rumore. Dovunque si andasse, l’aria vibrava di onde sonore che martellavano i timpani stanchi. Sulla Terra doveva essere anche peggio… otto miliardi di esseri umani, trilioni di animali, tempeste, scrosci d’acqua dal mare e dal cielo. Una volta aveva provato ad ascoltare una registrazione intitolata Rumori della Terra, era trasalita, e si era stancata quasi subito. Ma lì su Eritro c’era un silenzio meraviglioso. Giunse al ruscello. L’acqua le scorreva accanto gorgogliando. Marlene raccolse un ciottolo dentellato e lo gettò nell’acqua, e si sentì un tonfo leggero. I suoni non erano proibiti su Eritro; erano semplicemente distribuiti con parsimonia come ornamenti occasionali che servivano a rendere più prezioso il silenzio circostante. Batté il piede sul fondo argilloso della sponda. Di nuovo un lieve tonfo, e un’impronta vaga. Si chinò, chiuse la mano a coppa, prese un po’ d’acqua, e la versò sul terreno di fronte a sé. Il terreno si inumidì e diventò più scuro in certi punti… chiazze cremisi sullo sfondo rosa. Versò altra acqua, poi premette il piede destro con forza. Quando alzò la scarpa, c’era un’impronta più profonda. C’erano delle rocce sparse qua e là nel ruscello, e Marlene le usò come appoggi per guadare. Quindi proseguì, camminando spedita, dondolando le braccia, respirando a fondo. Sapeva che lì la percentuale di ossigeno era più bassa rispetto a Rotor. Se avesse corso, si sarebbe stancata in fretta, ma non aveva nessuna voglia di correre. Correndo, non avrebbe potuto gustare con calma il suo mondo. Voleva guardare ogni cosa! Si voltò. La Cupola era ancora visibile, soprattutto la bolla che ospitava gli strumenti astronomici. Marlene si irritò. Non era abbastanza lontana. Voleva poter girare su se stessa e vedere l’orizzonte come un cerchio perfetto anche se irregolare, ininterrotto, senza alcun segno della presenza umana (a parte lei). Doveva chiamare la Cupola? Dire a sua madre che sarebbe sparita per un po’? No, avrebbero solo litigato. Tanto, ricevevano la sua portante, e avrebbero capito che era viva, stava bene, e si stava muovendo nella zona. Se l’avessero chiamata, li avrebbe ignorati, decise Marlene. Oh, sì! Dovevano lasciarla in pace. I suoi occhi si stavano abituando al rosa di Nemesis e del terreno tutt’intorno. Non era solo rosa. C’erano cento sfumature… porpora, arancione, quasi giallo in certi punti. Col tempo, con il progressivo adattamento, quel mondo sarebbe diventato una nuova tavolozza di colori per Marlene, variegata come Rotor, ma più riposante. Cosa sarebbe successo se un giorno gli uomini si fossero insediati su Eritro, introducendo la vita, costruendo città? Lo avrebbero rovinato? O avrebbero tenuto presente l’esempio della Terra e si sarebbero comportati in modo diverso, prendendo quel mondo intatto e trasformandolo in qualcosa che si avvicinasse al loro ideale, ai loro desideri? Ai desideri di chi? Ecco il problema. Non tutti avrebbero avuto le stesse idee, e avrebbero litigato, perseguendo fini inconciliabili. Sarebbe stato meglio che Eritro rimanesse deserto? Ma sarebbe stato giusto, dal momento che gli uomini avrebbero potuto goderselo tanto? Marlene non voleva lasciarlo, questo era certo. Su Eritro provava un senso di calore. Non sapeva perché, ma si sentiva più a suo agio lì che su Rotor. Era qualche vago ricordo atavico della Terra? I suoi geni sentivano il richiamo di un mondo enorme e sterminato, un desiderio intenso che una minuscola città artificiale che ruotava nello spazio non poteva soddisfare? Com’era possibile? La Terra era diversissima da Eritro a parte le dimensioni. E se la Terra era nei suoi geni, perché non era nei geni di ogni essere umano? Ma una spiegazione doveva esserci. Marlene scosse la testa quasi volesse liberarsi la mente, e prese a volteggiare come se si trovasse in mezzo a uno spazio infinito. Strano che Eritro non sembrasse spoglio, sterile. Su Rotor, si vedevano acri di cereali e frutteti, una caligine verde e ambra, e l’irregolarità rettilinea delle strutture umane. Lì su Eritro, invece, si vedeva soltanto il terreno ondulato, disseminato di rocce di ogni dimensione che sembravano sparse alla rinfusa da qualche mano gigantesca… strane forme cupe e silenziose, e in mezzo e attorno scorrevano rigagnoli e ruscelletti. E non c’era vita, se si escludevano le miriadi di minuscole cellule simili a germi che rifornivano l’atmosfera di ossigeno grazie all’energia della luce rossa di Nemesis. E Nemesis, come qualsiasi nana rossa, avrebbe continuato a emettere la propria energia con parsimonia per un paio di centinaia di miliardi di anni, facendo in modo che Eritro e i suoi piccoli procarioti rimanessero al caldo e tranquilli durante tutto quel periodo. Il Sole della Terra e altre stelle luminose ancor più giovani sarebbero morte, ma Nemesis avrebbe continuato a brillare immutata, Eritro avrebbe ruotato intorno a Megas immutato, e anche l’esistenza dei procarioti sarebbe andata avanti fondamentalmente immutata. Gli esseri umani non avevano il diritto di scendere su quel mondo immutato e di cambiarlo. Però se fosse stata sola su Eritro, Marlene avrebbe avuto bisogno di cibo… e di compagnia. Poteva tornare alla Cupola di tanto in tanto, per le provviste, o per soddisfare il suo bisogno di contatti umani, continuando però a trascorrere la maggior parte del tempo sola con Eritro. Ma gli altri non l’avrebbero seguita? Come poteva impedirglielo? E anche se fossero stati in pochi, non avrebbero rovinato l’eden? Non lo stava già rovinando lei… anche lei da sola? «No!» gridò Marlene. Gridò perché era smaniosa di vedere se sarebbe riuscita a far vibrare l’atmosfera aliena e a costringerla a trasmetterle delle parole. Sentì la propria voce, ma il terreno piatto soffocò qualsiasi eco. Il grido si spense non appena fu uscito dalle sue labbra. Marlene ruotò ancora su se stessa. La Cupola era un’ombra indistinta all’orizzonte. Si poteva quasi ignorarla… quasi. Marlene non voleva vederla affatto. Voleva vedere solo se stessa ed Eritro. Udì il lieve sospiro del vento, e capì che stava soffiando più forte. Non abbastanza forte da sentirsi. E la temperatura non era scesa, né era sgradevole. Solo un lieve "Ahhhhh…" Marlene lo imitò allegra. «Ahhhhhh…» Alzò lo sguardo al cielo, incuriosita. Le previsioni del tempo avevano detto che la giornata sarebbe stata serena. Era possibile che su Eritro scoppiassero all’improvviso dei temporali? Il vento sarebbe aumentato sempre più, fino a diventare sferzante? Le nubi sarebbero sfrecciate nel cielo, e sarebbe scesa la pioggia prima che lei potesse tornare alla Cupola? Che sciocchezza! Un pensiero sciocco come quello dei meteoriti. Certo che pioveva su Eritro, ma adesso c’erano soltanto alcune nuvolette rosa sopra di lei. Si muovevano pigre sullo sfondo scuro e sgombro del cielo. Sembrava che non ci fosse nessun temporale in vista. «Ahhhhh» mormorò il vento. «Ahhhhh eeeee…» Un doppio suono. Marlene corrugò la fronte. Cosa poteva produrre quel suono? Il vento da solo, no di certo. Avrebbe dovuto incontrare un ostacolo e superarlo per modulare il proprio sibilo. E lì attorno non c’erano ostacoli. «Ahhhhh eeeee ehhhh…» Un triplo suono, adesso. Con l’accento sul secondo suono. Marlene si guardò intorno, perplessa. Non capiva da dove provenisse. Se si sentiva quel suono, doveva esserci qualcosa che vibrava, eppure lei non vedeva nulla, non percepiva nulla. Eritro sembrava deserto e silenzioso. Non poteva produrre alcun suono. «Ahhhhh eeeee ehhhh…» Di nuovo. Più chiaro. Aveva l’impressione che fosse nella sua testa, e a quel pensiero ebbe un tuffo al cuore, rabbrividì. Le venne la pelle d’oca, sulle braccia… se ne accorse senza bisogno di guardare. No, la sua testa non poteva avere nulla che non andasse. Nulla! Rimase in attesa, ed eccolo di nuovo. Più forte. Ancor più chiaro. Il tono più deciso, tutt’a un tratto… come se stesse imparando e migliorando. Imparando? Imparando, cosa? E a malincuore, molto a malincuore, Marlene pensò: "È come se qualcuno incapace di pronunciare le consonanti stesse cercando di pronunciare il mio nome…" Quasi fosse un segnale, o quasi quel pensiero avesse liberato una nuova scarica di energia, o acuito la sua immaginazione, Marlene sentì… «Mahhh leee nehhh.» D’istinto, senza rendersene conto, portò le mani alle orecchie e le coprì. "Marlene" pensò. E un attimo dopo il suono si sforzò di imitarla. «Mahrleeneh.» Poi, di nuovo, più sciolto, quasi con naturalezza. «Marlene.» Marlene rabbrividì, e riconobbe la voce. Era Aurinel, Aurinel di Rotor, che non aveva più visto dal giorno in cui, su Rotor, gli aveva detto che la Terra sarebbe stata distrutta. Non aveva quasi più pensato a lui in seguito… ma le rare volte che aveva pensato ad Aurinel, aveva sofferto, sempre. Perché sentiva la sua voce se lui non era lì… o qualunque voce, se lì non c’era nulla? «Marlene.» Marlene si arrese. Era il Morbo… nonostante fosse stata così sicura che non l’avrebbe colpita. Cominciò a correre alla cieca, verso la Cupola, senza fermarsi a cercarla con lo sguardo. Stava urlando, e non lo sapeva. LXVII Erano intervenuti. Avevano sentito che all’improvviso si stava avvicinando di corsa. Due guardie in tutaE erano uscite subito e l’avevano sentita urlare. Ma le urla erano cessate prima che la raggiungessero. Marlene aveva anche rallentato e si era fermata… prima di accorgersi della loro presenza, apparentemente. Quando le guardie erano arrivate accanto a lei, le aveva guardate tranquilla e le aveva lasciate di stucco chiedendo: «Be’? Che c’è che non va?». Nessuno aveva risposto. Una mano si era accostata al suo gomito e Marlene l’aveva respinta. «Non toccatemi» aveva detto. «Verrò alla Cupola, se è questo che volete, ma posso camminare da sola.» E si era avviata in silenzio con loro. Era molto padrona di sé. LXVIII Eugenia Insigna, le labbra secche e pallide, stava cercando di non mostrarsi sconvolta. «Cos’è successo là fuori, Marlene?» Gli occhi scuri imperscrutabili, Marlene rispose: «Nulla. Proprio nulla». «Non dire così. Stavi correndo e gridavi.» «L’avrò anche fatto per un po’… ma solo per un po’. Vedi, c’era silenzio, un silenzio tale che a un certo punto ho avuto l’impressione di essere diventata sorda. Sai, un silenzio assoluto. Così ho pestato i piedi e ho corso solo per sentire il rumore, e ho gridato…» «Solo per sentire il rumore?» Eugenia aggrottò le ciglia. «Sì, mamma.» «E ti aspetti che ci creda, Marlene? No, non ci credo. Abbiamo sentito le tue grida, e non erano le grida di chi vuole fare rumore e basta. Erano grida di terrore. Qualcosa ti aveva spaventata.» «Te l’ho detto. Il silenzio. La paura della sordità.» Eugenia si rivolse alla D’Aubisson. «Dottoressa, se non si sente nulla, proprio nulla, e si è abituati a sentire sempre qualcosa, non è possibile che le orecchie immaginino di udire qualcosa tanto per sentirsi utili?» La D’Aubisson accennò un sorriso. «Si è espressa in modo colorito, ma è vero. La privazione sensoriale può provocare delle allucinazioni.» «Ecco cosa mi ha disturbato, credo… Ma dopo avere sentito la mia voce e i miei passi mi sono calmata. Chiedetelo alle due guardie che sono venute a prendermi. Ero calmissima quando sono arrivate, e le ho seguite fino alla Cupola senza nessun problema… Chiediglielo, zio Siever.» Genarr annuì. «Me l’hanno detto. E poi, anche noi abbiamo visto. Molto bene, allora. Tutto risolto.» «Assolutamente!» sbottò Eugenia, ancora pallida… di paura, o di rabbia, o per entrambe le cose. «Marlene non uscirà più. L’esperimento è finito.» «No, mamma» ribatté Marlene, offesa. La D’Aubisson alzò la voce, quasi a prevenire un diverbio rabbioso tra madre e figlia. «L’esperimento non è finito, dottoressa Insigna. Non è il momento di decidere se uscirà ancora o meno. Dobbiamo ancora occuparci delle conseguenze di quel che è accaduto.» «Cosa vorrebbe dire?» chiese Eugenia. «Voglio dire, d’accordo parlare di voci immaginarie che si sentono perché l’orecchio non è abituato al silenzio… ma queste voci immaginarie possono essere collegate anche all’insorgenza di una certa instabilità mentale.» Eugenia rimase esterrefatta. «Ti riferisci al Morbo di Eritro?» disse Marlene. «Non in particolare, Marlene» rispose Ranay D’Aubisson. «Non abbiamo alcuna prova. È solo una possibilità. Quindi ci occorre un’altra analisi cerebrale. Per il tuo bene.» «No.» «Non dire no» insisté la D’Aubisson. «È indispensabile. Non abbiamo scelta. Bisogna farlo.» Marlene la guardò, meditabonda. «Tu speri che abbia il Morbo. Vuoi che abbia il Morbo.» La dottoressa s’irrigidì, le si incrinò la voce. «Che assurdità. Come osi dire una cosa simile?» Ma adesso era Genarr che stava fissando la D’Aubisson. «Ranay, abbiamo già discusso di questo piccolo particolare riguardo Marlene… e se lei dice che tu vuoi che abbia il Morbo, be’, devi esserti tradita in qualche modo. Sempre che Marlene parli seriamente e non lo stia dicendo solo per paura o per rabbia.» «Parlo seriamente» confermò Marlene. «Era tutta speranzosa e eccitata poco fa.» «Be’, Ranay?» chiese Genarr, un po’ gelido. «È vero?» «Capisco a cosa si riferisce la ragazza» rispose la D’Aubisson, aggrottando le ciglia. «Sono anni che non studio un caso di Morbo in fase avanzata. E in passato, quando la Cupola era stata appena costruita ed era ancora una struttura primitiva, in pratica mi mancavano gli strumenti adeguati per studiarlo. Professionalmente, mi piacerebbe moltissimo poter studiare in modo approfondito un caso di Morbo con le tecniche e le strumentazioni moderne, per scoprire, forse, la vera causa, la vera cura, il vero metodo preventivo. Sì, è una prospettiva eccitante. È eccitazione professionale quello che questa signorina, incapace di leggere il pensiero e senza esperienza in certe cose, interpreta come semplice gioia. Non è semplice.» «Non sarà semplice… però è qualcosa di malvagio» replicò Marlene. «Su questo non mi sbaglio.» «Ti sbagli… Dobbiamo fare l’analisi cerebrale, e la faremo.» «No» disse Marlene, urlando quasi. «Dovrete costringermi o darmi dei sedativi, e allora non sarà valida.» Eugenia intervenne, con voce tremula. «Non voglio che si faccia nulla se lei non è d’accordo.» «Il fatto che sia d’accordo o meno non ha proprio nessuna…» iniziò la D’Aubisson, poi barcollò all’indietro portandosi una mano all’addome. «Che succede?» chiese automaticamente Genarr. Poi, senza attendere una risposta, mentre Eugenia accompagnava la dottoressa a un divano e la convinceva a sdraiarsi, Genarr si rivolse alla ragazza. «Marlene, accetta il test.» «No. Lei dirà che ho il Morbo.» «Non lo dirà. Te lo garantisco. Non lo dirà, a meno che tu non abbia davvero il Morbo.» «Non ce l’ho.» «Ne sono sicuro, e l’analisi cerebrale lo dimostrerà. Fidati di me, Marlene. Ti prego.» Marlene lanciò un’occhiata alla D’Aubisson, quindi tornò a guardare Genarr. «E potrò uscire ancora su Eritro?» «Certo. Tutte le volte che vorrai. Se sei normale… e tu sei sicura di essere normale, vero?» «Sicurissima.» «Allora l’analisi cerebrale lo dimostrerà.» «Sì, ma lei dirà che non posso uscire.» «Tua madre?» «E la dottoressa.» «No. Non oseranno fermarti. Su, adesso di’ che farai l’analisi cerebrale, eh?» «D’accordo. Farò come vuole lei.» Ranay D’Aubisson si alzò in piedi a fatica. LXIX La dottoressa studiò attentamente l’analisi computerizzata mentre Genarr osservava. «Un’analisi strana» mormorò la D’Aubisson. «Lo sapevamo fin dall’inizio» disse Genarr. «È una ragazza strana. Il punto è… non c’è nessun cambiamento?» «Nessuno.» «Sembri delusa.» «Non ricominciamo, Comandante. C’è una certa delusione professionale. Mi piacerebbe studiare la malattia.» «Come ti senti?» «Gliel’ho appena detto…» «Intendo dire, fisicamente. Hai avuto uno strano malore, ieri.» «Non è stato un malore. Era tensione nervosa. Non capita spesso che mi accusino di volere che qualcuno sia gravemente ammalato… e che gli altri a quanto pare ci credano.» «Cos’è successo? Una indigestione?» «Può darsi. Dolori addominali, in ogni caso. E vertigini.» «Ti succede spesso, Ranay?» «No» rispose brusca la dottoressa. «Ed è altrettanto raro che mi accusino di scorrettezza professionale.» «Era solo una ragazza eccitabile. Perché prendersela tanto?» «Le spiace se cambiamo argomento? Dall’analisi cerebrale non risulta alcun cambiamento. Se prima la ragazza era normale, è normale anche adesso.» «In tal caso, qual è il tuo parere professionale? Può continuare a esplorare Eritro?» «Dal momento che apparentemente non ha contratto nulla, non ho motivo di proibirglielo.» «Sei disposta a non limitarti a questo e a mandarla all’esterno?» La D’Aubisson assunse un atteggiamento ostile. «Sa che sono stata dal Commissario Pitt…» Non sembrava una domanda. «Sì, lo so» disse Genarr. «Mi ha chiesto di dirigere un nuovo progetto per lo studio del Morbo di Eritro, e ci sarà uno stanziamento considerevole per finanziarlo.» «Penso che sia una buona idea, e che abbia fatto bene a scegliere te come capo del progetto.» «Grazie. Comunque, non mi ha nominata Comandante della Cupola al suo posto. Quindi, sta a lei, Comandante, decidere se Marlene Fisher può avere il permesso di uscire sulla superficie di Eritro. Io mi limiterò a sottoporla a un’analisi cerebrale se ci saranno segni di anormalità.» «Ho intenzione di darle il permesso di esplorare liberamente Eritro a suo piacimento. Posso contare sul tuo appoggio?» «Dal momento che ho espresso la mia opinione professionale e le ho detto che la ragazza non ha il Morbo, io non farò nulla per ostacolarla, Comandante, però dovrà essere lei, lei solo, a dare l’ordine. E se sarà necessario mettere qualcosa per iscritto, dovrà essere lei a firmare.» «Ma tu non cercherai ti fermarmi.» «Non ho motivo di farlo.» LXX Il pranzo era terminato, e in sottofondo si sentiva una musica sommessa. Siever Genarr, che durante il pasto aveva parlato di altre cose, vista l’inquietudine di Eugenia, infine disse: «Le parole sono le parole di Ranay D’Aubisson, ma dietro c’è la forza di Janus Pitt, si sente che è stato lui a dettarle». L’espressione di Eugenia si fece ancor più ansiosa. «Lo pensi davvero?» «Sì… e dovresti pensarlo anche tu. Conosci Janus meglio di me. Peccato. Ranay è una scienziata in gamba, ha una mente profonda, è una brava persona, però è ambiziosa… come tutti, del resto… quindi è corruttibile. Vuole davvero passare alla storia come la debellatrice del Morbo di Eritro.» «E per riuscirci, sarebbe disposta a mettere a repentaglio Marlene?» «Non nel senso che voglia farlo, o che sia smaniosa di farlo… disposta nel senso… be’, sì, se non c’è altro sistema.» «Ma qualche altro sistema dev’esserci. Mandare Marlene incontro al pericolo, come una qualsiasi cavia… è mostruoso.» «Non dal suo punto di vista… sicuramente, non da quello di Pitt. Vale senz’altro la pena di perdere una mente, se serve a liberare un mondo e a renderlo abitabile per milioni di persone. È crudele considerare il problema in questi termini, ma le generazioni future potrebbero fare di Ranay un’eroina proprio per la sua crudeltà, ed essere d’accordo con lei che valeva la pena di perdere una mente, o anche mille… se necessario.» «Già, la mente di qualcun altro, però.» «Naturale. Nel corso della storia, gli esseri umani sono sempre stati pronti a sacrificare gli altri. Pitt non esiterebbe di certo. Non sei d’accordo?» «Riguardo Pitt? Sì, eccome» rispose Eugenia, energica. «E pensare che ho lavorato con lui in tutti questi anni.» «Quindi puoi immaginare il suo atteggiamento moralistico in un caso del genere. "Il massimo bene per il massimo numero", direbbe. Ranay ammette di avere parlato con lui durante la sua recente visita su Rotor, e sono sicurissimo che Pitt le avrà detto proprio questo… magari usando altre parole ma lasciando inalterata la sostanza.» «E cosa direbbe Pitt se il Morbo distruggesse Marlene e rimanesse un mistero insoluto?» fece amara Eugenia. «Cosa direbbe se la vita di mia figlia venisse rovinata inutilmente? E cosa direbbe la D’Aubisson?» «La dottoressa sarebbe infelice, ne sono certo.» «Perché non scoprirebbe nessuna cura e non diventerebbe famosa?» «Naturalmente, però sarebbe infelice anche per la sorte di Marlene… e si sentirebbe in colpa, suppongo. Non è un mostro. In quanto a Pitt…» «Lui è un mostro.» «Be’, non proprio… ma è di vedute limitate. Vede solo i suoi piani per il futuro di Rotor. Se qualcosa dovesse andare storto, dal nostro punto di vista, indubbiamente Pitt si dirà che in ogni caso Marlene avrebbe intralciato i suoi piani… quindi, poco male per Rotor. E avrà la coscienza tranquilla.» Eugenia scosse leggermente la testa. «Vorrei che ci sbagliassimo, che Pitt e la D’Aubisson non fossero colpevoli di certe cose.» «Anch’io lo vorrei, ma mi fido di Marlene e della sua capacità di leggere il linguaggio del corpo. Se Marlene sostiene che Ranay era felice all’idea di poter studiare un caso di Morbo, io mi fido del suo giudizio.» «La D’Aubisson ha detto che era felice per ragioni professionali» replicò Eugenia. «Se devo essere sincera, posso anche capirla. In fin dei conti, anch’io sono una scienziata.» «Certo.» Il volto non propriamente bello di Genarr s’increspò in un sorriso. «Tu hai lasciato il Sistema Solare e hai affrontato un viaggio senza precedenti, di anni luce, per acquisire nuove conoscenze astronomiche, pur sapendo che quel viaggio avrebbe potuto essere fatale a tutti i rotoriani.» «Molto improbabile, a mio avviso.» «Abbastanza improbabile da spingerti a rischiare la vita di tua figlia, una bambina di un anno. Avresti potuto lasciarla a tuo marito, così sarebbe stata al sicuro, anche se in questo modo non l’avresti più rivista. Invece, l’hai esposta al pericolo, e non per il bene di Rotor… l’hai fatto per te stessa.» «Smettila, Siever. Stai dicendo delle cose crudeli.» «Sto solo cercando di dimostrarti che, con un po’ di ingegnosità, è possibile considerare da due punti di vista completamente opposti quasi qualsiasi cosa. Sì, Ranay parla di piacere professionale, però Marlene ha detto che l’atteggiamento della dottoressa era malvagio e, come ti ripeto, mi fido del giudizio di tua figlia.» «Allora, suppongo che sia ansiosa di fare uscire di nuovo Marlene» disse Eugenia, mentre gli angoli della sua bocca si piegavano all’ingiù. «Credo di sì, però è abbastanza cauta da insistere che sia io a dare l’ordine, e ha suggerito addirittura di metterlo per iscritto. Se dovesse andare storto qualcosa, vuole assicurarsi che la responsabilità ricada su di me. Comincia a ragionare come Pitt. Il nostro caro Janus è contagioso.» «In tal caso, Siever, non devi mandar fuori Marlene. Perché fare il gioco di Pitt?» «Al contrario, Eugenia. Non è affatto semplice. Noi dobbiamo mandarla fuori.» «Cosa?» «Non c’è alternativa. E non c’è nessun pericolo per Marlene. Vedi, mi sono convinto adesso… avevi ragione quando hai parlato dell’esistenza di una forma di vita planetaria in grado di influenzarci. Hai fatto notare che io ho sperimentato l’effetto deleterio di quella influenza, come te, come la guardia… e è sempre successo quando qualcuno ha cercato di contrastare Marlene. È successo anche a Ranay, ho visto benissimo. Quando ha provato a costringerla a sottoporsi all’analisi cerebrale, Ranay si è piegata in due, stava malissimo. Quando ho persuaso Marlene ad accettare l’analisi cerebrale, Ranay si è sentita subito meglio.» «Be’, appunto, Siever… Se sul pianeta c’è una forma di vita maligna…» «No, aspetta, Eugenia. Io non ho detto che questa forma di vita è maligna. Anche se ha provocato il Morbo, come pensi tu, il Morbo poi è cessato. Perché ci siamo accontentati di rimanere nella Cupola, secondo la tua teoria… ma se questa forma di vita fosse davvero maligna, ci avrebbe sterminati e non avrebbe accettato questa specie di compromesso civile.» «Non credo sia saggio basarsi sulle azioni di una forma di vita completamente aliena per dedurre i suoi sentimenti o le sue intenzioni. Quello che pensa potrebbe esulare completamente dalla nostra comprensione.» «Sono d’accordo. Però questa forma di vita aliena non sta danneggiando Marlene. Tutto quel che ha fatto è servito a proteggere Marlene, a difenderla da qualsiasi interferenza.» «Allora, perché Marlene era spaventata, perché si è messa a correre verso la Cupola urlando? Non credo assolutamente alla storia che ha raccontato… Marlene non stava solo cercando di fare rumore perché il silenzio la innervosiva.» «In effetti, è poco credibile. Ma il panico è scomparso in fretta. Quando i soccorritori l’hanno raggiunta, Marlene sembrava perfettamente normale. La forma di vita l’avrà spaventata in qualche modo, immagino… se è improbabile che noi riusciamo a capirla è altrettanto improbabile che la forma di vita riesca a capire noi, suppongo… però, quando si è accorta della reazione di Marlene, è intervenuta subito e l’ha calmata. Questo spiegherebbe l’accaduto e dimostrerebbe, ancora una volta, la natura benevola di questa forma di vita.» Eugenia stava aggrottando le ciglia. «Il guaio è, Siever, che tu hai il vizio terribile di pensare bene di tutti… e di tutto. Non posso fidarmi della tua interpretazione.» «Fiducia o no, ti accorgerai che non possiamo ostacolare Marlene in nessun modo. Farà quel che vuole, e chi proverà a ostacolarla si ritroverà a boccheggiare per il dolore o privo di sensi.» «Ma… cos’è questa forma di vita?» chiese Eugenia. «Non lo so.» «E cosa vuole da Marlene? Ecco la cosa che mi spaventa di più…» Genarr scosse la testa. «Non lo so, Eugenia.» E rimasero a fissarsi, impotenti. 32 Persi LXXI Crile Fisher osservò la stella pensieroso. All’inizio, era troppo luminosa per un’osservazione vera e propria. Crile si era limitato a lanciare qualche occhiata di tanto in tanto, conservando poi un’immagine residua molto accentuata. Tessa Wendel, disperata per gli ultimi sviluppi, lo aveva rimproverato, parlando di danni alla retina, e Crile aveva opacizzato l’oblò. La luminosità della stella era scesa a livelli sopportabili, e le altre stelle erano diventate più fioche… un baluginio mesto e appannato. La stella luminosa era il Sole, naturalmente. Nessun essere umano l’aveva mai visto così da lontano (a parte i rotoriani durante il loro esodo dal Sistema Solare). Era a una distanza doppia rispetto alla massima distanza di Plutone, quindi non appariva come un globo, sembrava una stella come tante. Tuttavia, era ancora cento volte più luminoso della Luna piena vista dalla Terra, e quella luminosità era concentrata in un unico punto brillante. Logico che non si riuscisse a fissarlo senza opacizzare il vetro. Questo particolare ribaltava la prospettiva. Normalmente, il Sole non era nulla di stupefacente. Era troppo luminoso per guardarlo, dominava troppo incontrastato. La parte di luce solare diffusa dall’atmosfera era sufficiente a cancellare del tutto le altre stelle… e anche dove non scomparivano (sulla Luna, per esempio), le stelle erano talmente sovrastate dal Sole che qualsiasi confronto era improponibile. Lì nello spazio, a quella distanza, l’intensità luminosa del Sole si era attenuata almeno parzialmente, e un confronto era possibile. Stando alle parole di Tessa Wendel, da quel punto il Sole era centosessantamila volte più luminoso di Sirio, il corpo celeste che occupava il secondo posto della graduatoria, e forse venti milioni di volte più luminoso delle stelle più fioche che si vedevano a occhio nudo. Per cui, lì, il Sole acquistava un fascino diverso, maggiore, rispetto a quando splendeva senza rivali nel cielo della Terra. Del resto, a Fisher non rimaneva in pratica che osservare il cielo, non aveva nient’altro da fare, perché l’Ultraluce stava andando alla deriva… stava andando alla deriva da due giorni, spostandosi nello spazio come un razzo qualsiasi. A quella velocità, avrebbero impiegato trentacinquemila anni per raggiungere la Stella Vicina… se fossero andati nella direzione giusta. Cosa che non stavano facendo. Ecco perché due giorni prima Tessa Wendel era sbiancata ed era piombata nella disperazione. Fino ad allora, non c’erano stati problemi. Al momento di entrare nell’iperspazio, Fisher era teso, temendo il dolore, il lampo lacerante di sofferenza atroce, l’ondata improvvisa di buio eterno. Non era successo nulla. Era accaduto tutto troppo in fretta per notare qualcosa. Erano entrati nell’iperspazio ed erano tornati nello spazio normale nel medesimo istante. Le stelle avevano semplicemente cambiato posizione, e il passaggio dalla posizione precedente a quella attuale non si era percepito. Era stato un sollievo… doppio. Non solo Fisher era ancora vivo, si era anche reso conto che se fosse andato storto qualcosa e lui fosse morto, la morte sarebbe stata così istantanea che lui non si sarebbe nemmeno accorto di morire. Sarebbe morto e basta. Era talmente sollevato da non badare quasi alla reazione di Tessa, che aveva lanciato un’esclamazione strozzata e si era precipitata in sala macchine gridando. Era tornata sottosopra… non che avesse un capello fuori posto… era sottosopra dentro. Gli occhi spiritati, aveva fissato Fisher come se non lo riconoscesse. «La posizione delle stelle non sarebbe dovuta cambiare» aveva detto. «No?» «Non ci siamo allontanati abbastanza. Solo uno virgola trentatré millianni luce. Troppo poco per notare dei cambiamenti a occhio nudo. Comunque…» Tessa aveva respirato profondamente. «Comunque, poteva andare peggio. Pensavo che avessimo commesso un errore e ci fossimo spostati di migliaia di anni luce.» «Sarebbe stato possibile, Tessa?» «Certo. Se il passaggio attraverso l’iperspazio non viene controllato rigorosamente, si fa presto a percorrere mille anni luce invece di uno.» «Be’, in tal caso, possiamo benissimo…» Tessa aveva intuito la sua conclusione. «No, non potremmo semplicemente tornare indietro. Con dei controlli così imprecisi, ad ogni passaggio ci muoveremmo alla cieca, finendo chissà dove, e non troveremmo mai la via del ritorno.» Fisher aveva corrugato la fronte. L’euforia di avere attraversato indenne l’iperspazio stava cominciando a svanire. «Ma gli oggetti spostati durante gli esperimenti, quelli li avete riportati indietro senza problemi.» «Erano molto più piccoli, e le distanze erano molto minori. Ma, come ti ho detto, poteva andare peggio. Abbiamo scoperto che la distanza percorsa è quella giusta. La posizione delle stelle è giusta.» «Ma è cambiata. Ho visto benissimo.» «Perché siamo orientati in modo diverso. L’asse longitudinale della nave si è spostato di oltre ventotto gradi. In poche parole, per qualche motivo, abbiamo seguito una traiettoria curva e non rettilinea.» Le stelle, al di là dell’oblò, si stavano muovendo, lentamente. «Ci stiamo girando di nuovo verso la Stella Vicina, una manovra che ha soltanto un’utilità psicologica» aveva spiegato Tessa. «Ma adesso si tratta di scoprire come mai c’è stata questa deviazione durante il passaggio.» La stella luminosa, la stella faro, era apparsa nell’oblò. Fisher aveva battuto le palpebre. «Il Sole» aveva detto Tessa, rispondendo all’espressione di stupore di Fisher. «C’è qualche spiegazione plausibile della traiettoria curva seguita dalla nave? Se è successo anche a Rotor, chissà dove sono finiti?» «O dove finiremo noi. Perché io non ho nessuna spiegazione. Non ora.» Tessa lo aveva guardato, visibilmente preoccupata. «Se le nostre ipotesi fossero esatte, avremmo dovuto cambiare posizione ma non direzione, muovendoci in linea retta, una linea retta euclidea, nonostante la curva relativistica dello spaziotempo, perché vedi, non eravamo nello spaziotempo. Forse c’è un errore nella programmazione del computer… o nei nostri presupposti. Io spero che sia un errore di programmazione. Si può correggere più facilmente.» Erano trascorse cinque ore. Tessa era tornata, strofinandosi gli occhi. Fisher aveva alzato lo sguardo, inquieto. Aveva guardato un film, ma l’interesse era passato presto. Allora aveva osservato le stelle, lasciandosi ipnotizzare dal loro disegno… un effetto anestetico. «Be’, Tessa?» «Non c’è nessun errore di programmazione, Crile.» «Allora devono essere sbagliati i presupposti.» «Già. Ma come? Potremmo fare un’infinità di ipotesi. Quali sono quelle giuste? Non possiamo provarle tutte. Non finiremmo mai, ci perderemmo irrimediabilmente.» Per un po’ erano rimasti in silenzio, quindi Tessa Wendel aveva detto: «Se fosse stata la programmazione, sarebbe stato un errore stupido. L’avremmo corretto, senza imparare nulla, però saremmo stati salvi. Ma adesso, se dobbiamo tornare ai fondamenti, è possibile che scopriamo qualcosa di veramente importante… ma se falliamo, forse non riusciremo più a tornare a casa». Tessa gli aveva preso la mano. «Capisci, Crile? C’è qualcosa che non va, e se non scopriamo di che si tratta, sarà impossibile trovare la via del ritorno, se non per puro caso. Per quanto possiamo tentare, probabilmente continueremo a finire nel punto sbagliato, allontanandoci sempre più. E alla fine moriremo, quando i sistemi di riciclaggio smetteranno di funzionare, o quando esauriremo l’energia, o quando la profonda di sperazione minerà la nostra capacità di sopravvivenza. E sono stata io a farti questo. Ma la vera tragedia sarebbe la fine di un sogno. Se non torniamo, non sapranno mai com’è andata. Può darsi che pensino che la transizione sia stata fatale, e magari non proveranno più.» «Ma devono insistere, se vogliono abbandonare la Terra.» «Forse rinunceranno, aspetteranno passivi che la stella si avvicini e prosegua nello spazio, morendo a poco a poco.» Tessa lo aveva guardato, battendo le palpebre, il volto stanchissimo. «E sarebbe anche la fine del tuo sogno, Crile.» Fisher aveva stretto le labbra, rimanendo zitto. Quasi timidamente, Tessa aveva detto: «Ma in questi anni, Crile, hai avuto me. Se sei destinato a rinunciare al tuo sogno… a tua figlia… io ti sono bastata?» «Potrei chiederti… se sei destinata a rinunciare al tuo sogno, al volo ultraluce, ti sono bastato, io?» Non era facile rispondere, per nessuno dei due, poi però Tessa aveva detto: «Dopo il volo ultraluce, Crile, tu sei la cosa più importante che abbia avuto, e non posso proprio lamentarmi. Grazie». «Questo vale anche per me, Tessa… e non l’avrei mai immaginato, all’inizio. Se non avessi avuto una figlia, ci saresti stata solo tu. Vorrei quasi…» «No. Mi accontento di occupare il secondo posto, in ordine di importanza.» Si erano tenuti per mano. In silenzio. E avevano osservato le stelle. Poi Merry Blankowitz si era affacciata alla porta. «Capitano Wendel, Wu ha un’idea. L’ha sempre avuta, dice… però era restio a parlargliene.» Tessa si era alzata. «Perché era restio?» «Una volta le ha accennato la cosa, sostiene… e lei gli ha detto di non essere sciocco.» «Davvero? È convinto che io sia infallibile? Adesso lo ascolterò, e se sarà una buona idea gli torcerò il collo per non avere insistito prima.» Dopo di che, Tessa era uscita. LXXII Nel giorno e mezzo successivo, a Fisher non era rimasto che aspettare. Avevano mangiato assieme, come sempre, ma in silenzio. Chissà se gli altri avevano dormito? Fisher non lo sapeva. Lui aveva dormito solo a intervalli irregolari e al suo risveglio era piombato di nuovo nella disperazione. "Quanto possiamo andare avanti così?" si chiese il secondo giorno, ammirando la bellezza di quel puntino irraggiungibile che brillava nel cielo, e che fino a poco tempo prima lo aveva scaldato e aveva illuminato il suo cammino sulla Terra. Prima o poi, sarebbero morti. La moderna tecnologia spaziale avrebbe prolungato la vita. I sistemi di riciclaggio erano piuttosto efficienti. Anche il cibo sarebbe durato a lungo, purché fossero disposti a mangiare l’insipido pane di alghe che sarebbe rimasto alla fine. I motori a microfusione avrebbero continuato a erogare energia per un pezzo. Ma, sicuramente, nessuno avrebbe voluto prolungare la propria esistenza per tutto il tempo consentito dalla nave. Di fronte alla prospettiva certa di una lenta agonia e di una morte solitaria, la soluzione razionale sarebbe stata quella di ricorrere ai demetabolizzatori regolabili. Sulla Terra era il metodo preferito per suicidarsi… perché non avrebbe dovuto esserlo anche a bordo della nave? Volendo, si poteva regolare il dosaggio per una giornata intera di vita normale, e viverla il più gioiosamente possibile… sapendo che sarebbe stata l’ultima. Al termine del giorno, sarebbe subentrata una sonnolenza naturale. Sbadigliando, il «demetabolizzato» sarebbe scivolato in un sonno tranquillo costellato di sogni riposanti; lentamente, il sonno sarebbe diventato più profondo, i sogni sarebbero svaniti, e non ci sarebbe più stato alcun risveglio. Non era mai stata inventata una morte più dolce. Poi, poco prima delle 17, ora della nave, a due giorni di distanza dalla transizione che aveva spostato la nave lungo una traiettoria curva invece che rettilinea, Tessa si precipitò nella sala. Aveva gli occhi spiritati, ansimava, e i suoi capelli scuri, ormai cosparsi di grigio, erano scarmigliati. «Brutte notizie?» chiese Fisher costernato, alzandosi. «No, buone!» Tessa si abbandonò su un sedile. Fisher non era sicuro di avere capito bene… forse le parole di Tessa erano solo ironiche. La fissò, e vide che si calmava, che tornava padrona di sé. «Buone» ripeté lei. «Ottime. Eccezionali! Crile, hai di fronte a te un’idiota. Immagino che non mi riprenderò più da questo colpo.» «Be’, che è successo?» «ChaoLi Wu aveva la risposta. Fin dall’inizio. Me l’aveva detto. Ricordo benissimo. Mesi fa. Un anno fa, probabilmente. Non gli ho dato retta. Non l’ho nemmeno ascoltato, in pratica.» Tessa fece una pausa per riprendere fiato. L’eccitazione aveva sconvolto il ritmo naturale del suo linguaggio. «Il guaio è che mi consideravo la massima autorità mondiale in fatto di volo ultraluce, ed ero convinta di sapere già tutto, di avere già pensato a tutto. Se qualcuno suggeriva qualcosa che a me sembrava strana, be’, l’idea era sbagliata e basta, e stupida, magari. Capisci?» «Ho conosciuto delle persone del genere» rispose torvo Fisher. «Capita a tutti di comportarsi così, ogni tanto, in determinate circostanze. Soprattutto agli scienziati quando invecchiano, suppongo. Ecco perché i giovani e audaci rivoluzionari della scienza diventano vecchi fossili dopo qualche decennio. La loro immaginazione perde elasticità, l’amor proprio la blocca, ed è la fine. E per me, adesso, è la fine… Ma, lasciamo perdere. Ci è voluto più di un giorno per risolvere il problema, per modificare le equazioni, per programmare il computer e allestire le simulazioni necessarie, per imboccare vicoli ciechi e uscirne. Ci sarebbe voluta una settimana, normalmente, ma abbiamo lavorato a un ritmo pazzesco.» Tessa Wendel si interruppe, quasi avesse bisogno di riprendere fiato un’altra volta. Fisher attese che continuasse e la incoraggiò annuendo, stringendole la mano. «È complicato» proseguì Tessa. «Proverò a spiegartelo. Ecco… Attraverso l’iperspazio, andiamo da un punto dello spazio a un altro punto dello spazio in tempo zero. Ma per farlo seguiamo una traiettoria, un sentiero, che cambia ogni volta, a seconda del punto di partenza e di quello d’arrivo. Noi non vediamo questo sentiero, non possiamo osservarlo, non lo percepiamo, e in realtà non lo seguiamo in senso spaziotemporale. La sua esistenza è abbastanza incomprensibile. Lo chiamiamo "sentiero virtuale". Io stessa ho elaborato questo concetto.» «Se non si può osservare, se non si percepisce, come fai a sapere che esiste?» «Si può calcolare, con le equazioni che usiamo per descrivere il moto attraverso l’iperspazio. Le equazioni ci danno il sentiero.» «E chi ti garantisce che le equazioni descrivano qualcosa di realmente esistente? Potrebbe essere solo… matematica.» «Già. Lo pensavo anch’io. E l’ho ignorato. È stato Wu a suggerire che avrebbe potuto essere un particolare importante… un anno fa, forse… e io, idiota, ho respinto l’idea. Un sentiero virtuale aveva solo un’esistenza virtuale, secondo me. Se non si poteva misurare, esulava dall’ambito della scienza. Sono stata miope. Se ci penso, mi detesto.» «D’accordo. Supponiamo che il sentiero virtuale in qualche modo esista. Allora?» «In tal caso, se il sentiero virtuale passa accanto a un corpo di dimensioni considerevoli, la nave è soggetta alle influenze gravitazionali. Questo è stato il primo concetto nuovo, strabiliante, utilissimo… l’attrazione di gravità può farsi sentire lungo il sentiero virtuale.» Tessa scosse la testa in un gesto rabbioso. «In un certo senso, l’avevo intuito anch’io, ma ho pensato che, dal momento che la nave avrebbe viaggiato a una velocità molto superiore a quella della luce, l’attrazione di gravità non avrebbe avuto il tempo di farsi sentire in modo percepibile. Quindi, ho concluso che lo spostamento sarebbe stato rettilineo.» «Ma non è andata così.» «No, naturalmente. E Wu ha spiegato il fenomeno. Immaginiamo che la velocità della luce sia un punto zero. Tutte le velocità inferiori a quella della luce sarebbero grandezze negative, e tutte quelle superiori alla velocità della luce sarebbero grandezze positive. Nell’universo normale in cui viviamo, perciò, tutte le velocità sarebbero negative, in base a questa convenzione matematica… e infatti devono essere negative… Ora, l’universo è regolato da principi di simmetria. Se una cosa fondamentale come la velocità di moto è sempre negativa, qualche altra cosa, altrettanto fondamentale, dovrebbe essere sempre positiva… e secondo Wu, quest’altra cosa è la gravitazione universale. Nell’universo normale, è sempre un’attrazione. Ogni corpo attrae tutti gli altri corpi. "Tuttavia, se qualcosa si muove a velocità ultraluce, la sua velocità è positiva, e l’altra cosa che era positiva deve diventare negativa. In parole povere, a velocità ultraluce, la gravitazione universale è una forza repulsiva. Ogni corpo respinge tutti gli altri. Wu me l’ha suggerito parecchio tempo fa, e io non ho voluto dargli ascolto. Le sue parole non mi sono entrate nelle orecchie.» «Ma che differenza c’è, Tessa? Se a velocità ultraluce enormi l’attrazione di gravità non ha il tempo di influenzare il nostro moto, nemmeno la repulsione gravitazionale dovrebbe avere effetto.» «Ah, non è così, Crile. È questo il bello. Anche qui la situazione si inverte. Nell’universo normale delle velocità negative, maggiore è la velocità rispetto a un corpo attrattivo, minore è l’attrazione di gravità che influenza la direzione del movimento. Nell’universo delle velocità positive, l’iperspazio, maggiore è la nostra velocità rispetto a un corpo repulsivo, maggiore è la repulsione gravitazionale che influenza la direzione del movimento. Questo per noi non ha senso, dato che siamo abituati alla situazione esistente nell’universo normale, ma una volta costretti a cambiare segno, dal più al meno e viceversa, ci si accorge che tutto quadra.» «Matematicamente. Ma fino a che punto ci si può fidare delle equazioni?» «Be’, basta controllare se i calcoli e i fatti coincidono. L’attrazione di gravità è la forza più debole che ci sia, e questo vale anche per la repulsione gravitazionale lungo i sentieri virtuali. All’interno della nave e dentro di noi, ogni particella respinge tutte le altre nell’iperspazio, ma questa repulsione non può fare nulla contro le altre forze coesive che non hanno cambiato segno. Comunque, il nostro sentiero virtuale, dalla Stazione Quattro a questo punto, ci ha portati in prossimità di Giove. La sua repulsione lungo il sentiero virtuale iperspaziale aveva la stessa intensità che avrebbe avuto la sua attrazione di gravità nello spazio normale. "Abbiamo calcolato l’effetto teorico della repulsione gravitazionale di Giove sul nostro passaggio nell’iperspazio, e abbiamo ottenuto la traiettoria curva che in effetti abbiamo seguito. In altre parole, grazie alle modifiche di Wu, le mie equazioni oltre a risultare semplificate funzionano anche.» «E gli hai torto il collo come avevi promesso?» chiese Fisher. Tessa rise, ricordando la minaccia. «No. A dire il vero, l’ho baciato.» «Ti capisco.» «Naturalmente, adesso è più importante che mai tornare a casa indenni, Crile. Questo perfezionamento va comunicato, e Wu deve ricevere gli encomi che merita. Ha preso spunto dal mio lavoro, d’accordo, però ha proseguito autonomamente arrivando dove io forse non sarei mai arrivata. Insomma, pensa alle conseguenze.» «Me ne rendo conto» disse Fisher. «No, non te ne rendi conto» fece bruscamente Tessa. «Ora, ascolta. I rotoriani non avevano problemi di gravitazione perché viaggiavano più o meno alla velocità della luce, mantenendosi un po’ al di sotto a volte, superandola leggermente altre volte, quindi gli effetti gravitazionali, positivi o negativi, attrattivi o repulsivi, erano trascurabili, quasi inesistenti. È nel vero volo ultraluce, il nostro, che è indispensabile tener conto della repulsione gravitazionale. Le mie equazioni sono inutili. Consentono a una nave di spostarsi nell’iperspazio, ma non nella direzione giusta. E non è tutto… Ho sempre pensato che emergere dall’iperspazio, la seconda fase della transizione, comportasse inevitabilmente un certo pericolo. Che cosa succederebbe se rientrassimo nello spazio in un punto già occupato da un altro corpo? Ci sarebbe un’esplosione incredibile che distruggerebbe la nave in un trilionesimo di trilionesimo di secondo. "Naturalmente, non finiremo dentro una stella, perché conosciamo la posizione delle stelle e possiamo evitarle. Col tempo, forse, conosceremo anche la posizione dei pianeti di una determinata stella e potremo evitare anche quelli. Ma nei pressi di ogni stella ci sono migliaia di asteroidi e un’infinità di comete, corpi che sarebbero ugualmente fatali per noi. Fino a oggi pensavo che non ci rimanesse che sperare in bene e affidarci al caso. Lo spazio è talmente vasto che le probabilità di colpire un corpo più grande di un atomo, o al massimo di un granello di polvere, sono quasi zero. Tuttavia, continuando a viaggiare nell’iperspazio, la sovrapposizione della materia è una catastrofe destinata a verificarsi prima o poi… Invece, no. "Adesso che conosciamo realmente la situazione, sappiamo che è impossibile che accada una cosa del genere. La nostra nave e un corpo di dimensioni considerevoli si respingerebbero e tenderebbero ad allontanarsi. Quindi, nessuna collisione, perché qualsiasi corpo celeste pericoloso si sposterà automaticamente dalla nostra traiettoria.» Fisher si grattò la fronte. «Ma anche noi ci sposteremo, no? Ci sarà una deviazione improvvisa rispetto alla nostra rotta, no?» «Sì, ma dato che probabilmente si tratterà di corpi di modeste dimensioni, sarà una deviazione molto piccola, facilmente correggibile… non è un prezzo molto alto per la nostra incolumità.» Tessa Wendel sospirò e si stiracchiò beata. «Ah, mai sentita meglio in vita mia… Quando torneremo sulla Terra, tutto questo farà scalpore.» Fisher ridacchiò. «Sai, Tessa, prima che arrivassi tu, avevo già delle immagini morbose nella testa… noi persi nello spazio, senza scampo… la nave alla deriva per l’eternità, con cinque cadaveri a bordo, trovata un giorno da degli esseri intelligenti che si sarebbero commossi di fronte a questa tragedia spaziale…» «Be’, non accadrà… garantito, caro» disse Tessa Wendel sorridendo. E si abbracciarono. 33 Mente LXXIII «Hai proprio deciso di uscire di nuovo, Marlene?» chiese Eugenia Insigna, abbattuta. «Mamma» rispose Marlene, prossima a spazientirsi «sembra quasi che abbia preso questa decisione cinque minuti fa dopo un lungo periodo di incertezza. È da parecchio che non ho più dubbi… voglio stare là fuori, su Eritro. Non ho cambiato idea, e non la cambierò.» «Lo so che sei convinta di non correre alcun rischio, e ammetto che finora non ti è successo nulla, però…» «Mi sento al sicuro su Eritro. Sono attratta da Eritro. Zio Siever capisce.» Eugenia guardò la figlia, come se intendesse obiettare ancora, poi però scosse la testa. Marlene aveva deciso, e nessuno doveva ostacolarla. LXXIV "Questa volta c’è più caldo su Eritro… con questa temperatura la brezza non guasta" pensò Marlene. Le nuvole grigiastre si rincorrevano in cielo un po’ più rapide, e sembravano più fitte. Stando alle previsioni, il giorno dopo sarebbe piovuto. Chissà, forse sarebbe stato bello star fuori sotto la pioggia a osservare, rifletté Marlene. Le gocce sarebbero cadute nel ruscello sollevando mille spruzzi, avrebbero bagnato le rocce, e il terreno sarebbe diventato molle e fangoso. Marlene raggiunse una roccia piatta accanto al ruscello. La spolverò con la mano, si sedette adagio, fissando l’acqua che scorreva attorno alle rocce che costellavano il torrentello, e pensò che la pioggia non doveva essere molto diversa da una doccia. Una doccia che sarebbe scesa da tutto il cielo, però… quindi, sarebbe stato impossibile uscirne. "Si farà fatica a respirare?" si domandò d’un tratto Marlene. No, impossibile. Sulla Terra pioveva sempre… be’, spesso, almeno… e a lei non risultava che la gente affogasse per la pioggia. "No, dev’essere come una doccia. Nella doccia si respira benissimo." La pioggia non sarebbe stata calda, però, e a lei piacevano le docce calde, rifletté pigra Marlene. C’era una quiete perfetta lì fuori, e lei poteva riposare tranquilla, senza nessuno che la vedesse, che la osservasse… senza nessuno da interpretare. Era bellissimo non dover interpretare gli atteggiamenti degli altri. Chissà che temperatura aveva, la pioggia? La stessa temperatura piacevole di Nemesis, magari? Certo, lei si sarebbe bagnata, e c’era sempre freddo quando si usciva dalla doccia bagnati. E la pioggia avrebbe bagnato anche i suoi vestiti. Ma sarebbe stato sciocco tenere addosso degli indumenti quando pioveva. Non si entrava nella doccia vestiti. In caso di pioggia, l’unica cosa logica da fare era togliersi i vestiti. Già… e metterli, dove? Quando si faceva la doccia, i vestiti si mettevano nella pulitrice. Lì su Eritro, forse, uno avrebbe potuto metterli sotto una roccia, o fare costruire una casetta in cui lasciarli nelle giornate di pioggia. In fin dei conti, perché portare dei vestiti se pioveva? E se c’era il sole? Naturalmente, se la giornata era fredda, i vestiti servivano. Ma nelle giornate calde… Già… Perché la gente portava i vestiti su Rotor, dove c’era sempre caldo e regnava la massima pulizia? In piscina non li portava… al che, Marlene ricordò che i giovani dal corpo snello e ben fatto erano i primi a spogliarsi, e gli ultimi a rivestirsi. Mentre le persone come Marlene non si spogliavano in pubblico. Forse era per questo che la gente portava i vestiti. Per nascondere il corpo. Perché non era possibile sfoggiare la propria mente? Oh, era possibile invece, solo che alla gente non piaceva. Alla gente piaceva guardare i corpi ben fatti, ma arricciava il naso di fronte alle menti ben fatte. Perché? Ma lì su Eritro, dove non c’era nessuno, Marlene avrebbe potuto togliersi i vestiti nelle giornate miti ed essere libera. Nessuno l’avrebbe indicata col dito o avrebbe riso. Già, avrebbe potuto fare quello che voleva perché aveva un mondo intero e confortevole tutto per sé, un mondo che la circondava e l’avvolgeva come un’immensa coperta morbida e… solo silenzio. Solo silenzio. Lo mormorò con la mente, per disturbarlo il meno possibile. Silenzio. Si drizzò. Silenzio? Ma lei era uscita per sentire di nuovo la voce. Senza gridare, questa volta. Senza avere paura. Dov’era la voce? Quasi l’avesse chiamata, quasi avesse fatto un fischio di richiamo… "Marlene!" Il suo cuore ebbe un lieve sussulto. Marlene si controllò. Non doveva mostrarsi turbata o spaventata. Si guardò attorno, poi, molto calma, disse: «Dove sei?» "Non è necerio… necessario far… far vibrare l’aria… per parlare." La voce era quella di Aurinel, ma non parlava come Aurinel. Sembrava che facesse fatica a parlare, ma si intuiva che il suo linguaggio sarebbe migliorato. "Migliorerà" disse la voce. Marlene non aveva detto nulla. E non disse nulla nemmeno adesso. Pensò semplicemente: "Non devo parlare. Devo solo pensare". "Devi solo adattare la struttura. Lo stai facendo." "Però ti sento parlare." "Sto adattando la tua struttura. È come se mi sentissi." Marlene si umettò le labbra. Non doveva avere paura, doveva rimanere calma. "Non c’è nulla di che… di cui… avere paura" disse la voce che assomigliava alla voce di Aurinel. "Senti tutto, vero?" pensò Marlene. "Ti disturba?" "Sì." "Perché?" "Non voglio che tu sappia tutto. Certi pensieri voglio tenerli per me." (Marlene cercò di non pensare che forse quella era la reazione che avevano gli altri di fronte a lei, quando volevano celare i propri sentimenti… ma si rese conto che il pensiero sarebbe trapelato nell’attimo stesso in cui avesse cercato di non pensarlo.) "Ma la tua struttura è diversa dalle altre." "La mia struttura?" "La struttura della tua mente. Le altre sono confuse… aggrovigliate. La tua è… splendida." Marlene si umettò di nuovo le labbra, e sorrise. Quando la sua mente veniva percepita, si vedeva che era splendida. Esultò, e pensò con disprezzo alle ragazze che avevano solo… esteriorità. "È un pensiero privato?" chiese la voce nella sua mente. Marlene per poco non rispose ad alta voce… "Sì." "Riesco a cogliere una differenza. Non risponderò ai tuoi pensieri privati." Marlene aveva sete di elogi. "Hai visto molte menti?" "Ne ho percepite molte, da quando voi… cose u… umane siete venute." Non era sicura della parola, pensò Marlene. La voce non rispose, e Marlene rimase sorpresa. La sorpresa era stata una sensazione privata, ora che ci pensava, però lei non l’aveva etichettata in quel modo dentro di sé. Forse, il privato era privato, automaticamente. La voce aveva detto che riusciva a cogliere la differenza, ed era chiaro che ci riusciva. Si vedeva dalla struttura. Anche questa volta, nessuna risposta. Marlene doveva fare una domanda specifica, dimostrare che non si trattava di un pensiero privato. "Per favore… si vede dalla struttura?" Non c’era bisogno di precisazioni. La voce avrebbe capito a cosa si riferiva. "Si vede dalla struttura. Si vede tutto, perché la tua struttura è congegnata molto bene." Marlene gongolò soddisfatta a quel complimento. Il minimo che potesse fare era ricambiare. "Anche la tua dev’essere ben congegnata." "È diversa. La mia struttura si estende. È semplice in ogni punto, ed è complessa solo se presa nel suo insieme. La tua è complessa già in partenza. Non c’è semplicità. Ed è diversa dalle altre del tuo genere. Le altre sono… aggrovigliate. Non è possibile entrare in contatto con loro… comunicare. La ristrutturazione è dannosa, perché la struttura è fragile. Non lo sapevo. La mia struttura non è fragile." "La mia, è fragile?" "No. Si adatta." "Hai provato a comunicare con gli altri, vero?" "Sì." Il Morbo di Eritro. (Nessuna risposta. Il pensiero era privato.) Marlene chiuse gli occhi, concentrandosi, tendendo la propria mente, cercando di localizzare il punto d’origine della mente esterna. Non capiva bene cosa stesse facendo, forse non era quello il sistema giusto per individuarla… forse non stava facendo proprio nulla, così. E magari la mente avrebbe riso per la sua goffaggine… sempre che ridesse. Nessuna risposta. "Pensa qualcosa" pensò Marlene. Come prevedibile, la risposta giunse subito. "Cosa devo pensare?" Non proveniva da nessun posto. Era nella mente di Marlene. Contrariata dalla propria incapacità, Marlene chiese: "Quand’è che hai percepito la mia struttura mentale?" "Sul nuovo contenitore di… esseri umani." "Su Rotor?" "Su Rotor." Marlene ebbe un’illuminazione improvvisa. "Mi volevi. Mi hai chiamata." "Sì." Certo. Ecco spiegato il suo desiderio così intenso di andare su Eritro! Ecco perché stava guardando Eritro con tanta bramosia il giorno in cui Aurinel l’aveva raggiunta per dirle che sua madre la cercava! Marlene strinse i denti. Doveva continuare a chiedere. "Dove sei?" "Dappertutto." "Sei il pianeta?" "No." "Mostrati." "Eccomi." E di colpo la voce giunse da una direzione precisa. Marlene stava fissando il ruscello, e all’improvviso si rese conto che mentre aveva comunicato con quella voce, non aveva percepito che la presenza del ruscello. Tutto il resto attorno a lei era scomparso, quasi la sua mente si fosse chiusa in se stessa per essere più ricettiva, per concentrarsi meglio sull’unica cosa che la occupava. Ora il velo si aprì. L’acqua scorreva lungo le rocce, gorgogliando, spumeggiando, turbinando in un piccolo mulinello costellato di bolle. Le bollicine giravano e si spaccavano, sostituite subito da nuove bollicine, formando un disegno che in sostanza non cambiava anche se i particolari non erano uguali. Poi, ad una ad una, le bollicine si dissolsero… ora l’acqua era una superficie piatta, liscia, informe… ma continuava a scorrere, a turbinare. Da cosa lo capiva Marlene? Dal luccichio. Perché l’acqua luccicava leggermente nella luce rosata di Nemesis. E i riflessi scintillanti creavano degli archi, delle spirali, che vorticavano e si fondevano, calamitando lo sguardo di Marlene. Lentamente, formarono la caricatura di una faccia… due buchi per occhi, una linea trasversale come bocca. L’immagine si fece sempre più nitida, definita, mentre Marlene osservava affascinata. E a un certo punto diventò una faccia, una faccia che fissava Marlene con occhi vuoti, ma abbastanza reale da essere riconoscibile. Era la faccia di Aurinel Pampas. LXXV Pensoso, sforzandosi di affrontare la questione con calma, Siever Genarr disse: «Così, allora te ne sei andata». Marlene annuì. «La prima volta, mi sono allontanata quando ho sentito la voce di Aurinel. Questa volta, quando ho visto la faccia di Aurinel.» «Ti capisco…» «Sei troppo indulgente, zio Siever.» «Cosa dovrei fare? Picchiarti? Lascia che sia indulgente… se voglio. La mente, come la chiami tu, ha preso la voce e l’immagine di Aurinel dalla tua mente, direi. Queste due cose dovevano essere presenti in modo molto chiaro nel tuo intimo. In che rapporti eri con Aurinel?» Marlene lo guardò sospettosa. «In che rapporti? Cosa intendi dire?» «Nulla di terribile. Eravate amici?» «Sì, certo.» «Avevi una cotta per lui?» Marlene esitò un attimo, serrando le labbra. «L’avevo, credo» rispose poi. «Avevi? Adesso non più?» «Be’, tanto a che serve? Mi considera solo… una ragazzina. Una sorellina, magari.» «Un atteggiamento abbastanza normale, date le circostanze. Però tu pensi ancora a lui… ecco perché hai evocato la sua voce e la sua faccia.» «Come sarebbe a dire, «evocato»? Erano vere, sia la voce che la faccia.» «Sicura?» «Certo.» «Ne hai parlato con tua madre?» «No, non le ho detto nulla.» «Perché?» «Oh, zio Siever. La conosci. Non avrei sopportato… tutta quella agitazione. D’accordo, adesso mi dirai che lei fa così perché mi vuole bene, ma rimane sempre una seccatura.» «A me lo dici, però, e anch’io ti sono molto affezionato.» «Lo so, zio Siever, però tu non sei un tipo eccitabile. Tu esamini le cose in modo logico.» «È un complimento?» «Sì.» «In tal caso, esaminiamo quello che hai scoperto, e procediamo in modo logico.» «D’accordo, zio Siever.» «Bene. Innanzitutto, c’è qualcosa di vivo su questo pianeta.» «Sì.» «E non è il pianeta stesso.» «No, assolutamente. L’ha negato.» «Ma è un essere vivente, a quanto pare.» «Ho l’impressione che sia un essere vivente. Il guaio è, zio Siever, che quello che sento non corrisponde all’idea che si ha di solito della telepatia. Non è come leggere una mente e ricevere dei messaggi. Ci sono anche delle impressioni, delle sensazioni, che ti assalgono contemporaneamente… come guardare un quadro nel suo insieme invece di soffermarsi sui particolari, sui chiaroscuri che compongono l’immagine.» «E l’impressione che hai è quella di un essere vivente.» «Sì.» «Intelligente.» «Molto intelligente.» «Ma non tecnologico. Sul pianeta non abbiamo mai trovato alcuna traccia di tecnologia. Questo essere vivente che non è visibile, che non si manifesta in modo evidente, medita solo sul pianeta… pensa… ragiona… ma non fa nulla. È così?» Marlene esitò. «Di preciso, non saprei… però può darsi che tu abbia ragione.» «Poi siamo arrivati noi. Secondo te, quando si è accorto del nostro arrivo?» Marlene scosse la testa. «Non saprei.» «Be’, cara, sapeva della tua presenza mentre tu eri ancora su Rotor. Deve essersi accorto che un’intelligenza stava invadendo il Sistema Nemesiano quando noi eravamo ancora lontani nello spazio. Hai avuto questa impressione?» «Non credo, zio Siever. Per me, si è accorto di noi solo quando siamo scesi su Eritro. Abbiamo attirato la sua attenzione, e allora si è guardato attorno e ha trovato Rotor.» «Forse è così. Poi è entrato in contatto con queste nuove menti percepite su Eritro. Forse era la prima volta che incontrava delle menti esterne, estranee alla sua. Che età ha, Marlene? Hai idea?» «Non proprio, zio Siever. Però ho l’impressione che sia molto vecchio, quasi quanto il pianeta, forse.» «Può darsi. In ogni caso, indipendentemente dall’età, per la prima volta si è ritrovato circondato da molte altre menti, diversissime dalla sua. Ti sembra giusto, Marlene?» «Sì.» «Così ha tentato un approccio, un contatto, con le nuove menti e, dato che non sapeva quasi nulla di quelle menti, le ha danneggiate. Ecco cos’era il Morbo di Eritro.» «Sì» disse Marlene, animandosi all’improvviso. «Non ha parlato direttamente del Morbo, ma l’impressione era intensa. Quel tentativo iniziale di contatto ha provocato il Morbo.» «E quando si è accorto dei danni che stava provocando, ha smesso.» «Sì, ecco perché adesso il Morbo non c’è più.» «Quindi, pare che questa mente sia benigna, che abbia un’etica che possiamo approvare, che non voglia danneggiare le altre menti.» «Sì!» esclamò Marlene, contenta. «Ne sono sicura.» «Ma cos’è questa forma di vita? Uno spirito? Qualcosa di incorporeo? Qualcosa che i nostri sensi non possono percepire?» «Non saprei, zio Siever» sospirò Marlene. «Be’, ora proverò a ripetere quello che ti ha detto. Interrompimi, se sbaglio. Ha detto che la sua struttura "si estende"; che "è semplice in ogni punto ed è complessa solo se presa nel suo insieme"; che "non è fragile". Giusto?» «Sì.» «E l’unica forma di vita che abbiamo trovato su Eritro sono i procarioti, le cellule microscopiche. Escludendo qualcosa di spirituale e incorporeo, non restano che i procarioti. È possibile che quelle minuscole cellule, che sembrano separate, in realtà facciano parte di un organismo planetario globale? In questo caso, la struttura della mente sarebbe estesa. Sarebbe semplice in ogni punto e complessa solo se considerata nel suo insieme. E non sarebbe fragile perché, anche se le sue cellule venissero uccise in gran numero, l’organismo planetario, globalmente, non ne risentirebbe quasi.» Marlene fissò Genarr. «Intendi dire che ho parlato con dei microbi?» «Non sono in grado di affermarlo con certezza. È soltanto un’ipotesi, però tutti i particolari quadrano a meraviglia, e non mi viene in mente una spiegazione migliore di questa. E poi, Marlene, se consideriamo le centinaia di milioni di cellule che compongono il tuo cervello, ognuna di quelle cellule presa singolarmente non è granché. Tu sei un organismo in cui tutte le cellule cerebrali sono ammassate. Se parli a un altro organismo in cui tutte le cellule cerebrali sono separate e collegate, diciamo, da minuscole onde radio, c’è poi tanta differenza?» «Non lo so» rispose Marlene, visibilmente turbata. «Ma, un’altra domanda, importantissima. Questa forma di vita, qualunque cosa sia, cosa vuole da te?» Marlene parve sorpresa. «Può parlare con me. Può trasmettermi delle idee.» «Dunque, secondo te, vuole solo qualcuno con cui parlare? Pensi che con l’arrivo degli esseri umani si sia resa conto per la prima volta di essere sola?» «Non lo so.» «Nessuna impressione a questo proposito?» «No.» «Potrebbe distruggerci…» Ora Genarr stava parlando tra sé. «Potrebbe distruggerci senza difficoltà se si stancasse di te, o se l’annoiassi.» «No, zio Siever.» «Però mi ha fatto del male, quando volevo impedirti di entrare in contatto con la mente del pianeta. E ha fatto del male alla dottoressa D’Aubisson, a tua madre, e a una guardia.» «Sì, ma non vi ha fatto molto male… quel tanto che bastava per impedirvi di ostacolarmi. Nient’altro.» «E arriva a fare tutto questo solo per poter parlare con te e avere un po’ di compagnia. Mah… non mi sembra un motivo sufficiente.» «Forse il motivo è qualcosa che non possiamo capire. Probabilmente ha una mente troppo diversa e non può spiegarcelo… o magari, anche se ci spiegasse il motivo, per noi non avrebbe senso.» «Però la sua mente non è poi così diversa dato che può conversare con te. Riceve delle idee da te e ti trasmette altre idee, no? Voi due comunicate.» «Sì.» «E ti capisce abbastanza bene da cercare di farsi apprezzare da te assumendo la voce e la faccia di Aurinel.» Marlene piegò la testa e fissò il pavimento. Genarr proseguì sottovoce. «Quindi, dal momento che ci capisce, può darsi che noi riusciamo a capirla, e in tal caso devi scoprire perché ti vuole tanto. Potrebbe essere importantissimo scoprirlo, perché chissà che intenzioni ha? E tu sei l’unica in grado di scoprirlo, l’unico strumento che abbiamo.» Marlene stava tremando. «Non so come fare, zio Siever.» «Fai come hai fatto finora. La mente ti è amica, pare… e forse ti spiegherà.» Marlene alzò lo sguardo e studiò Genarr. «Hai paura, zio Siever.» «Naturale. Siamo di fronte a una mente molto più potente della nostra. Se decidesse che non ci vuole, potrebbe eliminarci, tutti quanti.» «Non mi riferivo a questo. Hai paura per me.» Genarr esitò. «Sei sempre sicura di non essere in pericolo su Eritro? Non è pericoloso parlare con questa mente?» «No, assolutamente» rispose Marlene, quasi con arroganza, alzandosi. «Non c’è nessun rischio. Non mi farà del male.» Sembrava molto sicura di sé, ma Genarr si sentì mancare. Quello che pensava Marlene contava ben poco, perché la sua mente era stata adattata dalla mente di Eritro. "Posso ancora fidarmi di lei?" si chiese Genarr. In fin dei conti, chissà… forse quella mente composta di trilioni e trilioni di procarioti aveva dei piani… come Pitt, per esempio. E forse, ansiosa di realizzare quei piani, agiva con la stessa doppiezza di Pitt. Già… e se la mente avesse mentito a Marlene per motivi propri? Date le circostanze, faceva bene Genarr a consentire a Marlene di uscire? Ma in fondo, che importanza aveva? Aveva scelta, lui? 34 Vicini LXXVI «Perfetto» disse Tessa Wendel. «Perfetto, perfetto, perfetto.» Fece un gesto, come se stesse inchiodando qualcosa alla parete con decisione. «Perfetto.» Crile Fisher sapeva di cosa stesse parlando. Erano passati nell’iperspazio, due volte, in due direzioni diverse. Due volte, Crile aveva osservato la posizione delle stelle che cambiava un poco. E aveva cercato il Sole, trovandolo leggermente più fioco la prima volta, leggermente più luminoso la seconda. Cominciava a sentirsi come un vecchio vagabondo iperspaziale. «Dunque, il Sole non ci disturba» disse. «Oh, sì, ma è un disturbo perfettamente calcolabile, quindi l’interferenza fisica è un piacere psicologico… capisci?» Facendo l’avvocato del diavolo, Fisher commentò: «Il Sole è piuttosto lontano. L’effetto gravitazionale dev’essere molto vicino allo zero». «Certo, però "molto vicino allo zero" non significa zero. L’effetto è misurabile. Abbiamo attraversato l’iperspazio due volte, e il sentiero virtuale prima si è avvicinato al Sole trasversalmente, poi si è allontanato con un’altra angolazione. Wu aveva calcolato tutto, e la nostra traiettoria coincideva alla perfezione con quella calcolata, fino all’ultima frazione decimale immaginabile. Quell’uomo è un genio. Riesce a prendere delle scorciatoie incredibili col programma del computer.» «Ne sono certo» mormorò Fisher. «Quindi non ci sono più dubbi, Crile. Possiamo raggiungere la Stella Vicina entro domani. Oggi stesso… se abbiamo proprio fretta. Naturalmente, non arriveremo vicinissimi. Forse dovremo avvicinarci alla stella nello spazio normale per un certo periodo di tempo, come misura precauzionale. E poi, non conosciamo la massa della stella con sufficiente precisione, e potrebbe essere rischioso emergere dall’iperspazio troppo vicini all’obiettivo. Non vogliamo essere proiettati inaspettatamente chissà dove e ritrovarci a dover calcolare di nuovo la rotta giusta.» Tessa scosse la testa, l’espressione ammirata. «Ah, quel Wu… Sono proprio soddisfatta di lui, soddisfattissima.» Fisher disse cauto: «Sicura di non essere un po’ seccata?» «Seccata? Perché?» Tessa lo fissò, sorpresa. «Pensi che dovrei essere gelosa?» «Be’, non so. È possibile che a ChaoLi Wu venga attribuito il merito di avere messo a punto il volo ultraluce, di avere elaborato i principi fondamentali, e che tu venga dimenticata, o ricordata solo come un’antesignana?» «No, Crile. Sei molto gentile a preoccuparti per me, ma non c’è problema. Il mio lavoro è documentato dettagliatamente. Gli aspetti matematici di base del volo ultraluce sono miei. E ho anche collaborato alla parte pratica, anche se il merito maggiore della progettazione della nave spetterà ad altri, ed è giusto che sia così. Wu ha aggiunto un fattore di correzione alle equazioni di base. Molto importante, certo, e infatti adesso sappiamo che il volo ultraluce non sarebbe pratico senza questo nuovo elemento, però è solo il tocco finale, la glassa sulla torta. La torta è ancora mia.» «Bene. Se sei sicura, mi fa piacere.» «Se devo essere sincera, Crile, spero che adesso Wu prenda l’iniziativa e porti avanti lo sviluppo del volo ultraluce. Sai, i miei anni migliori ormai li ho lasciati alle spalle… scientificamente parlando, sia chiaro. Solo scientificamente, Crile.» Fisher sorrise. «Lo so.» «Ma come scienziata sono troppo vecchia. Ho approfondito e sviscerato i concetti che avevo quando ero fresca di laurea. Quasi venticinque anni di lavoro, di riflessioni, di conclusioni, e ormai non sono più in grado di spingermi oltre. Occorrono nuovi concetti, nuove idee… bisogna avventurarsi in campi inesplorati. Be’, io non posso più farlo.» «Via, Tessa, non sottovalutarti.» «Non ho mai avuto questo difetto, Crile. Abbiamo bisogno della gioventù se vogliamo nuove idee. I giovani non hanno soltanto cervelli giovani, i loro cervelli sono soprattutto nuovi. Wu ha un corredo cromosomico senza precedenti nell’umanità. Le sue esperienze appartengono solo a lui… non sono di nessun altro. Wu è in grado di produrre idee nuove. Certo, si basa su quel che ho fatto io prima di lui, e deve parecchio al mio insegnamento. È un mio allievo, Crile, una mia creatura. Il suo successo non può che riflettersi su di me positivamente. Gelosa di lui? Sono orgogliosa!.. Che cosa c’è, Crile? Non hai un’aria felice.» «Se tu sei felice, lo sono anch’io, Tessa. Non badare alla mia espressione. Il guaio è che ho la sensazione che le tue siano solo belle parole, che il progresso scientifico sia così solo in teoria. Nella storia della scienza, come in qualsiasi altra cosa, in certi casi la gelosia esisteva, e i maestri detestavano gli allievi che li avevano superati, no?» «Certo. Potrei citare una mezza dozzina di casi famosi anche subito, ma sono rare eccezioni, e il fatto è che adesso non sono gelosa. D’accordo, forse potrà capitare che un giorno io perda la pazienza con Wu e con l’universo intero, ma adesso non sta succedendo, e intendo gustare questo momento fino… Oh, ora che c’è?» Tessa premette il contatto di «Ricezione», e il viso giovane di Merry Blankowitz apparve tridimensionalmente nel trasmettitore. «Capitano» esordì esitante la Blankowitz. «C’è una discussione in corso, qui… e forse possiamo consultare lei.» «Si tratta del volo? Qualcosa che non va?» «No, Capitano. È solo una discussione di carattere strategico.» «Capisco. Be’, non c’è bisogno che veniate qui. Vi raggiungo in sala macchine.» Tessa disattivò l’immagine. «Di solito la Blankowitz non ha quel tono serio» borbottò Fisher. «Secondo te, che problema hanno?» «Le congetture non mi interessano. Andrò di là e lo scoprirò subito» rispose Tessa e, con un cenno, invitò Fisher a seguirla. LXXVII Gli altri tre membri dell’equipaggio sedevano in sala macchine, e i sedili erano posati sul pavimento, anche se in quel momento erano in condizioni di gravità zero. Avrebbero potuto sedersi ognuno su una parete diversa, ma sarebbe stato poco serio, e irriguardoso nei confronti del Capitano. Esisteva da tempo un sistema complesso di norme di comportamento da osservare in assenza di gravità. A Tessa Wendel non piaceva la gravità zero e volendo, in qualità di Capitano, avrebbe potuto insistere perché la nave mantenesse una rotazione continua producendo un effetto centrifugo e, di conseguenza, anche un minimo di pseudogravità. Sapeva benissimo che era più facile calcolare una traiettoria di volo quando la nave era immobile, e in senso traslatorio e in senso rotatorio, ma una velocità rotazionale costante non avrebbe complicato eccessivamente i calcoli. Comunque, insistere sarebbe stato irrispettoso nei confronti dell’addetto al computer. Di nuovo una questione di etichetta. Tessa Wendel si sedette, e Crile Fisher notò (sorridendo tra sé) che barcollava leggermente. Nonostante fosse nata e cresciuta su una Colonia, era chiaro che non aveva mai imparato a mantenere un equilibrio stabile su una nave. Fisher, invece, malgrado fosse un terrestre, sapeva muoversi con la massima disinvoltura in condizioni di imponderabilità (altro sorriso interiore… di soddisfazione, questa volta). ChaoLi Wu respirò a fondo. Aveva una faccia larga, il tipo di faccia che di solito era abbinata a un corpo basso, però aveva una statura superiore alla media. I suoi capelli scuri erano perfettamente lisci, gli occhi avevano un taglio allungato. «Capitano» esordì sottovoce. «Che c’è, ChaoLi?» fece Tessa. «Non dirmi che c’è qualche problema di programmazione, o potrei strozzarti.» «No, nessun problema, Capitano. E proprio perché non c’è più il minimo problema ho l’impressione che abbiamo finito e che a questo punto dovremmo tornare sulla Terra. Ecco cosa vorrei suggerire.» «Tornare sulla Terra?» disse Tessa sbalordita, dopo un attimo di esitazione. «Perché? Non abbiamo ancora portato a termine il nostro compito.» «Io penso di sì, Capitano» replicò Wu, il volto inespressivo. «Solo, non sapevamo quale fosse il nostro compito, tanto per cominciare. Abbiamo elaborato un sistema pratico di volo ultraluce, che non avevamo quando siamo partiti.» «Lo so. E allora?» «E non possiamo comunicare con la Terra. Se proseguiremo per la Stella Vicina e ci succederà qualcosa, se andrà storto qualcosa, la Terra non avrà un sistema pratico di volo ultraluce, e chissà quanto dovrà aspettare per averlo. Questo potrebbe incidere in modo grave sull’evacuazione della Terra. Quindi, secondo me, è importante tornare sulla Terra e spiegare quello che abbiamo scoperto.» Tessa aveva ascoltato serissima. «Capisco. E tu, Jarlow? Qual è la tua opinione?» Henry Jarlow era alto, biondo, e cupo. La sua espressione perennemente malinconica non corrispondeva affatto al suo carattere, e le sue lunghe dita (che apparentemente non avevano nulla di delicato) erano magiche quando lavoravano all’interno di un computer o con qualsiasi strumento di bordo. «Francamente, penso che Wu abbia ragione. Se avessimo le comunicazioni ultraluce, informeremmo la Terra e proseguiremmo il viaggio. E se in seguito ci accadesse qualcosa, be’, ci rimetteremmo solo noi. Ma stando così le cose, non possiamo trascurare la correzione gravitazionale.» «E tu, Blankowitz?» chiese Tessa. Merry Blankowitz si agitò, a disagio. Era una giovane minuta, dai lunghi capelli scuri che scendevano sulla fronte sfiorando le sopracciglia. Per i capelli, la corporatura delicata, e i movimenti rapidi e nervosi, sembrava una Cleopatra in miniatura. «In realtà, non so» rispose. «Non ho un’opinione ben precisa… ma a quanto pare questi due mi hanno convinta. Non pensa che sia importante comunicare quest’informazione alla Terra? In questo viaggio abbiamo studiato alcuni aspetti fondamentali del volo ultraluce, e ci servono altre navi, navi migliori, dotate di computer appositamente progettati per tenere conto della correzione gravitazionale. Così potremo compiere un’unica transizione dal Sistema Solare alla Stella Vicina, e compierla in presenza di campi gravitazionali più forti… potremo partire più vicini al Sole e avvicinarci di più alla stella, risparmiando settimane di viaggio nello spazio normale sia in partenza che all’arrivo. La Terra dev’essere informata, mi sembra.» «Capisco» annuì Tessa Wendel. «Dunque, si tratta di stabilire se sia il caso di informare subito la Terra della correzione gravitazionale… Wu, è davvero indispensabile come sostieni tu? L’idea della correzione non ti è venuta qui a bordo. Se non sbaglio, me ne hai parlato mesi fa…» Rifletté un istante. «Quasi un anno fa.» «In realtà, non ne abbiamo parlato, Capitano. Lei si è spazientita, ricordo, e in pratica non ha voluto ascoltarmi.» «Sì, ho ammesso il mio sbaglio. Però tu hai messo tutto per iscritto. Ti ho detto di stendere una relazione ufficiale, che avrei esaminato quando avessi avuto tempo.» Tessa alzò una mano. «Lo so, non ho mai avuto il tempo di esaminarla, e non ricordo nemmeno di averla ricevuta… ma conoscendoti, Wu, immagino che avrai preparato una relazione abbastanza dettagliata, con tanto di passaggi logici e matematici. È così, vero, Wu? E quella relazione adesso è depositata in archivio, vero?» Sembrò che Wu contraesse le labbra, ma il suo tono di voce non mutò. «Sì, ho preparato la relazione, ma erano solo ipotesi. La ignoreranno, secondo me… proprio come ha fatto lei, Capitano.» «E perché? Non tutti sono stupidi come me, Wu.» «Anche se la prendessero in considerazione, rimarrebbero comunque delle semplici ipotesi. Quando torneremo, invece, avremo in mano delle prove.» «Se un’ipotesi è valida, qualcuno trova sempre la prova. Sai come funziona la scienza.» «Qualcuno» disse lentamente Wu, in tono eloquente. «Ah, ecco cosa ti assilla, Wu. Non sei preoccupato per la Terra, non hai paura che la Terra resti senza un metodo pratico di volo ultraluce. Ti spaventa il contrario, l’idea che il merito della scoperta venga attribuito a un altro. Giusto?» «Capitano, non c’è nulla di male in questo. Uno scienziato ha il diritto di preoccuparsi della priorità della propria scoperta.» Lo sguardo di Tessa era acceso di rabbia. «Hai dimenticato che sono il Capitano di questa nave, e che le decisioni le prendo io?» «Non l’ho dimenticato, ma questo non è un veliero del diciottesimo secolo. Siamo tutti scienziati, fondamentalmente, e dobbiamo decidere in modo democratico. Se la maggioranza vuole tornare…» «Un attimo» intervenne brusco Fisher. «Prima che la discussione continui, vi spiace se dico qualcosa? Sono l’unico a non avere parlato, e adesso toccherebbe a me… se vogliamo essere democratici. Posso, Capitano?» «Prego» rispose Tessa, stringendo e aprendo la destra, quasi fosse ansiosa di afferrare qualcuno per la gola. «Circa sette secoli e mezzo fa» iniziò Fisher «Cristoforo Colombo salpò dalla Spagna e navigò verso ovest, scoprendo infine l’America, anche se non l’avrebbe mai saputo. Durante il viaggio, scoprì che la deviazione della bussola magnetica dal nord geografico, la cosidetta "declinazione magnetica", cambiava con la longitudine. Una scoperta importante, la prima scoperta puramente scientifica nel corso di un viaggio marittimo. Ora, quanti sanno che Colombo scoprì la variazione della declinazione magnetica? Praticamente nessuno. Quanti sanno che Colombo scoprì l’America? Praticamente tutti. Supponiamo che Colombo, una volta scoperta la variazione della declinazione magnetica, avesse deciso a metà strada di tornare a casa e dare l’annuncio a re Ferdinando e alla regina Isabella, assicurandosi la priorità della scoperta del fenomeno. Forse la scoperta sarebbe stata accolta con interesse, e magari in seguito i sovrani avrebbero finanziato un’altra spedizione guidata, diciamo, da Amerigo Vespucci, che poi avrebbe raggiunto l’America. Se fosse andata in questo modo, nessuno adesso ricorderebbe Cristoforo Colombo per la sua scoperta riguardo la bussola, mentre tutti ricorderebbero Amerigo Vespucci come scopritore dell’America. "Dunque, volete proprio tornare indietro? Vi assicuro che la scoperta della correzione gravitazionale sarà ricordata da pochi, come un aspetto secondario del volo ultraluce. Ma l’equipaggio della prossima spedizione, che raggiungerà davvero la Stella Vicina, passerà alla storia come il primo equipaggio ad avere raggiunto una stella col volo ultraluce. Voi tre, anche tu, Wu, meriterete sì e no una nota a piè pagina. "Forse siete convinti che vi consentiranno di partecipare a una seconda spedizione, come premio per la grande scoperta di Wu… ma vi sbagliate, temo. Vedete, a Igor Koropatsky, il Direttore del Dipartimento Informazioni Terrestre, che ci sta aspettando sulla Terra, interessano moltissimo delle informazioni sulla Stella Vicina e sul suo sistema planetario. Esploderà come il Krakatoa quando saprà che eravamo prossimi alla meta e siamo tornati indietro. E naturalmente, il Capitano Wendel dovrà parlare per forza del vostro ammutinamento… un reato gravissimo, anche se non siamo su un veliero del diciottesimo secolo. E voi non parteciperete alla prossima spedizione, tutt’altro… non metterete più piede in un laboratorio, garantito. Anzi, magari, nonostante la vostra rinomanza scientifica, finirete in prigione. Non sottovalutate la collera di Koropatsky… Quindi, pensateci, voi tre. Avanti verso la Stella Vicina? O a casa?» Silenzio. Per un po’ nessuno aprì bocca. «Be’» fece brusca Tessa Wendel. «Mi pare che Fisher abbia spiegato la situazione con estrema chiarezza. Non avete niente da dire?» La Blankowitz rispose sottovoce: «A dire il vero, in fondo non avevo riflettuto bene sul problema. Penso che dovremmo proseguire». Jarlow sbuffò. «Anch’io.» «E tu, ChaoLi Wu?» chiese Tessa. Wu si strinse nelle spalle. «Accetto la decisione della maggioranza.» «Mi fa piacere sentirlo. L’incidente è chiuso, per quanto riguarda le autorità terrestri. Ma meglio che non si ripeta più una cosa del genere, un altro gesto che potrebbe essere considerato sedizioso.» LXXVIII Nel loro alloggio, Fisher disse: «Spero non ti dispiaccia se mi sono intromesso. Avevo paura che esplodessi senza ottenere nulla». «No, hai fatto bene. Non avrei pensato all’esempio di Colombo, un’analogia perfetta. Grazie, Crile.» Tessa gli prese la mano e la strinse. Lui sorrise. «Dovevo giustificare la mia presenza a bordo in qualche modo.» «L’hai ampiamente giustificata. E non hai idea di quanto sia rimasta disgustata dal comportamento di Wu… e pensare che avevo appena finito di dirti che ero contenta per la sua scoperta, per il successo che avrebbe ottenuto. Mi sentivo nobile perché ero disposta a dividere i meriti con lui, pensavo all’etica della ricerca scientifica che dà a ognuno ciò che gli spetta… e invece a Wu non interessava la riuscita del progetto, aveva in mente soprattutto il suo interesse privato.» «È un essere umano, come tutti.» «Lo so. E anche se dal punto di vista etico non è senza macchia, quell’uomo ha comunque una mente scientifica tremendamente acuta.» «Purtroppo devo ammettere che anche le mie argomentazioni si basavano su desideri personali piuttosto che sul bene comune. Io voglio raggiungere la Stella Vicina per motivi che non hanno niente a che vedere col progetto.» «Me ne rendo conto. E ti sono grata ugualmente.» Fisher notò, imbarazzato, che Tessa aveva le lacrime agli occhi. La baciò. LXXIX Era solo una stella, ancora troppo fioca per spiccare in qualche modo. Infatti, Crile Fisher l’avrebbe persa se non avesse attivato il dispositivo d’inquadramento reticolare a cerchi concentrici. «Che delusione. Ha proprio l’aria di una stella, no?» commentò, mentre la sua faccia assumeva l’espressione cupa e imbronciata che sembrava possedere di natura. Merry Blankowitz, l’unica persona accanto a lui al quadro d’osservazione, disse: «Logico, Crile. È una stella». «Voglio dire, sembra una stella fioca… eppure siamo così vicini.» «Vicini per modo di dire. Siamo ancora a un decimo di anno luce di distanza, e non è poco. Solo che il Capitano è prudente. Io mi sarei avvicinata molto di più con l’Ultraluce. Vorrei che fossimo quasi arrivati. Fremo d’impazienza.» «Prima dell’ultima transizione, eri decisa a tornare a casa, Merry.» «Non proprio. Mi ero solo lasciata convincere da quei due. Dopo il tuo discorsetto, mi sono sentita una perfetta imbecille. Davo per scontato che se fossimo tornati saremmo ripartiti un’altra volta… ma tu hai messo bene in chiaro la situazione. Oh, ma adesso non vedo l’ora di usare l’RN.» Fisher sapeva cos’era l’RN. Era il rivelatore neuronico. Anche lui provava una certa eccitazione. Individuando l’intelligenza avrebbero avuto la certezza di essersi imbattuti in qualcosa di infinitamente più importante di tutti i metalli, le rocce, i ghiacci e i vapori che avrebbero potuto scoprire. Esitante, chiese: «A questa distanza non puoi usarlo?» Merry scosse la testa. «No. Per captare qualcosa la distanza dev’essere molto minore. E non possiamo avvicinarci avanzando nello spazio normale. Impiegheremmo quasi un anno. Quando il Capitano sarà soddisfatto dei dati che riusciremo a ottenere da qui, faremo un’altra transizione. Secondo me, tra due giorni al massimo, saremo a un paio di unità astronomiche dalla Stella Vicina, e allora potrò cominciare a compiere delle osservazioni e a rendermi utile. È una seccatura sentirsi un peso morto.» «Già. Lo so» fece Fisher, ironico. Sulla faccia di Merry Blankowitz apparve un’espressione preoccupata. «Mi spiace, Crile. Non alludevo a te.» «In ogni caso, non avresti detto nulla di sbagliato. Forse non sarò di nessuna utilità, io, nemmeno vicino alla stella.» «Sarai utile se individueremo la presenza dell’intelligenza. Potrai parlare ai rotoriani. Sei un rotoriano, e avremo bisogno di te.» Fisher sorrise truce. «Lo sono stato appena per qualche anno.» «Be’, basta, no?» «Vedremo.» Fisher cambiò argomento. «Sei sicura che il rivelatore neuronico funzionerà?» «Sicurissima. Potremmo seguire l’orbita di qualsiasi Colonia grazie alla sua emissione di plessoni.» «Cosa sono i plessoni, Merry?» «È un nome che ho inventato io, si riferisce alla complessa attività fotonica tipica del cervello dei mammiferi. Sai, potremmo individuare dei cavalli, a breve distanza, ma la presenza massiccia di cervelli umani è individuabile a distanze astronomiche.» «Perché "plessoni"?» «Da "complessità". Un giorno si occuperanno dei plessoni non solo per individuare la vita, ma per studiare a fondo il funzionamento del cervello. Ho inventato un nome anche per questo… «plessofisiologia»… o magari "plessoneuronica".» «I nomi sono importanti per te?» chiese Fisher. «Sì, certo. Permettono di parlare in modo conciso. Non è necessario dire "quel campo della scienza che si occupa dei rapporti tra questo e quello". Basta dire «plessoneuronica»… sì, suona meglio. È una scorciatoia. Si risparmia tempo e si può pensare a cose più importanti. E poi…» Merry esitò. «E poi?» Merry rispose d’un fiato. «Se invento un nome e il nome resta, viene adottato, avrò un posticino nella storia della scienza… "Il termine plessone fu introdotto per la prima volta da Merrilee Augina Blankowitz nel 2237 in occasione del primo volo ultraluce effettuato dall’astronave Ultraluce." Difficilmente parleranno di me in altra sede, o per qualche altro motivo, e io mi accontenterei di questo.» «E se captassi i tuoi plessoni e non ci fossero esseri umani, Merry?» «Cioè, se ci fosse una forma di vita aliena? Sarebbe ancor più eccitante. Ma è improbabile. Siamo rimasti delusi un’infinità di volte. Pensavamo che potessero esserci almeno delle forme di vita primitive sulla Luna, su Marte, su Callisto, su Titano. Invece, niente. Sono state fatte le ipotesi più strane… galassie vive, nubi di polvere vive, vita sulla superficie di una stella di neutroni, e via dicendo. Non esiste nessuna prova, però… No, se capterò qualcosa, saranno esseri umani. Ne sono convinta.» «E l’emissione di plessoni di noi cinque? Non capterai anche quella? Non coprirà tutto il resto nel raggio di milioni di chilometri?» «Sì, c’è questo problema, Crile. Dobbiamo regolare l’RN in maniera tale da escludere noi cinque, ed è un’operazione molto delicata. La benché minima dispersione cancellerebbe qualsiasi altra fonte plessonica. Un giorno, Crile, degli RN automatici saranno inviati attraverso l’iperspazio in tutti i punti immaginabili. Non ci saranno esseri umani nelle loro vicinanze, quindi solo per questo avranno già una sensibilità incredibilmente maggiore rispetto ad ora, dal momento che non ci saremo noi a disturbarli. Scopriremo la presenza dell’intelligenza in un posto con notevole anticipo, non sarà più necessario avvicinarsi.» ChaoLi Wu entrò nella sala. Guardò Fisher con una punta di antipatia e disse indifferente: «Com’è la Stella Vicina?» «Niente di eccezionale, a questa distanza» rispose Merry Blankowitz. «Be’, probabilmente faremo un’altra transizione domani o domani l’altro, e allora vedremo.» «Sarà eccitante, eh?» «Sì… se troveremo i rotoriani.» Wu lanciò un’occhiata a Fisher. «Ma li troveremo?» Se la domanda era rivolta a lui, Fisher non reagì, non rispose. Si limitò a fissare Wu impassibile. "Li troveremo?" pensò. Presto la lunga attesa sarebbe finita. 35 Convergenza LXXX Come osservato in precedenza, Janus Pitt non si concedeva spesso il lusso dell’autocommiserazione. In un altro, l’avrebbe considerata un segno disprezzabile di debolezza e di indulgenza eccessiva verso se stessi. Certe volte, però, purtroppo si ribellava al fatto che gli abitanti di Rotor fossero fin troppo pronti a lasciare a lui tutte le decisioni sgradevoli. C’era un Consiglio, certo, regolarmente eletto, che operava con diligenza, approvando leggi e prendendo decisioni… tranne quelle importanti, quelle che riguardavano il futuro di Rotor. Quelle le lasciavano a lui. E non era nemmeno una cosa intenzionale. Le questioni importanti venivano semplicemente ignorate, rese inesistenti in base a un tacito accordo comune. Ora si trovavano in un sistema deserto, e stavano costruendo con comodo altre Colonie, convinti di disporre di un’infinità di tempo. Tutti erano tranquilli, davano per scontato che una volta occupata interamente quella nuova fascia di asteroidi (tra molte generazioni, quindi una questione priva di un’importanza immediata) grazie al perfezionamento dell’iperassistenza sarebbe stato abbastanza facile cercare nuovi pianeti. Il tempo non mancava. Avevano l’eternità di fronte a loro. Soltanto Pitt si preoccupava, sapeva che il tempo era limitato, che da un istante all’altro, all’improvviso, sarebbe potuto arrivare il momento cruciale. Si chiedeva quando avrebbero scoperto Nemesis nel Sistema Solare, e quando qualche Colonia avrebbe deciso di seguire l’esempio di Rotor. Doveva succedere prima o poi. Nemesis avanzava inesorabile verso il Sole, e a un certo punto gli abitanti del Sistema Solare, dato che non erano ciechi, l’avrebbero vista per forza (sarebbe stata ancora lontana, ma abbastanza vicina). Il computer di Pitt, con l’aiuto di un programmatore convinto di risolvere solo un problema di interesse accademico, aveva calcolato che entro mille anni la scoperta di Nemesis sarebbe stata inevitabile, e le Colonie avrebbero cominciato a disperdersi. Dopo di che, Pitt aveva chiesto se le Colonie si sarebbero dirette verso Nemesis. La risposta era stata negativa. A quell’epoca l’iperassistenza sarebbe stata molto più efficiente ed economica. Le Colonie avrebbero avuto un maggior numero di dati sulle stelle più vicine… avrebbero saputo quali stelle avessero dei pianeti, e che tipo di pianeti. Avrebbero ignorato una nana rossa, puntando invece su stelle di tipo G, come il Sole. Quindi sarebbe rimasta la Terra, disperata. E i terrestri, spaventati dallo spazio, già degenerati, e sprofondando ancor più nella melma e nell’infelicità in quei mille anni, di fronte all’avanzata micidiale di Nemesis, cosa avrebbero fatto? Non potevano intraprendere lunghi viaggi. Erano terrestri. Legati a una superficie planetaria. Avrebbero dovuto aspettare che Nemesis si avvicinasse abbastanza. Non potevano sperare di andare da nessun’altra parte. La visione era chiara nella mente di Pitt… un mondo cadente che cercava di mettersi in salvo nel sistema più compatto di Nemesis, che cercava rifugio nella maggior coesione del sistema di una stella che passando avrebbe distrutto il Sistema Solare. Era uno scenario terribile… ma inevitabile. Perché Nemesis non si stava allontanando dal Sole, invece di avvicinarsi? Ah, sarebbe stato tutto diverso. Le probabilità che Nemesis venisse scoperta sarebbero diminuite notevolmente col tempo, e in ogni caso Nemesis sarebbe stata una meta meno desiderabile, meno a portata di mano… Già, ma se Nemesis si fosse allontanata, la Terra non avrebbe nemmeno avuto bisogno di un rifugio, no? Purtroppo, la realtà era un’altra. I terrestri sarebbero arrivati… una plebaglia degenere appartenente alle culture più disparate e abnormi… una marea di terrestri. E ai rotoriani non sarebbe rimasto che distruggerli nello spazio. Ma ci sarebbe stato un Janus Pitt che spiegasse ai rotoriani che non c’era alternativa? Ci sarebbero stati degli altri Janus Pitt a vigilare, a far sì che a Rotor non mancassero le armi e la determinazione necessaria per distruggere i terrestri al loro arrivo? Ma l’analisi del computer, comunque, era ingannevole, in quanto ottimistica. La scoperta di Nemesis da parte del Sistema Solare doveva avvenire entro mille anni, diceva il computer. Quando, però? Il giorno dopo? Era già avvenuta, tre anni prima? Era possibile che qualche Colonia, brancolando in cerca della stella più vicina, non avendo informazioni utili sulle stelle circostanti, stesse seguendo la rotta di Rotor proprio in quel momento? Ogni giorno, Pitt si svegliava chiedendosi: "Sarà questo il giorno fatidico?". Perché quella sofferenza era riservata solo a lui? Perché tutti gli altri dormivano tranquilli in grembo all’eternità, mentre lui doveva pensare ogni giorno a quello che sarebbe potuto accadere? Naturalmente, Pitt si era premunito. Aveva creato un Servizio di Sorveglianza in tutta la fascia degli asteroidi, un corpo che aveva il compito di controllare i recettori automatici che sondavano costantemente il cielo e di individuare alla massima distanza possibile l’abbondante emissione di energia residua di una Colonia in avvicinamento. C’era voluto un po’ di tempo per creare un’organizzazione efficiente, ma ormai da una dozzina d’anni ogni dato sospetto veniva verificato, e di tanto in tanto quando esisteva qualche dubbio veniva consultato Pitt. Quando succedeva, nella testa di Pitt suonava subito un campanello dall’allarme. Tutti falsi allarmi, finora… e il sollievo iniziale di Pitt era sempre seguito da un senso di rabbia nei confronti dei Sorveglianti. Se una cosa non era ben chiara, se ne lavavano le mani, lasciavano perdere, e passavano il problema a Pitt… perché se ne occupasse lui, perché soffrisse lui, perché fosse lui a prendere le decisioni difficili. Al che, l’autocommiserazione di Pitt diventava lacrimevole, e Pitt cominciava ad agitarsi, inquieto, temendo di mostrarsi debole. Questa volta, per esempio… Pitt tastò il rapporto che il computer aveva decodificato, e che aveva ispirato quelle considerazioni sulla sua opera continua, logorante, e così poco apprezzata, al servizio dei rotoriani. Era il primo rapporto che gli passavano in quattro mesi, e gli sembrava del tutto trascurabile. Una fonte di energia sospetta si stava avvicinando, ma tenendo conto della distanza probabile, era una sorgente insolitamente piccola… inferiore di quattro ordini di grandezza rispetto a quanto sarebbe stato logico aspettarsi da una Colonia, talmente piccola da essere individuabile a stento. Avrebbero potuto risparmiargli quella seccatura. Il rapporto parlava della presenza di lunghezze d’onda particolari, apparentemente di origine umana, ma era assurdo. Se la fonte era così debole, cosa potevano capire? Soltanto che non era una Colonia, e che quindi non poteva essere di orgine umana, indipendentemente dalle lunghezze d’onda. "Quegli idioti di Sorveglianti non devono importunarmi in questo modo" pensò Pitt. Gettò da parte il rapporto, e prese l’ultimo rapporto di Ranay D’Aubisson. La ragazza, Marlene, non aveva il Morbo, non l’aveva ancora contratto. Era così pazza da continuare a esporsi al pericolo, da esporsi sempre più… eppure, niente. Pitt sospirò. Forse non aveva importanza. A quanto pareva, la ragazza voleva rimanere su Eritro, e se fosse rimasta là sarebbe stato un bene ugualmente… come se avesse preso il Morbo, forse. Infatti, Eugenia Insigna sarebbe stata costretta a restare su Eritro, e Pitt si sarebbe sbarazzato di entrambe. Certo, si sarebbe sentito più sicuro se a dirigere la Cupola e a controllare madre e figlia ci fosse stata la D’Aubisson. Doveva provvedere in qualche modo entro breve, con accortezza, evitando di fare di Genarr una vittima. Sarebbe stato prudente nominarlo Commissario di Nuova Rotor? Quella nomina sarebbe stata considerata senz’altro una promozione, e difficilmente Genarr avrebbe rifiutato la carica, soprattutto dal momento che, in teoria, avrebbe avuto lo stesso grado di Pitt. O il potere effettivo di Genarr sarebbe stato comunque eccessivo? C’era un’alternativa? Doveva pensarci. Assurdo! Tutto sarebbe stato molto più facile se la ragazza, quella Marlene, avesse semplicemente contratto il Morbo. In uno scatto d’irritazione per l’immunità di Marlene, Pitt prese di nuovo il rapporto sulla fonte di energia. Pazzesco! Uno sbuffo insignificante di energia, e quelli lo seccavano. Era ora di finirla! Pitt batté un messaggio al computer, trasmissione istantanea. Non dovevano più disturbarlo per delle inezie. Dovevano tenere gli occhi aperti e individuare una Colonia! LXXXI A bordo dell’Ultraluce, le scoperte si susseguirono, a catena. Erano ancora a grande distanza dalla Stella Vicina quando scoprirono che aveva un pianeta. «Un pianeta!» esultò Fisher, teso. «Lo sapevo…» «No» si affrettò a intervenire Tessa Wendel «non è come pensi tu. Mettitelo in testa, Crile… c’è pianeta e pianeta. Bene o male, quasi tutte le stelle hanno un sistema planetario. In fin dei conti, più della metà delle stelle della Galassia sono stelle multiple, e i pianeti sono solo stelle troppo piccole per essere stelle. Il pianeta che vediamo non è abitabile. Se fosse abitabile, non lo vedremmo a questa distanza, soprattutto data la luce debole della Stella Vicina.» «Intendi dire che è un gigante gassoso…» «Certo che lo è. E la sua presenza non mi sorprende, non quanto mi avrebbe sorpreso l’assenza di un gigante gassoso.» «Ma se c’è un grande pianeta, può darsi che ci siano anche dei pianeti piccoli.» «Può darsi» ammise Tessa. «Però è difficile che siano abitabili. Saranno troppo freddi per ospitare la vita, oppure per la loro rotazione rivolgeranno solo una faccia alla stella, quindi una faccia sarà troppo calda e l’altra troppo fredda. Se Rotor fosse qui, al massimo potrebbe orbitare attorno alla stella, o magari attorno al gigante gassoso.» «Può darsi che abbiano fatto proprio questo.» «Per tutti questi anni?» Tessa si strinse nelle spalle. «Possibile, immagino… ma non contarci, Crile.» LXXXII Le scoperte successive furono più sorprendenti. «Un satellite?» disse Tessa Wendel. «Be’, perché no? Giove ha quattro satelliti di dimensioni considerevoli. Che c’è di strano se questo gigante gassoso ne ha uno?» «Nel Sistema Solare non esistono satelliti del genere, Capitano» osservò Henry Jarlow. «Grosso modo, ha le dimensioni della Terra… stando ai rilevamenti che sono riuscito a compiere.» «Be’, e allora? Questo che significa?» fece Tessa, rimanendo indifferente. «Nulla… non è detto che debba significare per forza qualcosa» rispose Jarlow. «Però il satellite ha delle caratteristiche insolite. Peccato che io non sia un astronomo.» «Già, anche a me piacerebbe avere un astronomo a bordo» annuì Tessa. «Comunque, continua, per favore. Qualcosa sai, di astronomia.» «Il fatto è che girando attorno al gigante gassoso, il satellite rivolge solo una faccia al gigante gassoso, il che significa che durante la sua rivoluzione attorno al gigante gassoso presenta tutte le sue facce alla Stella Vicina. E per quel che posso stabilire, grazie alla natura della sua orbita quel mondo ha una temperatura normale… dell’acqua allo stato liquido. E ha un’atmosfera. Ora, non conosco bene la materia… come ho detto, non sono un astronomo. Tuttavia, mi sembra che ci siano buone probabilità che il satellite sia un mondo abitabile.» Crile Fisher accolse la notizia con un ampio sorriso. «Non mi sorprende. Igor Koropatsky aveva predetto l’esistenza di un pianeta abitabile. E senza disporre di nessun dato. È stata una semplice deduzione.» «Koropatsky? Davvero? E quando te ne ha parlato?» «Poco prima che partissimo. Secondo lui, era improbabile che a Rotor fosse successo qualcosa durante il viaggio verso la Stella Vicina, quindi dal momento che i rotoriani non erano più tornati, dovevano aver trovato un pianeta da colonizzare. Ed eccolo qui.» «E perché ti ha detto questo, Crile?» Crile rifletté un attimo. «Voleva essere sicuro che il pianeta venisse esplorato perché in futuro avremmo potuto utilizzarlo, al momento di evacuare la Terra.» «E perché non le ha dette a me, queste cose? Hai idea?» Fisher rispose cauto: «Probabilmente, Tessa, mi considerava il più sensibile dei due, quello più pronto a sollecitare l’esplorazione del pianeta…» «Per via di tua figlia…» «Conosceva la situazione, Tessa.» «E tu perché non me l’hai detto?» «Non ero sicuro che ci fosse qualcosa da dire. Tanto valeva aspettare e vedere se Koropatsky aveva ragione, ho pensato. Dal momento che aveva ragione, adesso te lo sto dicendo. Il pianeta deve essere abitabile, stando al suo ragionamento.» «È un satellite» precisò Tessa, chiaramente arrabbiata. «Una differenza puramente nominale.» «Senti, Crile, a quanto pare nessuno considera la mia posizione. Koropatsky ti riempie la testa di sciocchezze perché esploriamo questo sistema e poi, presumibilmente, torniamo sulla Terra con le notizie. Wu voleva che tornassimo con le notizie ancor prima di raggiungere il sistema. Tu sei ansioso di riunirti alla tua famiglia, e non hai in mente altro. Be’, mi sembra che nessuno tenga presente che il Capitano sono io, e che le decisioni le prenderò io.» Il tono di Fisher si fece conciliante. «Sii ragionevole, Tessa. Che decisioni bisogna prendere? Che alternative hai? Dici che Koropatsky mi ha imbottito di sciocchezze, ma non è vero. Il pianeta c’è. O il satellite, se preferisci. Bisogna esplorarlo. La sua esistenza potrebbe essere importantissima per la Terra. L’umanità potrebbe trasferirsi qui, in futuro. Anzi, può darsi che degli esseri umani l’abbiano già fatto.» «Sii ragionevole tu, Crile. Un mondo può avere le dimensioni giuste e la giusta temperatura, ed essere comunque inabitabile per vari motivi. Rifletti… può darsi che abbia un’atmosfera velenosa, o un alto livello di radioattività, o che sia troppo vulcanico. Ha solo una nana rossa che lo illumina e lo scalda, ed è nelle immediate vicinanze di un gigante gassoso. Non è un ambiente normale per un mondo di tipo terrestre… chissà che incidenza avranno queste condizioni ambientali abnormi?» «Bisogna esplorarlo ugualmente… se non altro, per avere la certezza che non sia abitabile.» «Per questo, forse non sarà necessario atterrare» disse Tessa, arcigna. «Ci avvicineremo e giudicheremo meglio. Crile, per favore, cerca di evitare le conclusioni affrettate. Mi spiacerebbe moltissimo se rimanessi deluso.» Fisher annuì. «D’accordo, ci proverò… Però Koropatsky ha dedotto l’esistenza di un pianeta abitale, mentre tutti gli altri sostenevano che era una cosa assolutamente impossibile. Anche tu, Tessa. Continuavi a ripeterlo. Invece il pianeta c’è, e può darsi che sia abitabile. Quindi, lasciami sperare. Forse i rotoriani sono su quel mondo, adesso… e forse c’è anche mia figlia.» LXXXIII ChaoLi Wu disse con una certa indifferenza: «Il Capitano è furioso. L’ultima cosa che voleva era trovare un pianeta qui… un mondo, cioè, dato che non ci permette di chiamarlo pianeta… un mondo che forse è abitabile. Bisognerà esplorarlo, dopodiché dovremo tornare a casa coi dati raccolti. E non è quel che vuole lei. Questo è il suo primo e ultimo viaggio nello spazio profondo. Finito questo viaggio, avrà chiuso. Le tecniche ultraluce verranno sviluppate da altre persone… lo spazio sarà esplorato da altre persone. Lei verrà messa a riposo e avrà solo un ruolo consultivo. E non le piacerà affatto…» «E tu, ChaoLi? Potendo, torneresti nello spazio?» chiese Merry Blankowitz. Wu non esitò. «Non penso mi interessi vagare nello spazio. Non ho la mania dell’esplorazione. Ma, sai… questa notte mi è venuta una strana idea… potrebbe piacermi questo posto, potrebbe essere bello stabilirsi qui… sempre che sia abitabile. Tu, che dici?» «Stabilirmi qui? Assolutamente. Non dico di volere restare sulla Terra per sempre, ma mi piacerebbe tornare almeno per un po’, prima di ripartire.» «Ci ho pensato. Questo satellite è un caso eccezionale. Un mondo abitabile nel sistema di una nana rossa… chi l’avrebbe mai immaginato? Va senz’altro esplorato. Sono perfino disposto a restare sulla sua superficie, e a lasciare che sia qualcun altro a tornare sulla Terra e a tutelare la priorità della mia scoperta degli effetti gravitazionali. Tu difenderesti i miei interessi, vero, Merry?» «Certo, ChaoLi. E anche il Capitano Wendel li difenderebbe. Ha tutti i dati, con tanto di firma e di testimoni.» «Ecco… E penso che il Capitano sbagli a volere esplorare la Galassia. Potrebbe visitare cento stelle senza vedere un solo pianeta insolito come questo. Perché preoccuparsi della quantità quando si ha la qualità a portata di mano?» «Personalmente, credo che si preoccupi per via della figlia di Fisher» disse Merry. «E se Fisher la trovasse?» «E con ciò? Può portarla con sé sulla Terra. Cosa cambierebbe per il Capitano?» «C’è anche una moglie da tenere presente.» «Ma se Fisher non ne parla mai…» «Questo non significa che…» Merry Blankowitz s’interruppe di colpo sentendo un rumore, e un attimo dopo Crile Fisher entrò e salutò i due con un cenno del capo. «Henry ha finito la spettroscopia?» si affrettò a chiedere Merry, quasi volesse cancellare la conversazione precedente. Fisher scosse la testa. «Non lo so. Quel poveretto è nervoso. Ha paura di interpretare male l’analisi, credo.» «Via» intervenne Wu. «È il computer a interpretare i dati. Henry può sempre dare la colpa al computer.» «No, non può!» replicò Merry Blankowitz, infervorandosi. «Comodo! Voi teorici pensate che noi osservatori ci limitiamo a stare accanto a un computer, ad accarezzarlo dicendo: "Su, bravo cagnolino", e a leggere poi i risultati. Non è così. Quel che dice il computer dipende da quello che si inserisce nel computer. Se un’osservazione non gli piace, un teorico se la prende sempre con l’osservatore. Mai una volta che dica: "Dev’esserci qualcosa che non va nel computer"… mai sentito uno che…» «Calma» l’interruppe Wu. «Lasciamo perdere le recriminazioni. Mi hai mai sentito dare la colpa agli osservatori?» «Se le osservazioni di Henry non fossero di tuo gradimento…» «Le accetterei ugualmente. Non ho nessuna teoria su questo mondo.» «Ecco perché accetteresti qualsiasi cosa.» In quel preciso istante Henry Jarlow, cupo come una nube temporalesca, entrò seguito da Tessa Wendel. «Bene, Jarlow, siamo tutti qui» esordì Tessa. «Cos’hai scoperto? Sentiamo.» «Il guaio è che nella luce di questa stella debole non ci sono abbastanza ultravioletti da scottare un albino. Devo lavorare con le microonde… e la prima cosa che si nota è la presenza di vapore acqueo nell’atmosfera.» Tessa Wendel si strinse nelle spalle, impaziente. «Non è necessario che tu ce lo dica. Se un mondo ha le dimensioni della Terra e certe caratteristiche termiche, è normale che ci sia dell’acqua, e quindi del vapore acqueo. Un altro punto a favore dell’abitabilità, ma un punto a favore prevedibilissimo.» «Oh, no» disse Jarlow, a disagio. «È abitabile. Non ci sono dubbi.» «Per il vapore acqueo?» «No. Ho qualcosa di meglio.» «Cosa?» Jarlow guardò i quattro con un’espressione piuttosto sinistra. «Se un mondo fosse abitato, lo considerereste abitabile?» «Sì, credo di sì» rispose calmo Wu. «Stai dicendo che sei in grado di stabilire che è abitato a questa distanza?» chiese brusca Tessa Wendel. «Esattamente, Capitano. C’è dell’ossigeno libero nell’atmosfera… e parecchio. Se c’è l’ossigeno dev’esserci la fotosintesi, no? E se c’è un processo di fotosintesi devono esserci delle forme di vita, no? E un pianeta non può essere inabitabile se ospita delle forme di vita che producono ossigeno!» Ci fu un attimo di silenzio assoluto, poi Tessa disse: «È talmente inverosimile, Jarlow… Sei sicuro di non avere pasticciato la programmazione?» Al che, Merry Blankowitz fissò Wu aggrottando le ciglia e con gli occhi gli disse: "Vistoooo!?" «Non ho mai pasticciato una programmazione in vita mia» replicò Jarlow, freddo. «Comunque, sono pronto a riconoscere di essermi sbagliato, se qualcuno qui è convinto di essere più esperto di me in fatto di analisi atmosferica all’infrarosso. Non è il mio campo, però mi sono attenuto scrupolosamente a Blanc e Nkrumah.» Crile Fisher, che aveva acquistato una sicurezza notevole dalla volta in cui Wu aveva proposto di tornare a casa, non esitò a esprimere la propria opinione. «Sentite» disse. «Questa ipotesi sarà confermata o smentita quando ci saremo avvicinati abbastanza. Perché adesso non supponiamo che l’analisi di Jarlow sia esatta e proviamo a svilupparla? Se nell’atmosfera di questo mondo c’è ossigeno, possiamo presumere che sia stato terraformato, no?» Tutti lo guardarono. «Terraformato?» ripeté Jarlow, interdetto. «Sì, terraformato. Perché no? Abbiamo un mondo adatto alla vita, solo che ha l’atmosfera di anidride carbonica e azoto dei mondi senza vita… come Marte e Venere… allora si mettono delle alghe nell’oceano e in breve tempo addio anidride carbonica, arriva l’ossigeno… O forse si fa qualcos’altro. Non sono un esperto.» Gli altri lo stavano ancora fissando. Fisher proseguì. «Lo sto dicendo perché ricordo che nelle fattorie di Rotor si parlava di terraformazione. Ho lavorato là. Ho partecipato addirittura a dei seminari sulla terraformazione, pensando che potesse esserci qualche collegamento col programma dell’iperassistenza. Non c’era, ma almeno ho sentito parlare della terraformazione.» «E della durata del processo di terraformazione? Non ne ha parlato nessuno? Non ricordi?» chiese Jarlow. Fisher allargò le braccia. «Dimmelo tu, Jarlow. Risparmieremo tempo.» «D’accordo. Rotor ha impiegato due anni per arrivare qui… ammesso che sia qui. Quindi, è qui da tredici anni. Se una massa di alghe grande quanto Rotor venisse sparsa nell’oceano e vivesse, crescesse, e producesse ossigeno, per arrivare al livello attuale, a un contenuto di ossigeno del diciotto per cento con l’anidride carbonica presente in tracce secondo i miei calcoli, be’, ci vorrebbero alcune migliaia di anni. Alcune centinaia, forse… se le condizioni fossero eccezionalmente favorevoli. Quel che è certo è che tredici anni non basterebbero. E poi, le alghe terrestri si sono adattate alle condizioni ambientali della Terra. Su un altro mondo, potrebbero non crescere, o crescere molto lentamente prima di raggiungere l’adattamento. No, tredici anni non sono nulla.» Fisher rimase impassibile. «Ah, però c’è parecchio ossigeno e zero anidride carbonica. Se Rotor non c’entra, come si spiega il contenuto d’ossigeno? Una spiegazione c’è, mi pare… la presenza di forme di vita nonterrestri, no?» «E questa era appunto la mia conclusione» disse Jarlow. «L’unica ipotesi che dobbiamo fare» aggiunse Tessa Wendel. «La fotosintesi è opera della vegetazione indigena. Non significa assolutamente che i rotoriani siano su questo mondo, o siano arrivati in questo sistema.» Fisher parve seccato. «Be’, Capitano» replicò, formale «non significa nemmeno il contrario. Se il pianeta ha una vegetazione propria, significa soltanto che non era necessario alcun processo di terraformazione, e che i rotoriani avrebbero potuto stabilirsi subito.» «Non so…» intervenne Merry Blankowitz. «Molto difficile che la vegetazione evolutasi su un pianeta alieno possa essere nutriente per gli esseri umani. Non credo che gli esseri umani sarebbero in grado di digerirla, o comunque di assimilarla. Anzi, probabilmente sarebbe tossica… E se c’è una flora, ci sarà anche una fauna, e non sappiamo cosa comporterebbe questo…» «Ad ogni modo» osservò Fisher «può darsi che i rotoriani abbiano recintato una distesa di terreno, eliminando le forme di vita indigene e seminando delle piante loro, aliene, ed espandendosi poi gradualmente.» «Supposizioni… tutte supposizioni» borbottò Tessa. «In ogni caso» disse Fisher «è inutile stare qui a inventare degli scenari quando la cosa logica da fare è studiare il pianeta a fondo, avvicinandoci al massimo… scendendo anche sulla sua superficie se sarà possibile.» E Wu, con estrema decisione, disse: «Sono perfettamente d’accordo». «Io sono una biofisica» fece la Blankowitz «e se c’è vita sul pianeta, tutto il resto passa in secondo piano… dobbiamo esplorarlo.» Tessa Wendel li guardò e, arrossendo leggermente, annuì. «Già, dobbiamo esplorarlo, suppongo.» LXXXIV «Più ci avviciniamo e più dati raccogliamo, più le cose si complicano» disse Tessa. «Questo sembra proprio un mondo morto, non c’è dubbio, no? Niente luci nell’emisfero notturno, nessuna traccia di vegetazione o di qualsiasi forma di vita.» «Nessuna traccia palese» disse calmo Wu. «Ma qualche processò dev’esserci, se l’ossigeno è presente nell’aria. Non sono un chimico, quindi non riesco a immaginare nessun processo chimico che spieghi il fenomeno. E voi?» Senza quasi attendere una risposta, Wu proseguì. «In realtà, dubito che un chimico potrebbe trovare una spiegazione chimica. Se c’è l’ossigeno, deve essere un processo biologico a produrlo. Non conosciamo altro.» Tessa Wendel intervenne. «Ma in questo modo, giudichiamo in base alla nostra esperienza con un’unica atmosfera contenente ossigeno… quella della Terra. Un giorno potrebbero ridere di noi. Forse si scoprirà che la Galassia è piena di atmosfere contenenti ossigeno prive di qualsiasi legame con la vita, e tutti sapranno che ci saremo lasciati ingannare dalla nostra esperienza con l’unico pianeta anomalo, un pianeta con una fonte di ossigeno biologica.» «Ah, no» disse rabbioso Jarlow. «Non può cavarsela così, Capitano. Può fare le ipotesi più disparate, ma non può pretendere che le leggi della natura cambino perché le fa comodo. Se vuole che il contenuto di ossigeno di un’atmosfera derivi da una fonte non biologica, deve suggerire un meccanismo.» «Ma… non c’è traccia di clorofilla nella luce riflessa del mondo» insisté Tessa. «Perché dovrebbe esserci?» disse Jarlow. «È probabile che si sia evoluta una molecola abbastanza diversa sotto la pressione selettiva della luce di una nana rossa. Posso suggerire una cosa?» «Prego» rispose Tessa, sarcastica. «Mi pare che tu non stia facendo altro.» «Benissimo. Di preciso, sappiamo solo che le terre emerse di questo mondo sembrano completamente prive di vita. Non significa nulla. Fino a quattrocento milioni di anni fa, anche i continenti terrestri erano sterili, ma il pianeta aveva un’atmosfera contenente ossigeno ed era ricco di vita.» «Vita marina.» «Sì, Capitano. Va benissimo anche quella. Alghe o il loro equivalente… piante microscopiche efficientissime come fabbriche di ossigeno. Le alghe dei mari terrestri producono l’ottanta per cento dell’ossigeno che si riversa nell’atmosfera ogni anno. Questo non spiega tutto? Spiega la presenza di ossigeno nell’atmosfera, e la mancanza di forme di vita nelle aree emerse. Significa inoltre che possiamo esplorare senza alcun rischio il pianeta, atterrando sulla sua superficie sterile e studiando il mare con gli strumenti di cui disponiamo… lasciando a una spedizione successiva, opportunamente equipaggiata, il compito di svolgere uno studio approfondito.» «Già, ma gli esseri umani non sono animali marini. Se i rotoriani fossero arrivati in questo sistema, sicuramente avrebbero tentato di colonizzare le aree emerse, e qui non c’è traccia di colonizzazione. È proprio necessario indagare ancora su questo mondo?» chiese Tessa Wendel. «Oh, sì» rispose subito Wu. «Non possiamo tornare a casa solo con delle deduzioni. Ci occorrono dei fatti, dati concreti. Potrebbero esserci delle sorprese.» «Ti aspetti qualche sorpresa?» fece Tessa, con una sfumatura di collera. «Questo non ha importanza. Possiamo tornare sulla Terra e dire che, senza controllare, eravamo sicuri che non ci sarebbero state sorprese? Non sarebbe un atteggiamento molto assennato.» «Mi pare che tu abbia cambiato idea in modo piuttosto drastico» osservò Tessa. «Prima volevi tornare sulla Terra senza nemmeno avvicinarti alla stella.» «Se ben ricordo, mi hanno fatto cambiare idea» replicò Wu. «In ogni caso, Capitano, date le circostanze, dobbiamo esplorare. Lo so, Capitano, è un’occasione allettante, la tentazione di visitare qualche altro sistema stellare esiste, ma adesso che abbiamo individuato un mondo apparentemente abitabile, dobbiamo tornare sulla Terra con il maggior numero possibile di informazioni… potrebbe essere importantissimo per il nostro pianeta, in senso pratico, molto più importante di qualsiasi informazione di carattere puramente scientifico sulle stelle qui attorno. E poi…» Wu indicò l’oblò e parve quasi sorpreso. «Voglio dare un’occhiata più da vicino a quel mondo. Ho la sensazione che sarà del tutto innocuo.» «Ah, la sensazione?» fece Tessa, sardonica. «Nessuno può impedirmi di avere delle intuizioni, Capitano.» La voce rauca, Merry Blankowitz disse: «Anch’io ho le mie intuizioni, Capitano, e sono preoccupata». Tessa guardò la giovane, con stupore improvviso. «Stai piangendo, Blankowitz?» «No, non proprio, Capitano. Sono solo sconvolta.» «Perché?» «Ho usato l’RN.» «Il rivelatore neuronico? Con quel mondo deserto? Perché?» «Perché sono venuta fin qui per usarlo. Perché è questo il mio compito.» «E i risultati sono negativi… Mi spiace, Blankowitz, ma se esploreremo altri sistemi stellari, avrai delle altre opportunità.» «Ma è appunto questo il problema, Capitano. I risultati non sono negativi. Capto dell’intelligenza su quel mondo, ed è per questo che sono sconvolta. È un risultato assurdo… dev’esserci qualcosa che non va, e non so cosa sia.» Jarlow disse: «Forse lo strumento non funziona. È talmente nuovo che non mi meraviglierei se fosse poco affidabile». «Ma perché non funziona? Sta captando noi, qui a bordo, il rivelatore neuronico? O sta dando semplicemente un segnale positivo falso? L’ho controllato. La schermatura è a posto, e se fosse un falso segnale dovrebbe essere così anche altrove. Invece, nessuna risposta positiva dal gigante gassoso, o dalla Stella Vicina, o da qualsiasi punto dello spazio preso a caso… ma ogni volta che analizza il satellite, il rivelatore da una risposta positiva.» «Vorresti dire che su questo mondo, dove non riusciamo a individuare nessun segno di vita, tu capti l’intelligenza?» fece Tessa. «È un segnale molto debole. Si capta a stento.» Crile Fisher intervenne. «Capitano, non dimentichiamo l’ipotesi di Jarlow. Può darsi che ci sia della vita negli oceani di questo mondo, e che noi non riusciamo a individuarla perché l’acqua è opaca… forme di vita intelligenti, magari. Ecco, forse è questo che Merry capta.» «Fisher ha ragione» annuì Wu. «In fin dei conti, è difficile che una forma di vita marina, per quanto intelligente, abbia una tecnologia. Il fuoco e l’acqua si escludono reciprocamente. Mancando la tecnologia, mancano certe manifestazioni evidenti, ma può essere comunque una forma di vita intelligente. E di una specie non tecnologica, per quanto intelligente, non bisogna avere paura, soprattutto se non può lasciare il mare, e noi rimaniamo sulla terraferma. La situazione si fa ancor più interessante, ed è ancor più necessario indagare.» La Blankowitz protestò seccata: «Se la smetteste di parlare a raffica, anch’io avrei qualcosa da dire. Vi sbagliate, tutti quanti. Se si trattasse di un’intelligenza marina, avrei un segnale positivo solo dagli oceani. Invece è così dappertutto, uniformemente, più o meno… terra e mare. Proprio non capisco!» «Anche sulla terraferma?» fece Tessa incredula. «Allora dev’esserci qualcosa che non va.» «Già, ma cosa? Non riesco a trovare nulla» si lamentò Merry. «È questa la cosa sconvolgente. Non capisco proprio… È molto debole, certo… però c’è» soggiunse, quasi volesse giustificarsi. «Posso spiegare, credo» disse Fisher. Tutti lo fissarono, e Fisher assunse subito un atteggiamento difensivo. «D’accordo, non sarò uno scienziato, però le cose ovvie le capisco. C’è dell’intelligenza nel mare, ma non riusciamo a vederla perché è nascosta dall’acqua. Fin qui, nessun problema. Ma c’è dell’intelligenza anche sulla terraferma. Be’, è nascosta anche quella. È sottoterra.» «Sottoterra?» sbottò Jarlow. «È perché mai dovrebbe essere sottoterra? L’aria non ha nulla che non vada, e nemmeno la temperatura… non abbiamo rilevato nessuna anomalia in superficie. Perché nascondersi?» «Per sottrarsi alla luce, in primo luogo» rispose energico Fisher. «Sto parlando dei rotoriani. Supponiamo che abbiano davvero colonizzato il pianeta. Perché avrebbero dovuto rimanere esposti alla luce rossa della Stella Vicina, una luce deprimente per loro, e che non avrebbe favorito la crescita delle loro piante? Nel sottosuolo, con la luce artificiale, questo problema non sarebbe esistito. E poi…» Fisher s’interruppe, e Tessa Wendel lo sollecitò. «Continua. Allora?» «Be’, dovete capire i rotoriani. Vivono all’interno di un mondo, sono abituati così, per loro è normale. Non si sentirebbero a loro agio sulla superficie esterna di un mondo. Per loro sarebbe naturale penetrare nel terreno, stare sotto.» «Dunque, secondo te, il rivelatore neuronico di Merry capta la presenza di esseri umani sotto la superficie?» fece Tessa. «Sì. Perché no? È lo spessore del terreno tra le loro caverne e la superficie a indebolire il segnale.» «Ma Merry riceve più o meno lo stesso segnale dalle aree emerse e dal mare» insisté Tessa. «Da tutto il pianeta. È molto uniforme» confermò la Blankowitz. «Be’?» disse Fisher. «Intelligenza indigena nel mare, rotoriani nel sottosuolo delle aree continentali. Perché no?» «Un momento» intervenne Jarlow. «Il segnale è presente ovunque, giusto, Merry?» «Gvunque. Ho rilevato qualche lieve variazione d’intensità, ma il segnale è talmente debole che non posso essere sicura. Quel che è certo è che sembra che ci sia dell’intelligenza diffusa su tutto il pianeta.» Jarlow disse: «Immagino che sia possibile nel mare… ma com’è possibile sulla terraferma? Pensate che i rotoriani in tredici anni, tredici anni, abbiano scavato una rete di tunnel sotto tutte le aree emerse di questo mondo? Se il segnale provenisse da una zona, da due, magari… da un paio di aree non molto estese… be’, allora un insediamento dei rotoriani nel sottosuolo sarebbe plausibile. Ma l’intera superficie? Per favore, non diciamo assurdità!» «Henry, per caso stai alludendo alla presenza di un’intelligenza aliena nel sottosuolo?» chiese Wu. «È l’unica conclusione che ci rimane, a meno che non vogliamo concludere che il rivelatore di Merry sia impazzito.» «In tal caso» intervenne Tessa Wendel «forse è meglio non scendere a indagare. Un’intelligenza aliena non è necessariamente un’intelligenza amichevole, e l’Ultraluce non è una nave da guerra.» Wu disse: «Non credo che possiamo rinunciare. Dobbiamo scoprire che tipo di intelligenza è presente sul pianeta, e in che modo potrebbe intralciare eventualmente i piani di evacuazione della Terra». Merry Blankowitz disse: «Comunque, in un punto il segnale è leggermente più forte… una variazione minima. Devo provare a localizzarlo di nuovo?» «Sì, prova» annuì Tessa Wendel. «Possiamo esaminare attentamente quella zona e decidere se scendere o meno.» Wu fece un sorrisetto. «Sono certo che non ci sarà alcun pericolo.» Tessa, infelice, rimase zitta, e gli lanciò un’occhiata torva. LXXXV La cosa strana di Saltade Leverett (secondo Janus Pitt) era la sua predilezione per la fascia degli asteroidi. Gli piaceva vivere là. Evidentemente, c’erano delle persone che amavano davvero il vuoto, gli ambienti inanimati. «Non è che non sopporti la gente» era la spiegazione di Leverett. «Posso contattare tutte le persone che voglio con l’olovisione… parlare con loro, ascoltarle, ridere insieme a loro. Posso fare tutto, a parte toccarle e sentire il loro odore… due cose di cui faccio a meno volentieri. E poi, stiamo costruendo cinque Colonie nella fascia degli asteroidi e posso visitarle tutte e fare indigestione di gente e sentire anche il loro odore, per quel che può servire.» Poi, quando andava su Rotor (la «metropoli», era il termine che si ostinava a usare) Leverett continuava a guardarsi attorno, come se si aspettasse di essere sommerso dalla folla. Guardava con diffidenza perfino le sedie, e si sedeva scivolando lateralmente, quasi sperasse di cancellare l’aura lasciata dal posteriore che aveva occupato quella sedia prima di lui. Janus Pitt aveva sempre pensato che come Commissario Delegato per il Progetto Asteroidi fosse la persona ideale. Quella carica, in pratica, gli consentiva di controllare completamente qualsiasi cosa collegata in qualche modo alla fascia periferica del Sistema Nemesiano. Il che comprendeva, oltre alle Colonie in costruzione, il Servizio di Sorveglianza. Avevano terminato il pranzo nell’intimità dell’alloggio di Pitt, perché Saltade avrebbe preferito soffrire la fame piuttosto che mangiare in una sala aperta al pubblico (e per «pubblico» si intendeva anche una sola persona non di sua conoscenza). Pitt, del resto, era rimasto sorpreso quando Leverett aveva accettato di pranzare con lui. Lo studiò con indifferenza. Leverett era magro, coriaceo, stagionato… dava l’impressione di non essere mai stato giovane e di non potere invecchiare. Aveva gli occhi azzurro sbiadito, i capelli biondo sbiadito. Pitt chiese: «Da quanto tempo non venivi su Rotor, Saltade?» «Quasi due anni, e stavo meglio dov’ero… non sei stato gentile, Janus.» «Perché, cos’ho fatto? Io non ti ho convocato di certo… anche se, dal momento che sei qui, vecchio mio, sei il benvenuto.» «Come se mi avessi convocato. Cosa significa questo messaggio in cui dici di non volere essere disturbato per cose di poco conto? Stai diventando così importante da volerti occupare solo delle cose importanti?» Il sorriso di Pitt si fece un po’ forzato. «Di che stai parlando, Saltade?» «Avevano un rapporto per te. Hanno individuato una piccola sorgente di radiazioni in avvicinamento. Ti hanno inviato il rapporto e tu hai risposto con una delle tue famose circolari invitandoli a non scocciarti.» «Ah, ecco!» (Pitt ricordò tutto. Era stata quella parentesi di autocommiserazione e irritazione. Anche lui aveva il diritto di irritarsi qualche volta.) «Be’, i tuoi uomini devono individuare delle Colonie. Non dovrebbero disturbarmi per delle questioni secondarie.» «Se la pensi così, benissimo. Ma, guarda caso, hanno scoperto qualcosa che non è una Coloniale non vogliono comunicartelo. L’hanno detto a me, e mi hanno chiesto di riferirtelo, nonostante il tuo divieto. Sono convinti che tocchi al sottoscritto trattare con te… ma non ci tengo, Janus. Stai diventando un tipo irascibile, un vecchio potente e irascibile?» «Smettila con queste chiacchiere, Saltade. Cos’hanno avvistato?» sbottò Pitt, piuttosto irascibile. «Un veicolo.» «Come… un veicolo? Non una Colonia?» Leverett alzò una mano nodosa. «Non una Colonia. Ho detto "veicolo".» «Non capisco…» «Cosa c’è da capire? Hai bisogno di un computer? Se ne hai bisogno, hai qui il tuo… Un veicolo è una nave che sta viaggiando nello spazio con un equipaggio a bordo.» «Quanto è grande?» «Dovrebbe essere in grado di trasportare una mezza dozzina di persone.» «Allora dev’essere una delle nostre.» «No. Abbiamo controllato. Non è una nave rotoriana. Quelli del Servizio di Sorveglianza saranno anche stati restii a parlartene, però non sono rimasti con le mani in mano. Nessun computer del sistema è stato utilizzato per la progettazione di una nave del genere, e nessuno avrebbe potuto costruire una nave come quella avvistata senza l’aiuto di un computer.» «Quindi?» «Quindi non è una nave rotoriana. Proviene da qualche altra parte. I miei ragazzi sono stati zitti, non ti hanno disturbato, si sono attenuti alle tue istruzioni… prima volevano essere sicuri che non fosse una nave costruita da noi. Quando non ci sono stati più dubbi, mi hanno informato e hanno detto che bisognava avvisarti, ma che loro non volevano farlo. Sai, Janus, calpestare la gente è controproducente, se si esagera.» «Sta’ zitto» sbottò Pitt, stizzito. «Una nave non rotoriana? Impossibile! Da dove dovrebbe provenire?» «Dal Sistema Solare, immagino.» «Impossibile! Una nave di quelle dimensioni con una mezza dozzina di persone a bordo non può essere arrivata fin qui dal Sistema Solare. Anche se avessero scoperto l’iperassistenza, il che è plausibilissimo, sei persone chiuse in uno spazio ristretto per oltre due anni non arriverebbero mai a destinazione vive. Forse un equipaggio speciale, molto bene addestrato e composto di gente con doti fuori del comune, potrebbe portare a termine il viaggio senza impazzire del tutto… ma, no, nessuno nel Sistema Solare affronterebbe una simile impresa. Solo una Colonia completa, un mondo autosufficiente abitato da persone abituate a quel tipo di vita fin dalla nascita, può compiere un viaggio interstellare senza problemi.» «Comunque, abbiamo una nave di piccole dimensioni che non è rotoriana» disse Leverett. «Questo è un dato di fatto, e non ti resta che accettarlo, te l’assicuro. Da dove viene, secondo te? La stella più vicina è il Sole… altro dato di fatto. Se non proviene dal Sistema Solare, allora proviene da qualche altro sistema stellare… un viaggio molto più lungo di due anni e rotti, e a maggior ragione impossibile secondo il tuo ragionamento.» «Forse non è una nave umana» disse Pitt. «Forse si tratta di altre forme di vita, con una psicologia diversa, in grado di sopportare lunghi viaggi in ambienti ristretti.» «O forse sono alti così…» Leverett alzò la mano e lasciò mezzo centimetro tra il pollice e l’indice. «E per loro quella nave è una Colonia. Be’, non è così. Non sono alieni. Non sono lillipuziani. Quella nave non è rotoriana, però è umana. Gli alieni dovrebbero essere completamente diversi dagli esseri umani, no, e dovrebbero costruire navi completamente diverse. Quella è una nave umana al cento per cento, con tanto di sigla in alfabeto terrestre sulla fiancata.» «Non me l’avevi detto!» «Credevo non fosse necessario.» «Potrebbe essere una nave umana, ma automatizzata. Potrebbero esserci dei robot a bordo.» «Può darsi» annuì Leverett. «In tal caso, dovremmo distruggerla? Se a bordo non ci sono esseri umani, non c’è nessun problema etico. Distruzione di proprietà altrui… però in fin dei conti stanno sconfinando…» «Ci sto pensando» disse Pitt. Leverett fece un ampio sorriso. «Non farlo! Quella nave non è stata nello spazio per oltre due anni.» «Cosa intendi dire?» «Hai dimenticato in che condizioni era Rotor quando siamo arrivati qui? Noi siamo stati nello spazio per oltre due anni, viaggiando la metà del tempo nello spazio normale appena al di sotto della velocità della luce. A quella velocità, la superficie è stata graffiata dalla collisione con atomi, molecole e granelli di polvere. Ricordo che è stato necessario levigarla e ripararla. Non ricordi?» «E questa nave?» chiese Pitt, senza rispondere alla domanda di Leverett. «Lucida come se avesse percorso al massimo qualche milione di chilometri a velocità normali.» «Impossibile. Smettila con questi scherzi.» «Non è impossibile. Hanno percorso al massimo qualche milione di chilometri a velocità normali… Il resto del viaggio… iperspazio.» «Di che stai parlando?» Pitt stava perdendo la pazienza. «Volo ultraluce. Ecco cos’hanno.» «È teoricamente impossibile.» «Davvero? Be’, se hai qualche altra spiegazione, forza, sentiamo.» Pitt lo fissò a bocca aperta. «Ma…» «Lo so. Gli scienziati dicono che è impossibile, eppure quelli hanno il volo ultraluce. Adesso, ascolta… Se hanno il volo ultraluce, devono avere anche le comunicazioni ultraluce. Quindi il Sistema Solare sa che sono qui e sa cosa sta succedendo. Se distruggiamo la nave, il Sistema Solare lo saprà, e trascorso un po’ di tempo arriverà una flotta di navi come quella, sbucherà dallo spazio sparandoci addosso.» «Tu cosa faresti, allora?» Pitt si ritrovò incapace di pensare, momentaneamente. «Non ci resta che accoglierli amichevolmente, scoprire chi sono, cosa stanno facendo, cosa vogliono. Bene, pare che abbiano intenzione di atterrare su Eritro. Dovremo andare su Eritro anche noi, a parlare con loro.» «Su Eritro?» «Certo, Janus, se scendono su Eritro, dove dovremmo andare? Dobbiamo affrontarli là. Dobbiamo correre questo rischio.» Pitt sentì che la sua mente ricominciava a funzionare. «Dal momento che lo ritieni necessario, saresti disposto a farlo? Con una nave e un equipaggio, naturalmente.» «Intendi dire che tu non lo farai?» «Io, il Commissario? Non posso venire su Eritro ad accogliere una nave sconosciuta.» «Poco dignitoso, dato il tuo rango, eh? Capisco. Dunque, dovrò affrontare gli alieni o i robot o i lillipuziani o quel che sono, senza di te.» «Mi terrò continuamente in contatto, visivo e vocale, ovvio, Saltade.» «A distanza.» «Sì, però se la tua missione avrà successo per te ci sarà una ricompensa adeguata, tieni presente questo.» «Davvero? In tal caso…» Leverett guardò Pitt, meditabondo. Pitt attese, poi chiese: «Hai intenzione di fissare un prezzo?» «Di proporlo. Se vuoi che vada ad accogliere quella nave su Eritro, be’, voglio Eritro, allora.» «Cosa intendi dire?» «Voglio stabilirmi su Eritro. Sono stanco degli asteroidi. Sono stanco di sorvegliare. Sono stanco della gente. Ne ho avuto abbastanza. Voglio un mondo intero deserto. Voglio costruirmi un alloggio decente, rifornirmi di cibo e via dicendo alla Cupola, avere una fattoria e degli animali miei se riuscirò ad allevarli.» «Da quanto tempo lo desideri?» «Non so. La cosa è nata a poco a poco. E dopo essere venuto qui e avere dato un’occhiata a Rotor, così affollato e rumoroso, Eritro mi attira più che mai.» Pitt corrugò la fronte. «Siete in due, allora. Sei come quella ragazza, quella pazza…» «Quale ragazza pazza?» «La figlia di Eugenia Insigna. Conosci Eugenia Insigna, immagino.» «L’astronoma? Certo. Non conosco sua figlia.» «Completamente pazza. Vuole stare su Eritro.» «E sarebbe pazza per questo? A me sembra una cosa perfettamente sensata. Anzi, se vuole stare su Eritro, una donna potrei anche sopportarla…» Pitt alzò un dito. «Ho detto "ragazza".» «Quanti anni ha?» «Quindici.» «Oh? Be’, invecchierà… Purtroppo, invecchierò anch’io.» «Non è una bellezza mozzafiato.» «Guardami bene, Janus… nemmeno io sono sono molto bello, no? D’accordo, queste sono le mie condizioni.» «Vuoi che venga registrato ufficialmente nel computer?» «Semplice proforma, eh, Janus?» Pitt non sorrise. «Benissimo. Cercheremo di localizzare il punto di atterraggio della nave, e intanto tu ti preparerai a raggiungere Eritro.» 36 Incontro LXXXVI Il tono che esprimeva un misto di perplessità e scontentezza, Eugenia Insigna disse: «Marlene stava cantando questa mattina. Una canzone che diceva: "Casa, casa tra le stelle, dove i mondi ruotano liberi"». «La conosco» annuì Genarr. «Te la canterei, ma non ho orecchio.» Avevano appena terminato il pranzo. Pranzavano insieme ogni giorno, adesso… un momento che Genarr attendeva tranquillo e soddisfatto, anche se l’argomento di conversazione immancabilmente era Marlene, e anche se Eugenia forse si rivolgeva a lui solo per disperazione, non potendo parlare liberamente con nessun altro. A Genarr non importava. Gli bastava stare con lei. «Non l’avevo mai sentita cantare, prima» disse Eugenia. «Ho sempre pensato che non sapesse cantare. Invece ha una voce gradevole, da contralto.» «Probabilmente, significa che è felice, adesso… o eccitata… o contenta… è un segno positivo, insomma. Secondo me, Marlene ha trovato il suo posto nell’universo, la sua unica ragione di vita. Non tutti la trovano. La maggior parte di noi, Eugenia, si trascina in avanti, cercando il significato personale della vita, non lo trova, e alla fine sprofonda nella disperazione più cupa o si chiude in una serena rassegnazione. Io appartengo alla categoria dei rassegnati.» Eugenia abbozzò un sorriso. «Mentre io no, vero?» «Be’, non sei immersa nella disperazione più cupa, ma in effetti tendi a continuare le battaglie perse.» Lei abbassò gli occhi. «Ti riferisci a Crile?» «Se pensi che mi riferisca a Crile, d’accordo. In realtà, però, stavo pensando a Marlene. È uscita una dozzina di volte. Le piace moltissimo. La rende felice, eppure tu te ne stai qui a combattere la paura. Cos’è che ti angustia?» Eugenia rifletté qualche attimo, giocherellando con la forchetta. «È il senso di perdita. L’ingiustizia di questa situazione. Crile ha faro una scelta e l’ho perso. Marlene ha fatto una scelta e la sto perdendo… Eritro me la sta portando via, se non il Morbo…» «Lo so.» Genarr le prese la mano, e lei, distrattamente, lasciò che la stringesse. Eugenia continuò. «Marlene è sempre più smaniosa di stare là fuori, in quella desolazione assoluta, e le interessa sempre meno stare con noi. Alla fine, troverà il modo di vivere all’esterno, si assenterà per periodi sempre più lunghi… e un giorno sparirà.» «Probabilmente hai ragione, ma la vita è un susseguirsi di perdite. Perdiamo la giovinezza, i genitori, gli amori, gli amici, la salute, e infine la vita. Bisogna accettarlo, altrimenti oltre a perdere tutto ugualmente, si perde anche la tranquillità, la pace interiore.» «Non è mai stata una bambina felice, Siever.» «Ti senti responsabile?» «Avrei potuto essere più comprensiva.» «Non è mai troppo tardi per cominciare. Marlene voleva un mondo intero, e adesso ce l’ha. Voleva trasformare quella che è sempre stata una dote gravosa in un metodo di comunicazione diretta con un’altra mente, e c’è riuscita. Vorresti costringerla a rinunciare? Per non perderla, per averla sempre accanto, vorresti farle subire una perdita ben più grande, impedendole di usare nel modo giusto il suo cervello eccezionale?» Eugenia ridacchiò, anche se aveva le lacrime agli occhi. «Con quella parlantina, sapresti convincere anche un sordo, Siever.» «Davvero? I miei discorsi non sono mai stati efficaci quanto i silenzi di Crile.» «C’erano altri fattori.» Eugenia corrugò la fronte. «Non importa… Adesso sei qui, Siever, e mi sei di grande conforto.» Genarr osservò mesto: «Si vede proprio che sono vecchio, se il fatto di esserti di conforto mi consola. La fiamma arde bassa quando non chiediamo chissà cosa, ma ci accontentiamo del conforto». «Non c’è nulla di male in questo.» «Oh, no, assolutamente. Secondo me, molte coppie hanno vissuto passioni intense, hanno conosciuto i riti dell’estasi, senza mai trovare il conforto reciproco, e magari alla fine pur di averlo avrebbero rinunciato volentieri a tutto il resto… Non so… Le vittorie intime sono così… intime. Essenziali, ma passano inosservate.» «Come te, mio povero Siever?» «Via, Eugenia, è una vita che cerco di evitare la trappola dell’autocommiserazione, non devi tentarmi solo per vedermi soffrire.» Oh Siever, non voglio vederti soffrire.» «Ah, proprio quello che mi interessava sentirti dire. Visto come sono in gamba? Sai, se vuoi un sostituto di Marlene, sono pronto a rimanerti vicino, caso mai avessi bisogno di qualcuno che ti consoli. Se tu me lo chiedessi, non mi staccherei da te nemmeno se mi offrissero un intero pianeta.» Lei gli strinse la mano. «Non ti merito, Siever.» «Niente scuse, Eugenia. Sono disposto a immolarmi per te, e tu non dovresti impedirmi di compiere il sacrificio supremo.» «Non hai trovato una persona più degna.» «Non l’ho cercata. Né ho notato un grande interesse nei miei confronti da parte delle donne di Rotor. E poi, non saprei che farmene di una persona più degna. Sarebbe poco entusiasmante offrirmi come dono meritato. Molto più romantico essere un dono immeritato, piovuto dal cielo.» «Essere quasi un dio nella tua magnanimità.» Genarr annuì energicamente. «Mi piace. Sì, sì… Proprio l’idea che mi affascina.» Eugenia rise di nuovo, con maggiore spontaneità. «Sei pazzo. Sai, non me n’ero mai accorta.» «Ho dei lati nascosti. Conoscendomi meglio… senza alcuna fretta, naturalmente…» Genarr fu interrotto dal ronzio acuto del ricevitore di messaggi. Si accigliò. «Ecco… Riesco a incantarti, non so come… tu stai quasi per abbandonarti tra le mie braccia, e ci interrompono. Ohhh!» Di colpo, il tono di Genarr cambiò completamente. «È di Saltade Leverett.» «Chi è?» «Non lo conosci. Quasi nessuno lo conosce. È una specie di eremita. Lavora nella fascia degli asteroidi perché gli piace stare là. Sono anni che non vedo quel vecchio vagabondo… Chissà perché ho detto «vecchio»… ha la mia età… È anche un messaggio riservato. Si apre solo con l’impronta dei pollici. A questo punto, data la segretezza, dovrei chiederti di uscire prima di leggerlo.» Eugenia si alzò subito, ma Genarr le fece cenno di restare seduta. «Non essere sciocca, Eugenia. La segretezza è la malattia dei burocrati. Io me ne infischio.» Premette un pollice sul foglio, quindi l’altro pollice, nei punti richiesti, e cominciarono ad apparire delle lettere. «Spesso ho pensato che se a una persona mancassero i pollici…» Poi Genarr tacque. Sempre in silenzio, porse ilmessaggio a Eugenia. «Posso leggerlo? Il regolamento lo consente?» Genarr scosse la testa. «Certo che no, ma a me non importa. Leggilo pure.» Eugenia diede una rapida scorsa, e alzò lo sguardo. «Una nave straniera? Che sta per atterrare qui?» Genarr annuì. «È quel che dice il messaggio, almeno.» «Ma… e Marlene? È là fuori» disse concitata Eugenia. «Eritro la proteggerà.» «Come fai a saperlo. Potrebbe essere una nave di alieni. Alieni veri. Extraterrestri. L’organismo di Eritro forse non avrà alcun potere su di loro.» «Noi siamo alieni per Eritro, eppure ci controlla facilmente.» «Devo uscire all’esterno.» «Ma a cosa può…» «Devo raggiungere Marlene. Vieni con me. Aiutami. La riporteremo nella Cupola.» «Se sono invasori potentissimi e malintenzionati non saremo al sicuro nemmeno nella…» «Oh, Siever, lascia perdere la logica, non è il momento! Ti prego. Devo stare accanto a mia figlia!» LXXXVII Avevano scattato delle fotografie e adesso le stavano studiando. Tessa Wendel scosse la testa. «Incredibile. Un mondo completamente desolato. A parte quella cupola.» «Intelligenza ovunque» disse Merry Blankowitz, corrugando la fronte. «Non ci sono più dubbi ora che ci siamo avvicinati tanto. Desolato o no, l’intelligenza è presente.» «Ma il punto in cui è più intensa è quella cupola, giusto?» «Sì, Capitano. Là è più intensa, e decisamente familiare. All’esterno della cupola ci sono delle lievi differenze, e non so di preciso cosa significhi questo.» Wu disse: «L’unica forma di intelligenza superiore che conosciamo e che abbiamo analizzato è quella umana, quindi è naturale che…» Tessa lo interruppe. «Secondo te, l’intelligenza all’esterno della cupola non è umana?» «Dal momento che abbiamo stabilito che degli esseri umani non possono avere creato degli insediamenti sotterranei in tutto il pianeta in tredici anni, mi pare che l’unica conclusione possibile sia questa.» «E la cupola? È una struttura umana?» «Questo è un discorso completamente diverso, e i plessoni di Merry non c’entrano» rispose Wu. «Si vedono degli strumenti astronomici. La cupola, o almeno una parte della cupola, è un osservatorio astronomico.» «Perché, un’intelligenza aliena non potrebbe interessarsi di astronomia?» chiese Jarlow, un po’ sardonico. «Certo, ma con strumenti suoi. Se vedo un oggetto identico in tutto e per tutto a un analizzatore computerizzato all’infrarosso terrestre… Be’, mettiamola in questi termini… dimentichiamo la natura dell’intelligenza. Si vedono degli strumenti che, o sono stati costruiti nel Sistema Solare, o sono stati costruiti basandosi su dei progetti elaborati nel Sistema Solare. Questo è evidente. È impossibile che un’intelligenza aliena, senza alcun contatto con gli esseri umani, abbia costruito strumenti del genere.» «Benissimo. Sono d’accordo, Wu» annuì Tessa. «Qualunque cosa ci sia su questo mondo, sotto quella cupola ci sono, o c’erano, degli esseri umani.» Crile Fisher intervenne in tono aspro. «Non dire solo "esseri umani". Sono rotoriani. Non possono essere che loro.» «Anche questo è inconfutabile» ammise Wu. «Ma è una cupola così piccola» osservò Merry Blankowitz. «Su Rotor dovevano esserci migliaia di persone.» «Sessantamila» mormorò Fisher. «Non possono stare tutte in quella cupola.» «In primo luogo, forse ci sono altre cupole» disse Fisher. «Anche se sorvolassimo il pianeta mille volte, chissà quante cose ci sfuggirebbero.» «Soltanto in questo punto i plessoni erano di tipo diverso, apparentemente. Se ci fossero altre cupole, ne avrei localizzata qualcuna, ne sono certa» replicò Merry. «Be’, forse quello che vediamo è una piccola parte di una struttura che magari si estende per chilometri sotto la superficie» insisté Fisher. Wu disse: «I rotoriani sono arrivati su una Colonia. Può darsi che la Colonia esista ancora. Può darsi che ce ne siano molte… e che questa cupola sia solo un avamposto». «Non abbiamp visto nessuna Colonia» osservò Jarlow. «Non abbiamo nemmeno cercato» ribatté Wu. «Ci siamo concentrati unicamente su questo mondo.» «Io ho localizzato l’intelligenza solo su questo mondo» disse Merry. «Neppure tu hai cercato. Dovremmo esplorare il cielo, lo spazio, per individuare una Colonia, o qualche Colonia… ma dopo avere captato i plessoni provenienti dal pianeta, tu non hai cercato nient’altro, in nessun altro punto.» «Se credi che sia necessario, lo farò.» Tessa Wendel alzò la mano. «Se ci sono delle Colonie, perché non ci hanno avvistati? Non abbiamo fatto nulla per schermare la nostra emissione di energia. In fin dei conti, eravamo sicuri di trovare un sistema stellare deserto.» «Forse anche loro si sentivano sicuri, Capitano… troppo sicuri» rispose Wu. «Non aspettavano l’arrivo di nessuno, così noi siamo penetrati nel sistema inosservati. O se ci hanno avvistati, può darsi che siano incerti, che si chiedano chi siamo… o cosa siamo… e che non sappiano che fare, proprio come noi. Comunque, una cosa è certa… in un punto della superficie di questo grande satellite ci sono senz’altro degli esseri umani, quindi a mio avviso dobbiamo scendere ed entrare in contatto con loro.» «Non sarà pericoloso?» domandò Merry. «No, non credo» rispose Wu senza esitare. «Non possono spararci a vista. Come minimo, vorranno sapere qualcosa da noi prima di eliminarci. E poi, se continuiamo a rimanere qui indecisi non concluderemo nulla… e dovremmo tornare a casa a riferire quello che abbiamo scoperto. La Terra invierà una flotta di navi ultraluce, però non ci saranno riconoscenti se torneremo solo con pochissime informazioni. Passeremo alla storia come la spedizione che avrà esitato.» Wu sorrise, affabile. «Vede, Capitano, la lezione di Fisher mi è servita.» «Quindi, secondo te dovremmo scendere e prendere contatto» disse Tessa Wendel. «Certo.» «Blankowitz?» «Sono curiosa. Non tanto per la cupola… se c’è una foma di vita aliena, mi interessa soprattutto quella.» «Jarlow?» «Vorrei che avessimo delle armi adeguate, o le ipercomunicazioni. Se ci distruggeranno, la Terra non avrà scoperto nulla, il nostro viaggio sarà stato inutile. Poi, chissà… forse qualcun altro verrà qui e sarà impreparato e indeciso come noi… Però, se sopravviveremo, torneremo con delle informazioni della massima importanza. Credo che dobbiamo rischiare.» «La mia opinione, Capitano?» chiese Fisher sottovoce. «Immagino che tu voglia atterrare per vedere i rotoriani.» «Appunto, quindi se mi è consentito un suggerimento… Atterriamo con la massima discrezione possibile, senza farci notare, e io lascerò la nave e andrò in ricognizione. Se succederà qualcosa, decollate e tornate sulla Terra, abbandonandomi qui. Io sono sacrificabile, ma la nave deve ritornare.» «Perché proprio tu?» chiese subito Tessa, mentre sul suo volto affiorava una certa tensione. «Perché conosco i rotoriani, almeno, e perché… voglio andare.» «Anch’io» intervenne Wu. «Verrò con te.» «Perché rischiare in due?» domandò Fisher. «Perché in due i rischi saranno minori. Perché in caso di pericolo uno potrebbe fuggire mentre l’altro terrà a bada la minaccia. E soprattutto perché, come hai detto tu, conosci i rotoriani. Il tuo giudizio potrebbe mancare di obiettività.» Tessa disse: «Allora atterreremo. Fisher e Wu lasceranno la nave. Se, in qualsiasi momento, Fisher e Wu non saranno d’accordo sul da farsi, sarà Wu a decidere». «Perché?» sbottò Fisher, indignato. «Wu ha detto che conosci i rotoriani e che le tue decisioni potrebbero mancare di obiettività… e io sono d’accordo con lui» rispose Tessa, fissando Fisher con fermezza. LXXXVIII Marlene era felice. Si sentiva avvolta in un abbraccio delicato, protetta, riparata. Vedeva la luce rossiccia di Nemesis e sentiva il vento sulle guance. Osservava le nubi che di tanto in tanto oscuravano in parte o del tutto il grande globo di Nemesis attenuando la luce e facendola diventare grigiastra. Ma Marlene vedeva con la stessa facilità sia con la luce grigia che con quella rossa, e riusciva a cogliere sfumature e tonalità di colore che formavano disegni affascinanti. E sebbene il vento fosse più fresco quando la luce di Nemesis era nascosta, Marlene non aveva mai freddo. Era come se Eritro in qualche modo le acuisse la vista, scaldasse l’aria attorno al suo corpo quand’era necessario, si prendesse cura di lei. E Marlene poteva parlare con Eritro. Aveva deciso che per lei le cellule che costituivano la forma di vita di Eritro erano Eritro. Le identificava col pianeta. Perché no? Individualmente, le cellule erano solo cellule, primitive come quelle… anzi, ancor più primitive di quelle del suo corpo. Solo tutte le cellule procariotiche insieme formavano un organismo di milioni di miliardi di parti microscopiche collegate tra loro che riempiva il pianeta, che lo pervadeva, che lo stringeva… quindi tanto valeva considerare le due cose equivalenti. L’organismo dunque corrispondeva al pianeta per lei. Che strano, pensò Marlene. Prima dell’arrivo di Rotor, quella gigantesca forma di vita non doveva mai aver saputo di non essere l’unica cosa viva esistente. Le domande e le sensazioni di Marlene non erano confinate soltanto nella sua mente. A volte, Eritro si alzava di fronte a lei, come un velo sottile di fumo grigio, assumendo le sembianze di una figura umana spettrale che guizzava ai margini. La manifestazione aveva sempre un che di fluido, di mutevole. Non che Marlene in realtà lo vedesse… però lo avvertiva senza il minimo dubbio… da un istante all’altro, milioni di cellule invisibili scomparivano e venivano immediatamente sostituite da altre cellule. Le cellule procariotiche non potevano vivere a lungo fuori dal loro strato d’acqua, quindi ogni cellula era solo una componente effimera della figura, ma la figura persisteva finché voleva, e non perdeva mai la propria identità. Eritro non aveva più assunto la forma di Aurinel. Aveva capito, senza che lei glielo dicesse, che quella forma la turbava. Adesso l’aspetto di Eritro era neutro, cambiava leggermente a seconda delle divagazioni mentali di Marlene. Eritro riusciva a seguire i lievi cambiamenti della struttura mentale della ragazza molto meglio di Marlene stessa, lei ne era convinta… e la figura rifletteva tali variazioni, ispirandosi alle immagini presenti di volta in volta nella mente di Marlene, poi, quando lei cercava di metterla a fuoco e di identificarla, la figura si trasformava dolcemente in qualcos’altro. Di tanto in tanto, Marlene coglieva di sfuggita qualche particolare: la curva della guancia di sua madre, il naso forte di zio Siever, alcuni tratti dei ragazzi e delle ragazze che aveva conosciuto a scuola. Era una sinfonia interattiva. Non tanto una conversazione tra loro quanto un balletto mentale che lei non era in grado di descrivere. Qualcosa di infinitamente riposante, di infinitamente vario… che in parte cambiava aspetto, in parte la voce, in parte i pensieri. Era una conversazione in tante dimensioni, e all’idea di tornare a un tipo di comunicazione unicamente verbale Marlene si sentiva spenta, scialba. La sua capacità di interpretare il linguaggio del corpo era sfociata in qualcosa che lei non avrebbe mai potuto immaginare. I pensieri erano molto più rapidi e profondi delle parole… imprecise, approssimative, grossolane… Eritro le spiegò, o meglio le trasmise, lo shock dell’incontro con altre menti. Menti. Plurale. Di fronte a un’altra mente, a una sola, forse Eritro non avrebbe avuto problemi di comprensione. Un altro mondo. Un’altra mente. Ma incontrare molte menti, che si accavallavano, tutte diverse tra loro, ammassate in uno spazio ristretto… Inconcepibile. I pensieri che permeavano la mente di Marlene mentre Eritro comunicava con lei non erano esprimibili a parole, se non in modo molto vago e insoddisfacente. Dietro quelle parole, molto più intense, prepotenti, c’erano le emozioni, le sensazioni, le vibrazioni neuroniche che riflettevano l’esperienza traumatica di Eritro. Aveva tentato il contatto con quelle menti… le aveva «tastate», «toccate», per modo di dire, perché non esisteva un termine umano in grado di esprimere appieno l’azione di Eritro. E alcune di quelle menti si erano disgregate, deteriorate, erano diventate sgradevoli. Eritro aveva cessato di tastare le menti a caso, aveva cercato invece delle menti in grado di sopportare il contatto. "E hai trovato me?" disse Marlene. "Sì." "Ma perché? Perché mi hai cercata?" chiese ansiosa Marlene. La figura ondeggiò e divenne più densa. "Solo per trovarti." Non era una risposta. "Perché vuoi che stia con te?" La figura cominciò a dissolversi… un pensiero fugace… "Solo perché ti voglio con me." E sparì. Solo la sua immagine era scomparsa. Marlene sentiva tuttora la sua protezione, il suo caldo abbraccio. Ma perché era sparito? L’aveva seccato con le sue domande? Marlene sentì un suono. Su un mondo deserto era possibile catalogare i suoni in breve, perché erano pochi… il rumore dell’acqua che scorreva, quello più delicato dell’aria che soffiava, i rumori prevedibili dei propri passi, il fruscio dei vestiti, il sibilo del respiro… Marlene udì qualcosa di diverso, e si girò nella direzione del rumore. Sull’affioramento roccioso alla sua sinistra apparve la testa di un uomo. Qualcuno della Cupola che era venuto a prenderla, pensò subito Marlene, arrabbiandosi. Perché continuavano a cercarla? D’ora in poi, si sarebbe rifiutata di portare una trasmittente, così non avrebbero più potuto localizzarla, se non muovendosi alla cieca. Però non riconobbe quella faccia, e ormai conosceva tutti gli occupanti della Cupola. Forse non sapeva i loro nomi, chi fossero, cosa facessero, ma era in grado di riconoscerli. Quella faccia… no, non l’aveva mai vista nella Cupola. Gli occhi la stavano fissando. La bocca era leggermente aperta, come se la persona stesse ansimando. Poi lo sconosciuto raggiunse la sommità dell’altura e corse verso di lei. Marlene non si mosse. La protezione che sentiva intorno a sé era forte. Non aveva paura. L’uomo si fermò a circa tre metri, imbambolato, piegandosi in avanti come se avesse di fronte una barriera impenetrabile che gli impedisse di proseguire. Infine, con voce strozzata, esclamò: «Roseanne!» LXXXIX Marlene lo osservò attentamente. I suoi micromovimenti erano smaniosi ed emanavano un senso di proprietà… possesso, intimità… mia, mia, mia. Marlene arretrò di un passo. Com’era possibile? Perché quello sconosciuto… Il ricordo vago di un’oloimmagine che aveva visto una volta da piccola… E alla fine, Marlene non poté più rifiutarsi di riconoscere. Per quanto sembrasse assurdo, inconcepibile… Rannicchiandosi nella cortina protettiva, disse: «Padre?» L’uomo si precipitò verso di lei quasi volesse stringerla tra le braccia, e Marlene arretrò ancora. Lui si fermò, vacillando, poi si portò una mano alla fronte come se stesse cercando di vincere un capogiro. «Marlene» disse. «Intendevo dire Marlene.» La pronuncia del nome era sbagliata, notò Marlene. Due sillabe. Del resto, come poteva sapere, lui? Arrivò un altro uomo, che si affiancò al primo. Aveva i capelli lisci, una faccia larga, occhi stretti, una carnagione olivastra. Marlene non aveva mai visto un uomo del genere, e per un attimo rimase a bocca aperta. Il secondo uomo si rivolse al compagno sottovoce, il tono incredulo. «È tua figlia, Fisher?» Marlene spalancò gli occhi. Fisher! Era proprio suo padre! Suo padre non si girò. Continuò a fissarla. «Sì.» L’altro abbassò ancor di più la voce. «Così d’acchito… centro al primo tiro, Fisher? Vieni qui e la prima persona che incontri è tua figlia?» Apparentemente, Fisher provò a staccare gli occhi dalla figlia, ma senza riuscirci. «Credo di sì, Wu… Marlene, il tuo cognome è Fisher, vero? E tua madre è Eugenia Insigna, giusto? Mi chiamo Crile Fisher, e sono tuo padre.» Tese le braccia verso di lei. Marlene sapeva perfettamente che l’espressione di desiderio intenso di suo padre era autentica, ma indietreggiò ancora. «Come mai sei qui?» chiese, gelida. «Sono venuto dalla Terra, a cercarti… a cercarti… dopo tutti questi anni.» «Perché volevi trovarmi? Mi hai abbandonata quand’ero piccola.» «Ho dovuto farlo, allora… ma con l’intenzione di tornare da te prima o poi.» D’un tratto risuonò un’altra voce, aspra, dura. «Così sei tornato per Marlene? Per nient’altro?» Eugenia Insigna era sopraggiunta, pallida, le labbra esangui, le mani scosse da un tremito. Alle sue spalle, Siever Genarr, stupefatto, si tenne in disparte. Nessuno dei due indossava la tuta protettiva. Concitata, quasi isterica, Eugenia disse: «Mi aspettavo di incontrare della gente di qualche Colonia, del Sistema Solare, magari qualche forma di vita aliena. Quando ho saputo che una nave sconosciuta stava atterrando, ho preso in esame tutte le ipotesi immaginabili. Ma non avrei mai sospettato che potesse trattarsi di Crile Fisher, che lui fosse tornato… e per Marlene!» «Sono venuto con delle altre persone, per una missione importante. Questo è ChaoLi Wu, un compagno di bordo. E… e…» «Ed eccoci qua, eh? Non hai mai pensato che avresti potuto incontrare me? Avevi in mente solo Marlene? Quale era la tua missione importante? Trovare Marlene?» «No. Non era quella la missione. Soltanto il mio desiderio.» «E io?» Fisher abbassò gli occhi. «Sono venuto per Marlene.» «Sei venuto per lei? Per portarla via?» «Pensavo…» iniziò Fisher, ma si bloccò. Wu lo osservò con aria stupita. Genarr corrugò la fronte, meditabondo, corrucciato. Eugenia si voltò di scatto verso la figlia. «Marlene, andresti con questo uomo?» «Io non vado da nessuna parte, con nessuno, mamma» rispose tranquilla la ragazza. «Ecco la risposta, Crile» disse Eugenia. «Non puoi abbandonarmi con una bambina di un anno, e tornare quindici anni dopo come se nulla fosse… così, dicendo: "Oh, a proposito, la bambina la prendo io, adesso". E senza degnarti di pensare a me. È tua figlia biologicamente, e basta. Per il resto è mia, mi spetta di diritto, per questi quindici anni di amore e di cure.» Marlene intervenne. «È inutile litigare per me, mamma.» ChaoLi Wu si fece aventi. «Chiedo scusa. Fisher mi ha presentato, ma le presentazioni non sono finite. Lei è, signora?» «Eugenia Insigna Fisher.» Eugenia indicò Crile. «Sua moglie… un tempo.» «E questa è sua figlia, signora?» «Sì. Marlene Fisher.» Wu accennò un inchino. «E quest’altro signore?» Genarr rispose: «Sono Siever Genarr, Comandante della Cupola che vedete dietro di me all’orizzonte». «Ah, bene. Comandante, vorrei parlarle. Mi spiace per questa discussione famigliare, ma non ha niente a che vedere con la nostra missione.» «E quale sarebbe la vostra missione?» bofonchiò una nuova voce. Una figura canuta stava avanzando verso di loro, la bocca piegata in un’espressione ostile, impugnando un oggetto che aveva tutta l’aria di essere un’arma. «Ciao, Siever» disse il nuovo venuto, superando Genarr. «Saltade? Come mai sei qui?» chiese Genarr, sorpreso. «Rappresento il Commissario Janus Pitt di Rotor… Le ripeto la domanda, signore. Quale è la vostra missione? E lei chi è?» «Non ho difficoltà a dirle almeno il mio nome» rispose Wu. «Sono il dottor ChaoLi Wu. E lei, signore?» «Saltade Leverett.» «Salve. Veniamo in pace» disse Wu, fissando l’arma. «Lo spero» replicò Leverett, truce. «Ho sei navi con me, e la vostra è sotto tiro.» «Davvero? Quella piccola cupola ha una flotta?» fece Wu. «Quella piccola cupola è solo un avamposto» ribatté Leverett. «La flotta c’è. Non è un bluff.» «Le credo. Ma la nostra unica nave viene dalla Terra. È arrivata qui grazie al volo ultraluce. Capisce a cosa mi riferisco? Alla capacità di viaggiare a una velocità superiore…» «Ho capito benissimo.» Genarr intervenne all’improvviso. «Marlene, il dottor Wu sta dicendo la verità?» «Sì, zio Siever» rispose la ragazza. «Interessante» mormorò Genarr. Wu disse calmo: «Sono lieto che questa signorina confermi quanto ho affermato. Per caso è l’esperta rotoriana di volo ultraluce? È questo che devo presumere?». «Non deve presumere un bel niente» sbottò Leverett spazientito. «Perché siete qui? Non siete stati invitati.» «No. Credevamo che qui non ci fosse nessuno, non pensavamo di disturbare. Comunque, la esorto a non perdere la calma. Una mossa falsa, e la nostra nave sparirà nell’iperspazio.» «Non è sicuro di questo» disse subito Marlene. Wu aggrottò le ciglia. «Sono abbastanza sicuro, invece. E anche se riusciste a distruggere la nave, la nostra base terrestre sa dove siamo ed è costantemente in contatto con noi. Se ci accadrà qualcosa, la prossima spedizione sarà composta di cinquanta incrociatori ultraluce. Non rischiate, signore.» «Non è vero» fu il responso di Marlene. «Cosa, Marlene?» chiese Genarr. «Che la base terrestre sa dove sono… e lui lo sapeva benissimo quando l’ha detto.» «Mi basta» annuì Genarr. «Saltade, questa gente non ha le ipercomunicazioni.» L’espressione di Wu non mutò. «Vi fidate delle supposizioni di una adolescente?» «Non sono supposizioni. Sono certezze… Saltade, ti spiegherò dopo. Credimi.» Marlene esclamò tutt’a un tratto: «Lo chieda a mio padre, glielo dirà!» Non capiva come facesse, suo padre, a sapere della sua dote particolare… lei non l’aveva, o almeno non l’aveva manifestata, a un anno d’età. Eppure Crile Fisher era al corrente di tutto. Per lei era lampante, anche se gli altri non vedevano. «Inutile, Wu» annuì Fisher. «Marlene ci legge dentro.» Per la prima volta, Wu parve scomporsi. Corrugando la fronte, disse aspro: «Che ne sai di questa ragazza, anche se è tua figlia? Quando l’hai la sciata era ancora in fasce!» «Avevo una sorella minore, una volta» fece Fisher sottovoce. Genarr ebbe un’illuminazione improvvisa. «È una caratteristica di famiglia, allora. Interessante… Be’, dottor Wu, come vede abbiamo qui uno strumento che non consente di bluffare. Quindi, siamo sinceri. Perché siete venuti su questo mondo?» «Per salvare il Sistema Solare. Lo chieda alla signorina, dal momento che è la vostra autorità assoluta… le chieda se dico la verità questa volta.» «Certo che sta dicendo la verità, dottor Wu» fece Marlene. «Sappiamo del pericolo. L’ha scoperto mia madre.» «E l’abbiamo scoperto anche noi, signorina, senza l’aiuto di tua madre.» Saltade Leverett li guardò perplesso. «Se è una domanda lecita… di che state parlando?» «Credimi, Saltade, Janus Pitt sa tutto» disse Genarr. «Mi spiace che non ti abbia informato, ma se adesso ti metterai in contatto con lui, ti spiegherà. Digli che questa gente ha il volo ultraluce, e che potremmo concludere un accordo.» XC I quattro uomini si trovavano nell’alloggio privato di Siever Genarr, all’interno della Cupola. E Genarr cercava di non lasciarsi sopraffare dal proprio senso della storia. Era il primo esempio di negoziato interstellare. Solo per quello, i nomi di loro quattro sarebbero echeggiati nei corridoi della storia galattica. Due e due. Da una parte, in rappresentanza del Sistema Solare (o meglio, della Terra… incredibile, quel pianeta decadente rappresentava il Sistema Solare, aveva messo a punto il volo ultraluce battendo le Colonie così aggiornate e dinamiche!) sedevano ChaoLi Wu e Crile Fisher. Wu era loquace e insinuante; era un matematico, ma possedeva chiaramente un acume pratico. Fisher (e Genarr stentava ancora a credere che fosse davvero lì) se ne stava in silenzio, meditabondo, partecipava poco alla discussione. Con Genarr c’era Saltade Leverett, sospettoso, a disagio per la presenza contemporanea di tre persone, ma deciso; gli mancava l’eloquio verboso di Wu, però sapeva esprimersi con la massima chiarezza. Quanto a Genarr, era silenzioso come Fisher, ma aspettava che loro risolvessero la questione… dal momento che sapeva qualcosa che gli altri tre non sapevano. Ormai era notte, erano trascorse molte ore. Il pranzo e la cena erano stati serviti. C’erano state delle pause per attenuare la tensione, e approfittando di una pausa Genarr uscì per vedere Eugenia e Marlene… «Non sta andando male» annunciò Genarr. «Entrambe le parti hanno molto da guadagnare.» «E Crile?» chiese Eugenia, nervosa. «Ha parlato di Marlene?» «Francamente, Eugenia, non è questo l’argomento della discussione, e lui non ne ha parlato. Però credo che sia molto infelice.» «È giusto che lo sia» fu il commento amaro di Eugenia. Genarr esitò. «Tu cosa pensi, Marlene?» La ragazza lo guardò coi suoi occhi scuri imperscrutabili. «Non m’interessa, zio Siever. La cosa non mi riguarda più.» «Un po’ crudele» borbottò Genarr. Eugenia scattò rabbiosa. «Perché non dovrebbe esserlo? Abbandonata nell’infanzia…» «Non sono crudele» disse Marlene, pensosa. «Se sarà possibile, farò in modo che la sua mente riacquisti la tranquillità, torni serena. Ma il mio posto non è accanto a lui… e nemmeno accanto a te, mamma. Mi spiace, ma io appartengo a Eritro. Zio Siever, mi dirai cosa decideranno, vero?» «Te l’ho promesso.» «È importante.» «Lo so.» «Dovrei essere là a rappresentare Eritro.» «Immagino che Eritro sia presente, comunque interverrai anche tu prima della conclusione. Te lo assicuro, e in ogni caso ci penserà Eritro a farti intervenire.» Dopo di che, Genarr rientrò per continuare la discussione… ChaoLi Wu si rilassò, appoggiandosi allo schienale della sedia. Sulla sua faccia astuta non c’era segno di stanchezza. «Vediamo di ricapitolare» disse. «Senza il volo ultraluce, questa stella, che chiamerò Nemesis, come voi, è la stella più vicina al Sistema Solare, quindi qualsiasi nave in viaggio verso le stelle dovrebbe per forza fermarsi qui, prima. Quando l’umanità avrà il vero volo ultraluce, comunque, la distanza non rappresenterà più un fattore determinante, e gli esseri umani non cercheranno la stella più vicina, bensì quella più adatta. Cercheranno stelle di tipo G, come il Sole, che abbiano almeno un pianeta di tipo terrestre. Nemesis verrà accantonata. "Rotor, che a quanto pare finora ha fatto della segretezza un feticcio, per tenere lontani gli altri e avere questo sistema stellare tutto per sé, non deve più preoccuparsi. Non solo le altre Colonie non vorranno questo sistema, può anche darsi che non interessi più nemmeno a Rotor. Volendo, Rotor avrà la possibilità di scegliere, di cercare una stella di tipo G, o delle stelle di tipo G… ce ne sono milioni nei bracci a spirale della Galassia. "Per avere il volo ultraluce, potreste pensare di ricorrere a un certo sistema: puntarmi un’arma e costringermi a rivelare tutto quello che so. Be’, sono un matematico, un teorico, e le mie informazioni sono limitate. Anche se doveste catturare la nostra nave, scoprireste pochissimo. Dunque, non vi resta che inviare una delegazione di scienziati e di tecnici sulla Terra, dove potremmo addestrarvi in modo adeguato. "In cambio, chiediamo questo mondo, che chiamate Eritro. Se ho ben capito, voi non lo occupate… c’è solo questa Cupola, che viene usata per osservazioni astronomiche e altri tipi di ricerca. Voi vivete su delle Colonie. "Mentre le Colonie del Sistema Solare possono allontanarsi in cerca di pianeti adatti, gli abitanti della Terra non possono farlo. Ci sono otto miliardi di persone che devono abbandonare la Terra in alcune migliaia di anni, e via via che Nemesis si avvicinerà al Sistema Solare, Eritro sarà utilissimo come scalo, servirà da stazione intermedia dove depositare i terrestri in attesa di trovare dei pianeti abitabili su cui trasferirli. "Noi torneremo sulla Terra con un rotoriano scelto da voi, per dimostrare di essere stati qui davvero. Saranno costruite altre navi, e torneranno… potete star certi che torneremo, perché abbiamo bisogno di Eritro. Quindi porteremo con noi i vostri scienziati, che apprenderanno la tecnica del volo ultraluce, tecnica che metteremo a disposizione anche delle altre Colonie. Bene, ho ricapitolato esaurientemente quanto abbiamo deciso?» Leverett disse: «La cosa non è così semplice. Eritro dovrà essere terraformato se dovrà accogliere un numero considerevole di terrestri». «Sì, ho tralasciato i particolari» annuì Wu. «Bisognerà occuparsi anche di quelli, ma non saremo noi a occuparcene.» «Vero… il Commissario Pitt e il Consiglio dovranno decidere per Rotor.» «E il Congresso Mondiale per la Terra. Ma vista la posta in gioco, non prevedo un fallimento delle trattative.» «Ci vorranno delle garanzie. Quanto possiamo fidarci della Terra?» «Quanto la Terra può fidarsi di Rotor, suppongo. Forse ci vorrà un anno per mettere a punto queste garanzie. O cinque anni. O dieci. In ogni caso, ci vorranno anni per costruire un numero sufficiente di navi con cui iniziare, ma abbiamo un programma che dovrebbe durare parecchie migliaia di anni, un programma, che si concluderà con l’abbandono della Terra e l’inizio della colonizzazione della Galassia.» «Sempre che non ci siano altre intelligenze in concorrenza con noi» borbottò Leverett. «Fino a prova contraria, non ci sono. Sarà il futuro a stabilirlo. Bene, adesso dovreste consultare il vostro Commissario, e scegliere il rotoriano che verrà con noi, così potremo ripartire al più presto per la Terra.» A questo punto, Fisher si sporse in avanti. «Se mi è consentito, io suggerirei di scegliere mia figlia Marlene come…» Genarr lo interruppe. «Mi spiace, Crile. Le ho parlato. Non vuole lasciare questo mondo.» «Ma… se sua madre la seguisse, allora…» «No, Crile. Sua madre non c’entra. Anche se tu rivolessi Eugenia, ed Eugenia decidesse di venire con te, Marlene rimarrebbe ugualmente su Eritro. E se decidessi di fermarti qui per stare con lei, sarebbe inutile lo stesso. L’hai persa, come l’ha persa sua madre.» Fisher sbottò rabbioso: «È soltanto una bambina. Non può prendere queste decisioni!» «Sfortunatamente per te, e per Eugenia, e per tutti noi, e forse per tutta l’umanità, Marlene può prendere queste decisioni. Infatti, le ho promesso che al termine della discussione le avremmo comunicato le nostre decisioni… E mi pare che adesso la discussione sia finita.» «Non credo proprio che questo sia necessario» osservò Wu. «Via, Siever» disse Leverett. «Non dobbiamo rivolgerci a una ragazzina e chiedere il suo permesso…» «Per favore, ascoltatemi» li esortò Genarr. «È necessario. Dobbiamo rivolgerci a lei. Lasciatemi fare un esperimento. Propongo di chiamare Marlene per metterla al corrente delle nostre decisioni. Se qualcuno è contrario, esca. Si alzi ed esca.» Leverett disse: «Ho l’impressione che tu sia uscito di senno, Siever. Non intendo giocare con una ragazzina. Parlerò con Pitt, adesso. Dov’è la tua trasmittente?» Si alzò e, quasi subito, barcollò e cadde. Wu scattò sulla sedia, allarmato. «Signor Leverett…» Leverett si drizzò e tese il braccio. «Qualcuno mi aiuti.» Genarr lo aiutò a rialzarsi e a tornare a sedersi. «Che è successo?» gli chiese. «Non so di preciso» rispose Leverett. «Una fitta lancinante alla testa, che è durata solo un attimo…» «Quindi non sei riuscito a lasciare la stanza.» Genarr si rivolse a Wu. «Dal momento che per lei è superfluo vedere Marlene, le spiace lasciare la stanza?» Circospetto, gli occhi fissi su Genarr, Wu si alzò lentamente dalla sedia, sussultò, e si sedette di nuovo. Disse garbato: «Forse sarà meglio vedere la signorina». «Dobbiamo» annuì Genarr. «Su questo mondo, almeno, la volontà di quella signorina è legge.» XCI «No!» disse secca Marlene, urlando quasi. «Non potete farlo!» «Non possiamo fare, cosa?» chiese Leverett, aggrottando le ciglia candide. «Usare Eritro come scalo… o per qualsiasi altra cosa.» Leverett la fissò rabbioso, e contrasse le labbra quasi si accingesse a ribattere, ma Wu intervenne. «Perché no, signorina. È un mondo deserto, inutilizzato.» «Non è deserto. Non è inutilizzato. Zio Siever, diglielo tu.» «Marlene intende dire che Eritro è occupato da innumerevoli cellule procariotiche capaci di fotosintesi» spiegò Genarr. «Ecco perché nell’atmosfera di Eritro c’è ossigeno.» «Benissimo» fece Wu. «E con ciò? Cosa cambia?» Genarr si schiarì la voce. «Individualmente, le cellule sono forme di vita molto primitive, appena superiori ai virus, ma a quanto pare non si possono considerare individualmente. Prese nel loro insieme, formano un organismo estremamente complesso, che abbraccia l’intero pianeta.» «Un organismo?» Il tono di Wu rimase garbato. «Un unico organismo, e Marlene lo chiama col nome del pianeta, dal momento che tra le due cose esiste un rapporto così stretto.» «Parla seriamente?» chiese Wu. «Come fate a sapere dell’esistenza di questo organismo?» «Soprattutto tramite Marlene.» «Tramite la signorina, che potrebbe essere… un’isterica?» osservò Wu. Genarr alzò un dito. «Non dica nulla di offensivo nei confronti di Marlene. Non so se Eritro, l’organismo, abbia il senso dell’umorismo… Principalmente, tramite Marlene, dicevo… ma non è tutto. Quando Saltade Leverett si è alzato per andarsene, è stato atterrato. Quando lei ha provato ad alzarsi poco fa, probabilmente per uscire, è parso chiaramente in difficoltà. Queste sono le reazioni di Eritro. Protegge Marlene agendo direttamente sulle nostre menti. Poco dopo il nostro arrivo su questo mondo, ha provocato senza volerlo una piccola epidemia di disturbi mentali, che noi abbiamo chiamato Morbo di Eritro. Volendo, temo che possa causare dei danni mentali irreparabili… e che possa anche uccidere. Vi prego, non mettiamolo alla prova.» Fisher disse: «Cioè, non è Marlene a…» «No, Crile. Marlene possiede delle capacità particolari, ma non arrivano al punto di nuocere. È Eritro che è pericoloso.» «E come possiamo neutralizzare la sua pericolosità?» chiese Fisher. «Ascoltando cortesemente Marlene, tanto per cominciare. E poi, lasciate che sia io a parlare con lei. Eritro, almeno, mi conosce. E credetemi, quando dico che voglio salvare la Terra. Non desidero affatto provocare la morte di miliardi di persone.» Si rivolse alla ragazza. «Marlene, capisci che la Terra è in pericolo, vero? Tua madre ti ha spiegato che il passaggio ravvicinato di Nemesis potrebbe distruggere la Terra.» «Lo so, zio Siever» disse Marlene, il tono angosciato. «Ma Eritro appartiene a se stesso.» «Può darsi che voglia essere più disponibile, allargare i contatti. In fondo, permette a noi della Cupola di restare sul pianeta. Sembra che non lo disturbiamo.» «Ma nella Cupola ci sono meno di mille persone, che rimangono nella Cupola. A Eritro la Cupola non dà fastidio, perché gli consente di studiare le menti umane.» «Potrà studiarle ancor meglio quando arriveranno i terrestri.» «Otto miliardi di terrestri?» «No, non saranno tanti. Verranno qui per sistemarsi temporaneamente prima di partire per qualche altra destinazione. Di volta in volta, su Eritro ci sarà soltanto una piccola parte della popolazione terrestre.» «Saranno sempre milioni di persone, questo è certo. Non potrete pigiarle tutte in una cupola e rifornirle di cibo, acqua e via dicendo. Dovrete spargerle su Eritro e terraformare il pianeta. Eritro non potrebbe sopravvivere, però. Dovrebbe difendersi.» «Sei sicura?» «Sì, dovrebbe difendersi. Non faresti così anche tu?» «Significherebbe la morte, per miliardi di persone.» «Non posso farci nulla.» Marlene serrò le labbra, poi soggiunse: «C’è un altro sistema…» «Di che sta parlando la ragazza?» sbottò Leverett, burbero. «Quale altro sistema?» Marlene gli lanciò un’occhiata, quindi si rivolse a Genarr. «Non lo so. Lo sa Eritro. Almeno… dice che questa conoscenza esiste, è presente… ma non riesce a spiegare.» Genarr alzò le braccia per evitare una raffica di domande. «Marlene, stai calma. Se sei preoccupata per Eritro, non serve. Sai benissimo che è in grado di proteggersi da qualsiasi cosa. Sentiamo… in che senso, Eritro non riesce a spiegare?» Marlene stava ansimando. «Eritro sa che questa conoscenza c’è, è presente, però gli manca l’esperienza umana, la scienza umana, il modo di pensare umano. Non capisce.» «Questa conoscenza è nelle menti presenti qui?» «Sì, zio Siever.» «Non può sondarle?» «Le danneggerebbe. Può sondare la mia mente senza danneggiarla.» «Voglio sperarlo» annuì Genarr. «Ma tu non sai di che si tratta, quale sia questo dato importante?» «Certo che no. Però Eritro può usare la mia mente per sondare le altre. La tua. Quella di mio padre. Tutte.» «Non è pericoloso?» «Eritro pensa di no, ma… oh, zio Siever, ho paura.» «Questa è una pazzia, sicuramente» mormorò Wu, e Genarr si affrettò ad accostare un dito alle labbra. Fisher si alzò in piedi. «Marlene, non devi…» Genarr lo bloccò con un gesto furioso. «Non puoi fare nulla, Crile. C’è in gioco la vita di miliardi di esseri umani, continuiamo a ripeterlo, no? Lasciamo che l’organismo ci aiuti come può… Marlene…» Marlene aveva strabuzzato gli occhi. Sembrava in trance. «Zio Siever» mormorò. «Stringimi.» Barcollando, incespicando, si avvicinò a Genarr, che l’afferrò e la tenne stretta. «Marlene… Rilassati… Andrà tutto bene…» Genarr si sedette adagio, reggendo il corpo rigido della ragazza. XCII Fu come un’esplosione silenziosa di luce che cancellò il mondo. Non esisteva altro. Genarr non era nemmeno consapevole di essere Genarr. La coscienza e l’identità non esistevano più… Solo una nebbia luminosa interconnettiva di grande complessità, che si stava espandendo e dividendo in fili che assumevano la stessa grande complessità nell’istante stesso della separazione. Un vortice, un dissolversi, poi di nuovo un’espansione graduale. Continuamente, ipnoticamente… come qualcosa sempre esistita, e che sarebbe sempre esistita, in eterno. Una caduta interminabile in un’apertura che avvicinandosi si allargava pur restando sempre uguale. Cambiamento continuo senza alterazione. Piccoli sbuffi che si spiegavano in nuova complessità. Incessantemente. Nessun suono. Nessuna sensazione. Nessuna immagine… La consapevolezza di qualcosa che aveva le proprietà della luce senza essere luce. Era la mente che diventava cosciente di sé. Poi, con dolore (se fosse esistito il dolore nell’universo) e con un singhiozzo (se fosse esistito il suono nell’universo), tutto cominciò ad affievolirsi e a ruotare e a vorticare, sempre più rapidamente, trasformandosi in un punto di luce che scintillò e sparì. XCIII La realtà era fastidiosa, invadente. Wu si stiracchiò. «È successo anche a voi?» Fisher annuì. Leverett disse. «Be’, io ci credo. Se questa è pazzia, siamo pazzi tutti.» Genarr stava ancora sorreggendo Marlene, era chino su di lei. La ragazza aveva il respiro irregolare. Fisher intanto si era alzato a fatica. «Sta bene?» «Non lo so» borbottò Genarr. «È viva… ma non basta.» Marlene aprì gli occhi. Il suo sguardo era vacuo, fisso. «Marlene» mormorò Genarr, disperato. «Zio Siever…» disse lei con un filo di voce. Genarr sospirò, risollevato. Almeno, lo aveva riconosciuto. «Non muoverti, cara. Aspetta che sia tutto finito.» «È finito. Ah, finalmente, sapessi come sono contenta…» «Ma stai bene?» Marlene indugiò un attimo. «Sì, mi sento bene. Eritro dice che sto bene.» Wu prese la parola. «Hai trovato questa conoscenza nascosta che dovremmo avere?» «Sì, dottor Wu.» Marlene si passò una mano sulla fronte umida. «Era proprio nella sua mente.» «Davvero? E cos’era?» «È una cosa che io non capisco» rispose Marlene. «Forse lei capirà se gliela descrivo.» «Se me la descrivi? Sentiamo.» «Ecco, sarebbe la gravità che respinge le cose invece di attirarle.» «Ah, la repulsione gravitazionale, sì» annuì Wu. «È un elemento del volo ultraluce.» Respirò a fondo, e il suo corpo si drizzò. «È una mia scoperta.» «Be’, se si passa vicino a Nemesis a velocità ultraluce, c’è questa repulsione gravitazionale. Maggiore è la velocità, maggiore è la repulsione.» «Sì, la nave verrebbe respinta.» «E Nemesis non verrebbe spinta nella direzione opposta?» «Sì, da una repulsione inversamente proporzionale alla massa, ma lo spostamento di Nemesis sarebbe infinitesimale.» «Ma ripetendo l’operazione per centinaia di anni?» «Lo spostamento di Nemesis sarebbe comunque piccolissimo.» «Ma la sua traiettoria verrebbe deviata leggermente e su una distanza di anni luce la deviazione aumenterebbe a poco a poco e alla fine Nemesis potrebbe passare abbastanza lontano dalla Terra e non avere più un effetto distruttivo.» «Be’…» disse Wu. Leverett chiese: «È fattibile una cosa del genere?» «Potremmo tentare… Se un asteroide passasse vicino alla stella a velocità normale, entrando nell’iperspazio per un trilionesimo di secondo e tornando nello spazio normale a un milione di chilometri di distanza… Oppure, degli asteroidi in orbita attorno a Nemesis… se continuassero a entrare nell’iperspazio sullo stesso lato…» Per un attimo, Wu si immerse nei propri pensieri. Poi, in atteggiamento difensivo: «Sicuramente ci sarei arrivato da solo, con un po’ di tempo a disposizione…» Genarr disse: «Nessuno le toglierà il merito, credo. In fin dei conti, Marlene ha preso l’idea dalla sua mente». Guardando gli altri, proseguì: «Bene, signori, a meno di terribili imprevisti, lasciamo perdere l’idea di usare Eritro come scalo… tanto, Eritro non ce lo permetterebbe comunque. Non dobbiamo più preoccuparci dell’evacuazione della Terra… basta che impariamo a sfruttare nel modo giusto la repulsione gravitazionale. Mi pare che la situazione sia migliorata parecchio grazie all’intervento di Marlene». «Zio Siever» disse la ragazza. «Sì, cara?» «Ho sonno.» XCIV Tessa Wendel guardò Crile Fisher, seria. «Continuo a ripetermi: "È tornato". Sai, pensavo che non saresti tornato, quando ho capito che avevate trovato i rotoriani.» «Marlene è stata la prima persona… la prima persona che ho trovato.» Crile aveva lo sguardo fisso nel vuoto, e Tessa non lo disturbò. Meglio che si capacitasse subito. Avevano tante altre cose a cui pensare. A bordo con loro c’era una rotoriana: Ranay D’Aubisson, un neurofisico. Vent’anni prima, aveva lavorato in un ospedale terrestre. Qualcuno certamente si sarebbe ricordato di lei e l’avrebbe riconosciuta. Ci sarebbero stati dei documenti che avrebbero permesso di identificarla. E Ranay D’Aubisson sarebbe stata la prova vivente della loro impresa. Wu era cambiato. Era pieno di idee, continuava a pensare a come sfruttare la repulsione gravitazionale per deviare la traiettoria della Stella Vicina. (Adesso la chiamava Nemesis, ma se fosse riuscito a elaborare un piano per spostarla anche pochissimo, forse non sarebbe stata affatto la nemesis della Terra.) E Wu era diventato modesto. Non voleva il merito della scoperta, il che a Tessa sembrava incredibile. Diceva che era un progetto d’equipe, e si rifiutava di aggiungere altro. E soprattutto, intendeva tornare nel Sistema Nemesiano… non soltanto per dirigere il progetto. Voleva stare lì. «Tornerò anche a costo di fare il percorso a piedi» erano state le sue parole. Tessa si accorse che Crile la stava guardando, leggermente accigliato. «Perché pensavi che non sarei tornato, Tessa?» Tessa decise di essere schietta. «Tua moglie è più giovane di me, Crile, ed ero sicura che non ti avrebbe consegnato tua figlia. E, dal momento che tu volevi tua figlia a tutti i costi, ho pensato…» «Che sarei rimasto con Eugenia pur di non perdere mia figlia?» «Più o meno.» Fisher scosse la testa. «No, sarebbe stato inutile, in ogni caso. Pensavo che fosse Roseanne all’inizio… mia sorella. Gli occhi, soprattutto… ma assomigliava a Roseanne anche in altre cose. Ma era molto di più di Roseanne, Tessa, Non era umana, non è umana. Ti spiegherò, poi. Io…» Scosse di nuovo la testa. «Non importa, Crile. Mi spiegherai con comodo.» «Non è stata una perdita completa. L’ho vista. È viva. Sta bene. E in fondo a me interessava questo, immagino. Non so, dopo… dopo la mia esperienza, Marlene è diventata… semplicemente Marlene. Per il resto della mia vita, Tessa, voglio solo te.» «Ti accontenti, Crile? Fai buon viso a cattiva sorte?» «Cattiva sorte? Tutt’altro. Divorzierò ufficialmente, Tessa. Ci sposeremo. Lascerò Rotor e Nemesis a Wu, e noi due potremo sistemarci sulla Terra, o su qualsiasi Colonia tu desideri. Avremo una buona pensione, e potremo lasciare agli altri la Galassia e i suoi problemi. Abbiamo fatto abbastanza, Tessa. Certo, sempre che tu sia d’accordo…» «D’accordissimo, Crile.» Un’ora dopo, erano ancora abbracciati. XCV Eugenia Insigna disse: «Meno male che non ero presente. Continuo a pensarci. Povera Marlene. Chissà che paura aveva!» «Sì. Però non si è tirata indietro, e grazie a lei la Terra è salva. Nemmeno Pitt può fare più nulla, adesso. In un certo senso, tutto il suo lavoro, il lavoro di una vita, è stato vanificato. Il suo progetto di costruire segretamente una nuova civiltà non ha più senso, non solo… ora Pitt deve collaborare al progetto per salvare la Terra. Deve. Rotor non è più nascosto. Possono raggiungerlo in qualsiasi momento, e il resto dell’umanità si schiererà contro di noi se non ci riuniremo ai nostri simili. E tutto questo non sarebbe successo senza Marlene.» Eugenia stava pensando a cose più modeste, non alla portata storica dell’avvenimento. «Ma quando aveva paura, Marlene si è rivolta a te, non a Crile.» «Sì.» «E sei stato tu a stringerla, non Crile.» «Sì, ma è stata una cosa normalissima, Eugenia, non interpretarla come un evento portentoso. Marlene mi conosceva, mentre non conosceva Crile.» «Sempre una spiegazione chiara e semplice, eh, Siever? Tu sei fatto così. Ma sono contenta che si sia rivolta a te. Lui non la meritava.» «Più che giusto. Non la meritava. Ma adesso, Eugenia… per favore, lascia perdere. Crile sta partendo. Non tornerà più. Ha visto sua figlia. L’ha vista trovare il modo di salvare la Terra. Non mi dispiace, questo… e non dovrebbe dispiacere nemmeno a te. Quindi cambiamo argomento. Lo sai che Ranay D’Aubisson parte con loro?» «Sì. Ne parlano tutti. Credo che non sentirò la sua mancanza. Mi è sempre sembrata poco comprensiva nei confronti di Marlene.» «Anche tu sei stata poco comprensiva con Marlene, a volte. Comunque, è una vera fortuna per Ranay. Quando si è resa conto che il cosiddetto Morbo di Eritro non era un campo di studio proficuo, il suo lavoro qui è andato in fumo, ma sulla Terra potrà introdurre la tecnica avanzata di analisi cerebrale, e avrà grandi soddisfazioni professionali.» «Bene. Buon per lei.» «Ma Wu tornerà. Un tipo molto acuto. È stato il suo cervello a partorire l’idea giusta. Sai, sono sicuro che quando tornerà per lavorare all’Effetto Repulsivo, il suo vero desiderio sarà di rimanere su Eritro. L’organismo di Eritro lo ha scelto, come ha scelto Marlene. E sai qual è la cosa ancor più strana? Credo che abbia scelto anche Leverett.» «Secondo te, che sistema usa?» «Intendi dire, perché ha scelto Wu e non Crile? Perché ha scelto Leverett e non me?» «Be’, mi rendo conto che Wu dev’essere un uomo molto più brillante di Crile… ma, Siever, tu sei decisamente migliore di Leverett. Sia chiaro, meglio così… non voglio perderti.» «Grazie. Suppongo che l’organismo di Eritro segua un criterio proprio, e penso addirittura di avere una vaga idea in proposito.» «Davvero?» «Sì. Quando la mia mente è stata sondata, tramite Marlene l’organismo di Eritro è entrato in noi. Ho intravisto di sfuggita i suoi pensieri, immagino. Non consapevolmente, certo, però quando il contatto è finito mi sembrava di sapere delle cose che prima non sapevo. Grazie alla sua strana capacità Marlene è in grado di comunicare con l’organismo e inoltre consente all’organismo di usare il suo cervello per sondare gli altri cervelli, ma penso che questo sia solo un vantaggio pratico. Secondo me, l’ha scelta per qualcosa di molto più insolito.» «Sarebbe?» «Immagina di essere un pezzo di spago, Eugenia. Cosa proveresti se all’improvviso, inaspettatamente, vedessi un pizzo? Immagina di essere un cerchio. Cosa proveresti se incontrassi una sfera arabescata? Eritro conosceva soltanto un tipo di mente… la propria. È una mente immensa, enorme, ma molto, molto pedestre. È quello che è solo perché è composta di trilioni di trilioni di unità cellulari, tutte collegate in modo irregolare, vago. "Poi Eritro si è imbattuto nelle menti umane, in cui le unità cellulari erano relativamente poco numerose, ma in cui c’era una quantità incredibile di interconnessioni… una complessità incredibile. Un pizzo, invece di uno spago. Eritro deve essere rimasto confuso, stordito, di fronte a tanta bellezza. E probabilmente, per Eritro, la mente di Marlene era la più bella di tutte. Ecco perché ha scelto lei, l’ha presa subito. Non ti comporteresti così anche tu, se avessi la possibilità di entrare in possesso di un Rembrandt o di un Van Gogh? Ecco perché l’ha protetta con tanta avidità. Non proteggeresti anche tu una grande opera d’arte? Eppure Eritro ha messo a repentaglio Marlene per il bene della Terra. È stata un’esperienza dura per Marlene, ma è stato un gesto molto nobile da parte dell’organismo… Comunque, ecco cos’è per me l’organismo di Eritro… Lo considero un intenditore d’arte, un collezionista di belle menti.» Eugenia rise. «Dunque, Wu e Leverett devono avere delle menti molto belle.» «Probabilmente sì, per Eritro. E continuerà la collezione quando arriveranno degli scienziati dalla Terra. Alla fine raccoglierà un gruppo di esseri umani completamente diversi dalla media, gente fuori del comune. Il gruppo di Eritro. Forse li aiuterà a trovare una nuova casa nello spazio, e alla fine forse la Galassia avrà due tipi di mondi… i mondi dei terrestri, e i mondi di pionieri più efficienti, i veri Spaziali. Chissà che situazione si creerebbe. Sicuramente il futuro sarebbe in mano loro. Un po’ mi dispiace.» «Non pensarci» si affrettò a dire Eugenia. «Lascia che sia la gente del futuro a occuparsi del futuro. Adesso, tu ed io siamo esseri umani che si giudicano in base a modelli umani.» Genarr sorrise felice, e il suo viso non propriamente bello ma simpatico si illuminò. «Sono contento che sia così, perché trovo che la tua mente sia bellissima, e forse tu trovi che la mia sia altrettanto bella.» «Oh, Siever, l’ho sempre trovata bellissima. Sempre.» Il sorriso di Genarr si spense un po’. «Ma ci sono altri tipi di bellezza, lo so.» «Per me, no, non più. Hai tutti i tipi di bellezza… Siever, abbiamo perso la mattinata, ma c’è ancora il pomeriggio…» «In tal caso, che altro posso desiderare, Eugenia? Se abbiamo perso la mattinata, poco male… l’importante è avere il pomeriggio tutto per noi.» Le loro mani si toccarono. Epilogo Di nuovo, Janus Pitt sedeva in solitudine. La nana rossa non era più uno strumento di morte. Era soltanto una nana rossa destinata a essere spinta da parte da un’umanità ancor più arrogante, sempre più potente. Ma la nemesis esisteva ancora, anche se non era più una stella. Per miliardi di anni, la vita sulla Terra era rimasta isolata, compiendo il proprio esperimento separato, con alti e bassi, fiorendo ed estinguendosi in parte. Forse c’erano altri mondi su cui esisteva la vita, ognuno isolato per miliardi di anni. Tutti esperimenti… tutti, o quasi tutti, insuccessi a lungo andare. Uno, due successi, forse, a giustificare tutto il resto. Questo, però, solo se l’Universo fosse stato abbastanza grande da isolare tutti gli esperimenti. Se fosse rimasto isolato come lo erano stati la Terra e il Sistema Solare, forse Rotor, la loro Arca, sarebbe stato un esperimento riuscito. Ma adesso… Pitt serrò i pugni, furioso… e disperato. Perché sapeva che l’umanità sarebbe passata di stella in stella con la stessa facilità con cui era passata da un continente all’altro, e ancor prima da una regione all’altra. Fine dell’isolamento, fine degli esperimenti autonomi. Il suo grande esperimento era stato scoperto, e rovinato. La stessa anarchia, la stessa degenerazione, lo stesso modo di pensare avventato e miope, le stesse disparita culturali e sociali, avrebbero continuato a prevalere… a livello galattico! Cosa ci sarebbe stato adesso? Imperi galattici? Tutti i peccati e le follie di un mondo estesi a milioni di mondi? Tutte le avversità le difficoltà orribilmente ingrandite? Chi sarebbe riuscito a capire una galassia, dal momento che nessuno era mai riuscito a capire nemmeno un mondo? Chi avrebbe imparato a interpretare le tendenze e a prevedere il futuro in una galassia brulicante di umanità? La Nemesis era proprio arrivata. FINE